sabato 27 settembre 2008

Letture / Il tuono tedesco

UNA SINGOLARE PREVISIONE DI HEINRICH HEINE SULLA FURIA DEI TEDESCHI SENZA IL FRENO DELLA CROCE. PAROLE CHE RISUONARONO AMMONITRICI PER CHI EBBE LA SVENTURA DI VIVERE NEL MATTATOIO NAZISTA E CHE OGGI POSSONO DISSOLVERE LA NEBBIA IDEOLOGICA SUL MALE ASSOLUTO

Il poeta Heinrich Heine (1797-1856) cantò gli Dèi in esilio, ironizzò molto sul cristianesimo, ebbe nostalgie soffuse dell’ebraismo delle origini, si inebriò della ‘critica della religione’ alla moda suscitando l’entusiasmo di Karl Marx, ma sulla amata e avversata Germania seppe fissare lo sguardo così in profondità da pronunciare, nel 1834, una ‘profezia’ del «tuono tedesco» di metà Novecento partendo dal ruolo storico della croce. Alcuni suoi lettori – a cominciare dall’aristocratico cattolico Friedrich Reck-Malleczewen nel sorprendente Tagebuch eines Verzweifelten (di cui esiste una vecchia traduzione Rusconi) – ricorsero a queste parole per meglio capire quel che accadeva nel mattatoio nazista, fenomeno atroce che le teorie politiche ed economiche di quell’epoca infausta non avevano saputo prevedere né spiegare affatto. Tantoché un acuto osservatore straniero se la prendeva in questo modo con la saggistica contemporanea: «naturalmente, sarà sempre possibile invocare le leggi economiche, le forze relative dei partiti e delle classi sociali prima del 1933, le circostanze politiche dell’Europa, il Trattato di Versailles, la decomposizione delle sinistre, il doppio gioco del grande capitale che da una parte sostiene Hitler contro i marxisti e dall’altra Papen contro Hitler: tutto questo sarà bello e buono, e fornisce materiale per i compiti ai marxisti e ai liberali. […] Resta da sapere perché ciò si è realizzato, eppure non ci parlano altro che del come […] Nel 1932, vi dimostravano, Il Capitale alla mano, che la situazione tedesca conduceva direttamente al comunismo. Quel che mi colpisce è la loro elasticità nell’errore. È bastato cambiare poco per ‘spiegare’ con gli stessi schemi che il contrario si è prodotto nei fatti… Ultima difesa del capitale, recitano senza stancarsi i marxisti. Isteria collettiva, dicono i razionalisti. Tirannia, sostengono i democratici. Altrettante parole vuote o menzognere per i fedeli del culto tedesco. Qui non si tratta altro che di religione» (così, quasi un commento alle parole di Heine, lo scrittore elvetico Denis de Rougemont nel suo Diario tedesco del 1935-1936).

Mentre si conciona di assoluto nella storia, di Male assoluto addirittura, ovvero di Satana o come si voglia chiamare chi si oppone al Bene assoluto, insomma di delicate questioni teologiche, è forse utile ricordare che, nella schermaglia ideologica, simili paroloni servono soltanto per ripetersi nei secoli se fu più schifoso il comunismo o il nazismo; che temibili risultano le formule giornalistiche in simili faccende; che è meglio seguire Heine quando prevede che, una volta tolto il freno della religione, con l’assolutizzazione della creatura in luogo del creatore, si produrranno sempre distruzioni immani su questa terra. Gli apocalittici dell’Ottocento avevano sostenuto che, abbattuta la religione cattolica, l’umanità si sarebbe scatenata nella matta bestialità – e questo non solo per mancanza di freno morale, bensì per collocazione ontologica, per rovesciamento del senso –, ma qui è il letterato che irride ogni bigottismo ed esalta le rivoluzioni dei francesi ad avvertire i suoi tedeschi della barbarie imminente, compresa la dimensione mondiale della esplosione e l’accenno alle battaglie in Africa, che ne accentuano la suggestione a posteriori. L’Europa – dice Heine – deve guardare con spavento il giorno in cui, dopo i vari tentativi ‘filosofici’ di cancellare il passato, si spezzasse la croce in Germania: ora non solo il nazional-socialismo provò ad annientare la tradizione ebraico-cristiana, ma ne offrì una versione parodistica, a cominciare proprio dalla croce, un indubbio gioco avanguardistico. Anche in questo caso, tra i démoni, si nasconde la banalità del male.


La filosofia tedesca è una faccenda importante, che riguarda l’intera umanità; solo i nostri pronipoti potranno dire se sia stato lodevole o biasimevole da parte nostra fare prima la rivoluzione filosofica e poi quella politica. A me sembra che un popolo metodico come è il nostro dovesse cominciare con la Riforma, occuparsi quindi della filosofia, e solo dopo averla portata a perfezione passare alla rivoluzione politica. Quest’ordine mi sembra molto ragionevole. La rivoluzione può far saltare come più le piace le teste che la filosofia aveva prima usato per pensare; ma la filosofia non avrebbe mai più potuto usare le teste che fossero state tagliate dalla rivoluzione, se questa l’avesse preceduta. Non abbiate però paura, voi repubblicani tedeschi; la rivoluzione non sarà certo più mite e dolce perché preceduta dalla critica kantiana, dall’idealismo trascendentale di Fichte e dalla filosofia della natura. Attraverso queste dottrine si sono sviluppate energie rivoluzionarie che attendono soltanto il giorno in cui potranno esplodere e riempire il mondo di orrore e ammirazione. Appariranno dei kantiani, che anche nel mondo fenomenico non vorranno saperne di pietà e sconvolgeranno spietatamente con la spada e la scure il terreno della nostra vita europea, per distruggere fin le ultime radici del passato. Entreranno in campo fichtiani armati, che sarà impossibile moderare con il timore e con il personale interesse, nel loro fanatico volontarismo; poiché essi vivono nello spirito e irridono la materia, come i primi cristiani, che non si riuscivano a piegare né con i tormenti corporei né con i corporei godimenti; anzi, questi idealisti trascendentali sarebbero – in un rivolgimento sociale – ancor più inflessibili dei primi cristiani, giacché costoro sopportarono la terrena materia per raggiungere in tal modo la beatitudine divina, mentre l’idealista trascendentale considera il martirio stesso vuota apparenza ed è irraggiungibile dietro il trinceramento del proprio pensiero. Ma più terribili di tutti sarebbero i filosofi della natura, che prenderebbero parte attiva a una rivoluzione tedesca e si identificherebbero con l’opera di distruzione. Infatti, se la mano del kantiano colpisce con fermezza ed energia, poiché il suo cuore non è turbato da alcun tradizionale rispetto; se il fichtiano disprezza coraggiosamente qualsiasi pericolo, poiché esso – per lui – in realtà non esiste; il filosofo della natura sarà tanto più temibile, in quanto entra in rapporto con le forze primigenie della natura, può evocare le energie demoniache dell’antico panteismo germanico e si ridesta in lui quel piacere alla lotta che noi ritroviamo negli antichi tedeschi e che si manifesta non per distruggere o per vincere, ma per il puro gusto della lotta.

In un certo modo il cristianesimo – e questo è il suo merito più alto – ha calmato la furia bellicosa di germani, senza peraltro eliminarla del tutto, e se un giorno si spezzasse la croce, il talismano che placa le passioni, si scatenerebbe di nuovo la violenza selvaggia degli antichi guerrieri, l’irrazionale brama di distruggere cantata dai poeti nordici. Quel talismano è rovinato e verrà il giorno in cui se ne verrà giù. Allora usciranno dalle loro rovine le antiche divinità di pietra, si toglieranno dagli occhi la polvere millenaria, e Thor, con la sua mazza enorme si ergerà pronto a distruggere le cattedrali gotiche… Quando, allora, udirete il baccano e lo strepito, guardatevi, voi francesi, dal mescolarvi negli affari che stiamo conducendo a termine a casa nostra, in Germania. Guardatevi dall’attizzare il fuoco, e guardatevi dallo spegnerlo. Le fiamme potrebbero bruciarvi facilmente le dita. Non sorridete se vi consiglio di diffidare dei kantiani, dei fichtiani e dei filosofi della natura, non sorridete del sognatore fiducioso che nell’ambito dei fenomeni avvenga la stessa rivoluzione che si è già compiuta nel mondo dello spirito. Il pensiero precede l’azione come il lampo viene prima del tuono. Il tuono tedesco, naturalmente, è di nazionalità tedesca, e quindi non corre con molta agilità, e il suo fragore si avvicina lentamente. Ma giungerà, e quando alla fine lo udrete brontolare come non è mai avvenuto nella storia del mondo, sappiate che il tuono tedesco ha finalmente raggiunto il suo obiettivo. A questo rimbombo le aquile cadranno morte dal cielo e nei deserti più lontani dell’Africa i leoni, con la coda tra le gambe, andranno a rintanarsi nelle loro caverne regali. In quel momento in Germania sarà rappresentata una commedia al cui confronto la rivoluzione francese sembrerà un gioco innocente.

(Heinrich Heine, Per la storia della religione e della filosofia in Germania)

mercoledì 17 settembre 2008

Arte estrema

L’ULTIMA, LA PIÙ DIFFICILE, SI METTE IN MOSTRA, ECHEGGIANDO LA STAGIONE AUTUNNALE, NELLA CITTÀ BAROCCA: L’ARS BENE MORIENDI, ANCHE NELLA VERSIONE DI SAN ROBERTO BELLARMINO DI CUI OGGI IL CALENDARIO CATTOLICO CELEBRA LA FESTIVITÀ

A uno che in questo giorno entra
solennemente nell’età della vecchiaia.

È vero, avevano ragione i poeti di sempre e i vecchi della nostra giovinezza, la vita è come un lampo, ora che siamo arrivati anche noi nei pressi della conclusione ci accorgiamo essersi trattato di un istante, più o meno dilatato, più o meno riempito, arricchito, di tornelli e di opere a modo loro preziose (la sterilità, da questo momento in poi, si paga cara). Parliamo dunque del più grande luogo comune, forse, dove si ritrovano popoli d’ogni dove e d’ogni millennio, quello che i più semplici ripetono a ogni passo, avversato però dai filosofi moderni che si sono scapricciati a introdurre distinzioni nello scorrere del tempo, che hanno provato a spezzarne il corso; avversato altresì dai giovani che non vogliono crederci con tutte le loro forze, che sperano sempre attraverso la più radicale delle rivoluzioni mentali di negare una tale verità, di allungare questo tempo, di rinviare l’appuntamento che stringe il cuore. Anche il loro sprezzo dei vecchi, presente in tutte le epoche, malamente corretto dalle buone maniere, è un esorcismo di quello stato.

Ma la rapidità mercuriale del passaggio all’ultima età, la delusione che si prova per il suo arrivo sempre troppo in anticipo, non impedisce di coglierne i meravigliosi quanto effimeri riflessi, soprattutto nella città barocca per eccellenza che a queste visioni improvvise e fugaci è dedicata. «L’amabile regno terreno», come diceva un prete-scrittore, si gode in modo particolare al tramonto. Così come nei giorni autunnali, quando tutto allude al declinare, una diversa passione si fa fremente. È l’ora di apprezzare l’essenziale. Un pane, un vino, questa l’arte di vivere. Ingrigiti, si dice, serotini sarebbe meglio, purpurei, autunnali, senza i contrasti netti della gioventù, ecco i frutti buoni della maturità. Ci si aggrappa ai corpi come i giovani si innamorano dell’anima (questi appaiono deboli nello spirito, ma nella età avanzata sono i corpi a essere fragili). E nel declino fisico c’è il medesimo incanto che si prova di fronte ai prodotti della terra in autunno, quando – nonostante l’estenuazione della lunga estate – sono ancora capaci di indorarsi mandando vibranti bagliori vermigli, in accordi struggenti che mai si videro nella fatua primavera.

Si mettono da parte gli artifici, i giochi, gli inganni dei giocatori. I premiati, senza merito, con un percorso più lungo nel cammino umano, sanno bene che nella vita, da un certo punto in poi, non si può più procedere per tagli, strappi, giri di pagina; che già tante ferite l’esistenza infligge e meglio sarà non aggiungerne altre crudelmente da parte nostra, anzi tutto andrebbe conservato e restaurato con cura religiosa. I gesti giovanili, irruenti, sovversivi, innovatori, mal si addicono a questa età.

Giocare col tempo quasi fosse una forma come un’altra, abolirlo con un gesto risibile, ferirsi il cuore – sia pure con accortezza e gradualità: si tratta di un potere che può esercitare soltanto Madama Morte. Perché mimarla? Soltanto essa contrae anni, abitudini, frequentazioni, carezze in un incorporeo ricordo, soltanto essa costringe ad abolire l’aspetto fisico. Il tempo quindi, lo spessore del tempo, non si può cancellare come fosse una brutta idea.

Il piacere di riconoscersi nelle metamorfosi biografiche, l’accarezzare con l’occhio le rughe, il gusto delle imperfezioni (coltivato dall’ebraismo che non si lascia abbagliare dalle estetiche della pienezza), il ricordo delle stagioni attraversate tra sofferenze e vittorie, il piccolo patrimonio di gioie, il gergo familiare, le miserie non più nascoste: forse sono queste le voluttà della seconda parte della vita.

Altro che i travestimenti giovanili che la società delle merci mette in commercio per nascondere la vecchiaia. Oggi il progresso si è incaricato di agevolare lo spettacolo degli adulti che imitano i giovani. Non bastavano più gli antichi trucchi di scena, le sordide tinture per capelli, con marroni e neri sempre sospetti – e le vecchine che piegano teste color carota, tonalità acide inesistenti in natura, per paura di quel bianco fiabesco che legava i nonni alla stagione invernale, al miracolo della neve , né creme per cancellare da una faccia le rughe e la vita, né i maquillage interminabili che una volta soltanto le soubrette non rassegnate continuavano imperterrite a imporsi fino alla più avanzata età. Insomma, i vecchi scompaiono dalla scena. Eufemismi, inganni concettuali (il patetico ‘si è giovani dentro’, per esempio) provano a cancellare questa età. Nella seconda parte del Novecento si ottennero miracoli medicamentosi, dentiere rivoluzionarie, sbalorditive cure per la schiena, lenti invisibili, intrugli portentosi per le calvizie, e le pillole, alcune misteriose come un elisir scientifico, con le leggende che promettevano di rallentare l’invecchiamento e che giungevano dalla Romania, terra di vampiri. Si trattava pur sempre di trucchi ingenui, che richiedevano una dose di fede, funzionavano solo tra complici coetanei; di fronte allo sguardo spietato di un bambino immancabilmente le vera età veniva fuori, e altrettanto succede a chi guarda – qualche decennio dopo – le foto di quegli esperimenti lontani. Allora, affinché l’intera umanità fosse libera di mimare la gioventù fino in fondo, non più con soluzioni posticce, passeggere e superficiali, ma lavorando nella carne viva, soffrendo e partecipando totalmente, sopraggiunse il contributo della medicina chirurgica. Corpi aperti e ricuciti, con i ferri clinici che si muovono a tagliare le vecchiezze, con apparecchi che risucchieranno il tempo, stenderanno la pelle, ricambieranno il sangue. Negli ospedali, nei solenni santuari del dolore, passano anche gli adulti a cui non bastano lo sport e gli espedienti scenici per restare giovani. Si infliggono la sofferenza fisica, offrono un sacrificio cruento per il culto del ‘fiore degli anni’. Ma non si libereranno più da questi chirurghi, sempre a distanze maggiormente ravvicinate bisognerà reintervenire, riaprire, tirare, suturare, sorreggere. Crolli improvvisi si accumuleranno, volti e corpi stravolti tenteranno di somigliare a quei giovani che erano, ma si ameranno sempre meno perché la somiglianza è ormai una caricatura. Ancora una volta questa corsa verso la gioventù prenderà una piega mortale, ogni mossa del chirurgo riuscirà a migliorare il suo capolavoro: un vivente che si trasforma in mummia.

Si ricorda invece nella nostra infanzia una specie di divisa da vecchi, abito severo del decoro, con la preferenza per il nero – nel corso delle stagioni cambiava soltanto la stoffa – , gli uomini con il panciotto sotto la giacca e la catena dorata dell’orologio, i cappelli per l’estate e l’inverno; né c’era caldo che poteva ridurre a sbracamenti, a fuoriuscita di carni vizze. E si videro principi della Chiesa novantenni celebrare con pesanti piviali di broccato e mitrie in liturgie interminabili, circonfusi di incenso, senza l’ausilio di ventilatori sotto l’altare, sfilare, una volta finita la cerimonia, con strascichi lunghi metri di porpora accesa sotto il sole, berretto in capo sovrastato quindi dalle falde del cappello cardinalizio e mantello, in paesaggi arsi del nostro Sud, tra folle altrettanto acconce e tra file di preti con abbottonatissime tonache e cotte e stole. La comodità, che è un concetto elastico, che non ha limiti e può dunque fare oltrepassare l’umana gravità, non imperava in quel tempo, la si riservava nel chiuso della propria casa.

Non andrebbe permesso a nessuno di celebrare l’età giovane, la stagione preparatoria, a scapito della nostra, offendendo la senescenza, anche se ormai l’impone il Moderno e già in Die Wahlverwandtschaften di Goethe leggiamo: «Questo è il guaio, – esclamò Edoardo – ora non si può imparare niente che valga per tutta la vita. I nostri avi si attenevano all’istruzione ricevuta in gioventù; ora invece dobbiamo rifarci da capo ogni cinque anni se non vogliano essere assolutamente fuori moda» (tr. it. Le affinità elettive, Utet, p. 58). Per la prima volta nella storia umana il senex veniva spogliato di ogni virtù. Ma si affermava un effimero più fugace della giovinezza, sempre a più rapida scadenza, in cui il sapere non si incarnava in alcuno, diventava astratto, così come adesso l’educazione permanente è piuttosto un ennesimo consumo inutile del cosiddetto tempo libero.

L’invenzione moderna della vecchiaia come quella dell’infanzia, d’altronde, serve per vendere una serie di prodotti che nascondono il tempo, una medicalizzazione continua, una infinita prevenzione che si salda alla terapia, tentando di annullare perfino gli acciacchi ma pagando tutto ciò con un’ansia, con una frequentazione clinica, un interesse ossessivo per i possibili guasti corporali, gli appuntamenti ospedalieri, i pellegrinaggi dai medici, la resa totale al punto di vista sanitario, con la salute come miraggio irraggiungibile ma ininterrottamente davanti agli occhi, i farmaci che scandiscono tutte le fasi del giorno, il cui elenco è un moderno libro d’ore. E nel cuore il mito della gioventù, cioè l’idolatria della fragilità mentale condita di spirito aggressivo.

Dio ci mantenga invece la capacità di affrontare il mondo con realismo, con vigore, conservandoci un po’ di forza, sia pur minacciata da più parti, quella risolutezza conquistata nei decenni, quel distacco glorioso dalle mode, dai vezzi, dalle schiavitù culturali. Che si abbia la capacità d’essere vegliardi nell’anima, emancipati per sempre da ogni residuo di gioventù. La vecchiaia è l’opposto di tutte le avanguardie. Letture per questa età estrema sono del resto i classici, libri ormai sottratti al tempo.

La Terza età si chiama, come quella vagheggiata da Gioachino da Fiore e che rappresentò un miraggio per tutti i triadici sulle orme dell’abate calabrese; là ci si sarebbe liberati dai vincoli della Legge. Sarà invece la morte a schiudere le porte del Regno celestiale in cui la Legge è abolita.

Lo sfondo

Perfetta è la città che ci attornia in questa arte estrema, non soltanto per l’esposizione permanente della morte di una civiltà, l’eterno funerale di un impero che si ripercuote in ogni dove, per l’immagine della dissoluzione di una potenza massima, per le rovine, i resti, ma per la scena barocca che è sublime accompagnamento del buon morire, del bel morire. Compiangiamo i nostri coetanei costretti a vivere i loro ultimi giorni in Florida o a Los Angeles. Qui, a differenza del Nuovo Mondo, c’è una straordinaria città di vecchi, un paese per vecchi, dove continuano tra l’altro a tener banco i problemi della nostra infanzia, dove forse per ideologico eccesso la storia è ferma all’ultima guerra o ai nostri esuberanti anni giovanili. Il tempo sembra non sia trascorso (poveri giovani, che conoscono dettagliatamente la sventata epopea dei loro padri come mai noi le più tragiche vicende delle guerre mondiali!), un unico, immenso, circolo di reduci. Ma qui la cerimonia degli addii può contare su un sontuosissimo palcoscenico.

«Especto resurrectionem mortuorum», attendo la resurrezione dei morti, la resurrezione della carne: nella Roma barocca risuonava la testimonianza di fede. I mistici, i predicatori e gli artisti, di questi corpi immortali parlavano. I cinque sensi ebbero il loro riconoscimento pieno, e la pittura, forse per l’ultima volta, fu specchio eloquente del ‘visibile’. La bellezza umana era al centro della considerazione nella città santa, ma una bellezza che appariva vulnerabile, esposta alle insidie della Morte: questo lo spettacolo barocco. Della corporalità ci dissero i poeti di allora. Il corpo è il teatro del disfacimento, l’erotismo può affiorare anche nel gusto di intravedere il segreto mortale. Delicato ritratto ne offriva il seicentesco poeta Giovan Leone Sempronio:

«Oh Dio, che cos’è l’uom? L’uomo è pittura
di fugaci color ornata e pinta,
che in poca tela e fragil lin dipinta
tosto si rompe e tosto fassi oscura».

La città e la morte si riflettevano in un gioco di specchi: è noto, papa Alessandro VII teneva nella sua stanza da letto la bara aperta già pronta e un modellino in legno della Roma che stava trasformando in chiave barocca.

A Roma, inoltre, «l’‘odore di santità’ – ricorderà Piero Camporesi – non era una semplice metafora ma qualcosa di più profondo: una presenza concreta […]. Gli odori del paradiso, ritrasmessi dai beati, erano avvertiti come reali da una emotività impressionabile ed eccitata pronta a captare – con una sensibilità oggi totalmente perduta – il sentore del soprannaturale, l’effluvio dell’uranico…».

Il fasto perenne della Roma barocca, i marmi assai pregiati e dagli effetti pittorici, gli ori e gli argenti puri, le porpore cardinalizie, i neri degli abiti gentilizi, le forme ingegnosissime dell’architettura e dell’urbanistica erano una anticipazione del Paradiso, una festa degli occhi, un conforto dell’anima. Con un virtuosismo portato alle stelle, si aprivano delle finestre in mezzo al cielo, si intravedeva tra le nuvole delle macchine berniniane confuse con quelle naturali la felicità fisica dei beati.

Bona corporis, i beni del corpo: di questo parlavano i santi, i predicatori, gli artisti. La «beata attesa» – come si dice nel linguaggio liturgico delle esequie – di ricongiungersi in Paradiso con il nostro corpo, la beata attesa – lunga un’intera vita, del corpo glorioso dell’aldilà – è comunque riempita di fisicità, scandita da eventi materiali. Vicende fosche che già nel Settecento ripulito facevano gridare ai secoli bui. Di oscurantismo e tanfo parleranno gli angelici moderni: «questa generazione che ha ‘abolito’ la morte, rimuovendola come una cosa indecorosa e sporca, sta rimuovendo anche la cucina-macello, la cucina sanguinolenta dove si apriva, si sbudellava, si sventrava, si scorticava, si trinciava […]. La cucina riflette il senso della morte, il rapporto che l’uomo ha col destino del suo corpo. L’effimero oggi condiziona tutto, ‘eternità’ è divenuta una parola interdetta, impronunciabile» (Camporesi spiegava in La carne impassibile) .

La meccanica del corpo. Le suore di Montefalco – di cui narra ancora il nostro Camporesi – che affondavano i coltelli nella carne e dischiudevano il corpo irrigidito della loro consorella Chiara, alla ricerca della sua santità. «Può sembrare sconcertante alla moderna sensibilità la disinvolta familiarità con cui le monache di Montefalco aprivano cadaveri, toglievano interiora, cuore, fegato, bile, sezionavano organi, trapanavano crani, estraevano cervelli, imbalsamavano carni, spolveravano mummie, dischiudevano e chiudevano casse mortuarie ritornando in contatto con cadaveri annosi. Ma le Montefalco erano ovunque innumerevoli». Salme che profumano, corpi sottomessi alle più fantasiose penitenze, sevizie sanguinose elevate al rango di preghiera, corpi volanti che sfidano le leggi di gravità, celebre quello di san Giuseppe da Copertino... Confidenza nel corpo che si è persa per strada nel corso degli ultimi due o tre secoli, fiducia nel corpo ora sostituita dalla fede nella scienza. Soltanto con il corpo c’era familiarità tra le folle che non conoscevano l’astrazione dell’alfabeto, soltanto il corpo era il grande mediatore con Dio.

In terra tedesca, l’autore più celebrato del giustamente lodato «teatro gesuitico», Jakob Bidermann, contemporaneo di Shakespeare che come lui spinse fino in fondo i registri del tragico e del comico, insegnò ai suoi studenti bavaresi – con l’autorità di un campione dell’ortodossia che finirà i suoi giorni a Roma come censore – l’importanza della vita materiale. Nella tragedia Philemon Martyr, Bidermann sembra mettere in scena l’adagio rovesciato: l’abito fa il monaco. Il mimo Filemone interpreta per soldi la parte del cristiano, ma una volta scattata l’imitazione e finito in quell’abito, una volta in quel ruolo, in quel corpo orante, «di colpo si accorge di aver indossato non solo l’abito ma anche l’anima cristiana», recita la didascalia di questo didascalissimo teatro. Teresa de Avila arriverà a dire che la bellezza dell’imitazione può essere superiore al modello.

«Specchio ribaltato del mondo del reale e della storia – dice lo storico della cultura materiale – il paradiso veniva immaginato come rifondazione totale della condizione umana, luogo dove la qualità della vita raggiungesse perfezioni assolute. Mondo rovesciato dove le malattie erano state debellate, la fame dimenticata, la corruzione della carne abolita, l’aromatico inalato perennemente invece del putrido». Ma bisognava avere attraversato la valle di lacrime e di sangue su questa terra in una dolorosa e sensualissima via crucis corporale per ascendere a un siffatto paradiso.

Con gli intellettualismi del Settecento ci si disabituò alle barocche prediche dei gesuiti sulla resurrezione, dove appariva «la centralità della nozione di piacere, di salute, di felicità corporale». Sul finire del secolo rococò i philosophes troveranno riprovevole, barbarica, ‘primitiva’ quella venerazione del corpo – paganesimo, si sentenziò sempre, sopravvissuto al cristianesimo –, una mancanza di respiro spirituale, di comprensione intellettuale che doveva astrarre dal dato materiale, in modo da reinterpretare il mito, superandone l’aspetto magico. Ebbene, il triste risultato fu che mai come nelle stragi rivoluzionarie e nelle guerre napoleoniche tanti corpi finirono sacrificati, e senza più alcun legame tra terra e cielo, senza alcuna ricompensa se non il ricordo della nazione, la memoria affidata a una statua di bronzo per riassumere tutti i morti, un’altra astrattezza, appunto. Quel materiale piacere che i predicatori gesuiti assicuravano in Paradiso scomparve di scena.

E si giunge al paradosso odierno per cui i principali iconologisti della cultura europea nell’interpretare dei dipinti di Piero della Francesca si avviluppano in errori a non finire sul terreno della teologia pur di trasformare il carnale nello spirituale, involontaria confessione del travisamento laico delle faccende cattoliche. Sarà il cappuccino padre Giovanni Pozzi, eruditissimo nella teologia come nell’arte, uno degli ultimi e rari maestri di fine Novecento, a rabuffare dal suo convento elvetico con parole che sconcertano soltanto chi ha smarrito anche gli schemi del catechismo: «quello di Cristo fu concepimento in assenza del maschio ma perfettamente carnale, e non si può chiamarlo spirituale in nessun modo, nemmeno riferendo l’epiteto allo Spirito santo che ne fu l’autore» (in «Maria tabernacolo» nella raccolta Adelphi Sull’orlo dell’invisibile parlare).

Quando uno storico delle religioni contemporaneo denuncia che «nel Nuovo Catechismo della Chiesa cattolica il paradiso conserva il suo ruolo tradizionale […], ma al passo coi tempi, nessuna concessione è fatta all’immaginario paradisiaco che pure per secoli ha animato il dibattito teologico», si sta parlando dello svuotamento di un antichissimo mondo di immagini, dove le figure si cancellano e al loro posto prendono stentata forma icone che mettono in scena idee filosofiche. Eclisse di immagini della vecchiaia, immagini della morte, immagini del Paradiso che illustravano i Novissimi, ovvero realtà che si presentavano concretissime, nient’affatto concettuali.

Corpo e tempo che lo modifica. Nella nostra società senescente, dove i giovani, per la prima volta nella storia, sono una minoranza, dove il caldo diventa tema fisso della pubblica conversazione perché l’Italia, l’Europa, è un immenso cronicario, per poi passare all’argomento ‘freddo’, piogge, colpi di tosse, malattie, Asl che non ce la fanno più, succhiano sempre maggior denaro, in poco tempo l’ospedale sarà il luogo sovrano, lo spazio pubblico per eccellenza. I corpi costantemente spiati, le innumerevoli analisi prescritte, per vedere dove si insinua la Morte. Oppure i corpi già deformati da malanni mortali, i reparti oncologici dove regna sovrana l’immagine di San Pio da Pietrelcina, i reparti d’ogni patologia con le macchine che interagiscono con i corpi, realizzazioni della fantasia di Villiers de l’Isle Adam dell’Ève future e di Jarry. Si dovrebbe meditare sulla panoplia degli infernali strumenti meccanici elettrici ed elettronici che si introducono dappertutto, peggio delle invenzioni sadiane. Nelle tante sconclusionate ricerche ‘estetiche’ che si avviano, colpirebbe al cuore una ‘sperimentazione’ che raccogliesse e mostrasse all’opera simili mostruosità.

Di una acquaforte di Rembrandt, Donna accanto alla stufa (1658), ha scritto Guido Ceronetti come della visione del corpo marchiato dal tempo. «La donna è nuda fino alla vita e ricupera dalla grande stufa in ceramica nell’ombra il calore che dà all’artista che la ritrae. Oggi sarebbe ritenuta una donna ancora giovane: potrebbe avere quarant’anni; e Rembrandt avrà sicuramente spiato anche in lei, specchio della propria paura di invecchiare, le tracce del tempo». «E certamente il modello non ignora di essere lì non per scaldarsi, ma per figurare il Tempo. E si vergogna di essere nata per il suo becco di rapace, di essergli esposta adesso, senza protezione di abito, né possibilità di fuga per la porta o qualcuna delle grandi finestre che danno sui traffici degli ebrei e il porto. Solo l’occhio dell’artista la consola, perché è l’occhio che ha più intensamente percepito la dolorosità soprannaturale del Tempo». I corpi maturi chiedono Benevolenza, Consolazione, Pietas. Viene in mente una frase stupenda dell’autore di Lolita: «‘Bellezza’ più ‘Pietas’: è la formula che più si avvicina a una definizione dell’arte. Dove c’è bellezza, c’è anche compassione, per la semplice ragione che la bellezza deve morire: la bellezza muore sempre, la forma muore con la materia…» (così Nabokov nelle sue lezioni universitarie; non ci si lasci mai tentare dall’allestimento di teatrini della crudeltà).

Torniamo a Ceronetti: «Rembrandt non ha bisogno di rappresentare il tempo mediante strumenti, clessidre, oriuoli, orologi a quadrante, teschi, cartigli; il suo orologio è la carne, l’essere umano di cui tutto il corpo è quadrante». Andrebbe sottolineato con vari cerchi a matita il suo orologio è la carne. «Marcel Brion ha ammirevolmente messo a fuoco il tempo rembrandtiano: ‘I suoi modelli fluttuano lungo le tappe brumose dell’invecchiamento’. E il suo massimo segnatempo è se stesso: l’autoritratto come serie fuggita degli anni […]. Il tempo rembrandtiano non è un’ora né una età, è quel che in Spinoza è detto sensazione e forma ideale non pervenute ancora all’assoluta oggettività del reale, fluctatio. L’Io e gli altri che abbiamo incontrato al mattino o al vespero, non sono realtà ma apparizioni contingenti. […] In Estremo Oriente la fluctatio non dà luogo a nessuna angoscia, la barca il vecchio, il ponte, la folla di Edo non provano nessun malessere per il proprio fluttuare nell’indeterminato; essere fumo per lo spirito dell’Oriente, non è più sconcertante che per la martora essere coperta di pelliccia. Rembrandt non si dà pace e questo lo rende superioramente umano. Tragica è la sua fluctatio, occidentale: Heu fugit, fugit inreparabile Tempus…». «La donna alla stufa oggi riceverebbe spintoni e frustate per diete e palestre di guerra totale ai chili e alle celluliti. Ma Hendrickije vive, pur messa sulla bilancia del Tempo, e misurata da un occhio attento alle modificazioni, in una verità dove non si pesa e non si è pesati, e la presa del Tempo è la sua fuga dal Tempo. […] Avere uno sposo che comunica attraverso i colori e gli inchiostri cogli angeli, uno sposo che a prezzo di grandi angosce riporta sulla terra l’annuncio ‘Il Signore viene’ (venire che annulla la violenza del Tempo – il Tempo accelera per accorciare) non toglie il decadimento però lo illumina. Oh certo avrà pensato: - Quell’uomo lì, che mi sorride malinconico, che mi tiene tra le sue mani i piedi, è Rembrandt!». (in L’occhiale malinconico).

Altrimenti, opposta alla confortevole figura di Rembrandt sta quella terribile evocata da Ernst Jünger nei suoi diari parigini: «Vi è un morire peggiore della morte, e consiste nel lento dissolversi che una creatura amata fa in sé della immagine con la quale vivevamo in lei. Noi ci spegniamo in lei con le nostre emanazioni. Questo deriva forse dall’oscuro irradiare che trasmettiamo. A poco a poco i fiori si richiudono in silenzio davanti a noi». Forse è un po’ lunga per una lapide, ma vale la pena dare qualche euro in più allo scalpellino, servirà anche da attenuante per i fiori dei sepolcri, di solito sciupati e spenti.

Il libro

La qualità della morte. Nel giorno della festa del santo gesuita, va ricordata l’ultima opera di Roberto Bellarmino, De arte bene moriendi per cui, sembra, anche Gian Lorenzo Bernini cambiò vita e diede una pia e fervente conclusione ai suoi ultimi anni. Il genere non era nuovo, lunga anzi la tradizione, i tanti materiali che componevano le centinaia di manoscritti intitolati Ars moriendi, Speculum artis bene moriendi. Savonarola, nelle sue austere prediche, non ne mancò una su questa fondamentale questione, ed Erasmo da Rotterdam, pur glaciale e ironico, si piegò a scrivere la sua Praeparatio ad mortem. Come ogni arte che si rispetti, quella esposta dal Bellarmino ha bisogno di regole e di esercitazioni, richiede una preparazione lunga una vita, ma è naturale che gli esercizi si intensifichino con l’accumulo degli anni. Allora bisogna meditare molto, quasi in uno specchio c’è da osservare la vecchiezza che procede. L’autoritratto da vecchio, questo genere barocco è richiesto come punto di partenza. Per punto di arrivo, l’arte estrema promette di raggiungere i risultati più brillanti, il Paradiso.

La morte non va considerata un bene, non è stata creata da Dio, dice il santo gesuita; la ‘sorella morte corporale’, espressione mistica e paradossale di Francesco, viene corretta. Però ci si può esercitare a trovar del vantaggio anche in queste faccende finali. Il gusto cattolico per risolvere l’aspetto tragico appare anche nell’opera del pur severo Bellarmino. «Morire al mondo prima che alla vita del corpo». Morire al mondo: alleggerirsi di tutti i fardelli che ci legano qui, ridurre la nostalgia. E cogliere piuttosto il dono presente che ci viene fatto. Ridicola è la superbia nei vecchi. L’accondiscendenza invece corregge nell’ultima età quella rigidezza fisica cui si è progressivamente costretti, addolcisce la sapienza accumulata, impedendo che si trasformi in arroganza. Altrettanto dicasi per la prontezza a lasciare il mondo, l’elasticità nei momenti supremi. Anche il dono delle lacrime invoca Bellarmino per seppellire i propri errori. Molto dice poi della ricchezza, che viene a mancare di fondamento perché la Morte, più potente di tutto l’oro del mondo, sradica pure i più doviziosi.

Ora che «avete tempo», ripete spesso nel libro ai suoi lettori, meditate sull’Inferno e sul Paradiso. Si richiede uno sforzo di immaginazione secondo gli insegnamenti di Ignazio di Loyola che, negli Esercizi spirituali, addestrava a fissarsi su delle immagini di paura e di piacere. Pensare uno spazio fisico per la felicità. Concepire l’eternità del senso, mentre quel che sembrava sensatissimo nella vita attiva, arrivati all’ora della partenza, si volatilizza. Lavori che parvero fondamentali, che ci incatenarono a impegni pressanti, risultano nel giro di pochi anni senza alcun valore, finché talvolta scompaiono dall’orizzonte (cambiano i mestieri, chiudono imprese che si presentavano come eterne). Il piacere immortale su cui San Roberto chiede di riflettere rallegra la nostra fine terrena. Conquistare una technè, un’arte che allontani, automaticamente si potrebbe dire, la paura della morte definitiva. La Chiesa cattolica ha sempre risparmiato ai suoi fedeli gli scrupoli eccessivi e i rimorsi. Perfino nel più grande e perciò più tremendo evento interviene con norme precise: rispettatele e non avrete più nulla da temere, dice. Espressamente Roberto Bellarmino offre consigli per sconfiggere la disperazione della brevità della vita terrena con l’eternità della vita celeste, certamente la più bella promessa fatta agli umani.


Una città per consolare della partenza

«È una grande cosa Roma per dimenticare tutto,
tutto disprezzare e morire»
Chateaubriand

Vivere la vecchiaia a Roma, «l’ultima capitale della resistenza alla modernità», come scriveva Marc Fumaroli. In una brillante sintesi, introducendo il catalogo su «Gli artisti francesi a Roma» per la grande esposizione Maestà di Roma (2003), offriva lo spirito del Génie du Christianisme: «I Padri del deserto sono gli antenati degli spiriti turbati e feriti moderni che, in mancanza della fede, cercano invano una tregua nella solitudine. Se il cristianesimo è riuscito ad attraversare vittoriosamente diverse forme di società e tutte le ‘rivoluzioni’ succedutesi in Europa dopo la caduta della Roma pagana, se la Chiesa durante i secoli bui è stata l’arca al riparo della quale le arti, le scienze, i costumi sono potuti fiorire, ciò è dovuto al fatto che essa è in possesso di due verità contraddittorie: l’idea della nullità di tutte le cose esclusivamente volute ed edificate dall’uomo, e l’idea del mistero dei doni divini la cui adorazione eleva l’uomo al di sopra del suo proprio nulla».

Roma come una Tebaide dove acquistare sapienza, ma una Tebaide opportunamente corretta dalla concezione occidentale del monachesimo che cancella la desolazione del deserto e la dissennatezza degli stiliti per sostituirla con l’hortus conclusus e l’hortus deliciarum della civiltà artistica cristiana, dove ci si aggira sagacemente scettici sul fondamento delle umane cose e benignamente positivi sull’universo meraviglioso nel quale ci è concesso vivere.

«La capitale in rovina dell’Antichità latina e la capitale ancora esistente del cattolicesimo – scrive Fumaroli – erano ambedue il contrario della nuova America e dell’Inghilterra, che rappresentavano agli occhi di Chateaubriand la nuova forma politica, essenzialmente utilitarista e mercantile, che stava assumendo la società moderna. […] Anche Roma e il papato non erano stati risparmiati dalla violenza che aveva alterato il volto di Parigi, ma avevano attraversato la prova e perseverato».

Città bradicardica, il tempo vi scorre più lento che in ogni dove, ecco il segreto. Lo scrittore francese annota nelle sue memorie dall’oltretomba letterario: «Ieri ho errato al chiaro di luna, tra Porta Angelica e Monte Mario. Si sentiva il canto di un usignolo in una angusta valletta circondata da canneti. Solo lì ho ritrovato quella melodiosa tristezza […]. Tutte le sue note erano abbassate di un semitono […] aveva l’aria di voler lenire il sonno dei morti». Chateaubriand, sotto l’influsso di Saturno, accentua i toni, nel gusto funereo che lo accompagna, è tentato di venire a vivere per sempre qui, «in uno dei più bei luoghi della terra, tra gli aranci e le querce verdi, con tutta Roma sotto gli occhi». Dove altro trovare nella vita quotidiana soggetti di contemplazione così elevati?

Nell’accelerazione degli ultimi anni, «i miei giorni fuggivano, a una velocità che mi terrorizzava», Chateaubriand scrive il capolavoro conclusivo, dove appaiono le definitive metamorfosi del corpo: La vie de Rancé. Nella sua introduzione, per giustificare il fatto che la sua opera dell’estrema vecchiaia non avrebbe la grandezza dell’opera finale di Poussin, scrive: «non sono Poussin, non abito sulla riva del Tevere e ho appena un pallido sole». Narrando la storia di un mondanissimo personaggio che un giorno, con il cadavere della sua ultima amante, entrerà in una trappa a espiare gli errori di gioventù, mettendosi a riformare il monachesimo, lo scrittore romantico disegna per l’ultima volta i salons e le loro vedettes, le dame affascinanti e argute, per poi divertirsi a mostrarcele vecchie e abbandonate dal mondo, spente per sempre le luci di quei salotti, mentre i lutti e i malanni si sono abbattute sulle eleganti vite. Addio alle feste, ai balli, alle passeggiate in calesse. È terribilmente vero,«quindecim annos, grande mortalis aevi spatium», come dice Tacito. In quell’arco di tempo si può passare dall’idilillio alla tragedia. L’amore «si ritira nelle rughe», come si esprime un cortigiano, già perché anche nella dimora del Re Sole la decomposizione del tempo avanza senza riguardi.

Forse appreso alla scuola di Roma, ma risolto in chiave più galante, meno liturgico, a un certo punto nel suo Rancé il visconte di Chateaubriand pronuncia un memento mori indimenticabile: «le danze si svolgono sulla polvere dei morti, e le tombe premono sotto i passi della gioia. Noi ridiamo e cantiamo nei luoghi arrossati dal sangue dei nostri amici. Dove sono oggi i mali di ieri? Dove saranno domani le felicità di oggi? Che importanza potremo dare alle cose di questo mondo? L’amicizia? Essa sparisce quando colui che è amato cade in disgrazia o quando colui che ama diviene potente. L'amore? È ingannato, fugace o colpevole. La fama? La condividerete con la mediocrità o il crimine. La fortuna? Si può mai considerare come un bene tale frivolezza? Restano i giorni detti felici che scorrono ignorati nella oscurità delle preoccupazioni domestiche, e che non lasciano all’uomo né voglia di perdere né voglia di ricominciare la vita».

Postutto, Rancé, infelicissimo, non amava Roma, ed essendo «invecchiato nel disordine», si dibatteva «dolorosamente contro un caos in cui il cielo e l’inferno, l’odio e l’amore si mescolano in una confusione agghiacciante». Una condizione moderna, si potrebbe dire, romantica. Nella città che «resiste alla modernità», i giorni dell’anno che declina possono invece ispirare ordinati pensieri sereni.

venerdì 12 settembre 2008

L'arte occidentale dell'imitazione

ANCORA SUL TEMA TRATTATO NELLA PRECEDENTE RUBRICA «IDOLA». LE CONSIDERAZIONI DI OSWALD SPENGLER, NELLA VESTE MENO NOTA DI STORICO DELL’ARTE, INTORNO AL RITRATTO

«L’imitazione è la vertigine degli spiriti agili e brillanti, e spesso anche una prova di superiorità»: suona ormai insolita questa citazione tra gli attuali cultori della ‘originalità’ e ancor più sorprendente è l’autore, Charles Baudelaire. Confusi e annoiati dai realismi prescrittivi, ideologici, dell’Ottocento, ci si incamminò per tutti i sentieri dell’astrazione, ripetendo in ogni arte un fatale periplo mesto e fuggendo così astutamente la realtà da finire spesso nel balbettio o nel mutismo, nella pagina bianca, nella tela strappata, nel silenzio ascetico. Senza conforto religioso però l’ascesi somigliava a una malattia, comunque a una dieta ospedaliera lunga un secolo. L’arte si impose dei tabù per paura di sfiorare la morte. Dopo che la fotografia e il cinema avevano fissato la realtà come perfetti imbalsamatori, l’arte riconobbe con terrore questa componente sinistra racchiusa in lei e non le restò che rinnegarsi completamente: preferì annunciare la propria morte piuttosto che ridursi a necrofora degli umani. Si propose ludica, concettosa, vantando la propria inutilità, a costo di risultare un segno dell’idiozia.

Agli inizi del Novecento qualcuno tentò, affrontando il mare magno della civiltà occidentale, di offrire un’altra, entusiasmante, versione del realismo che rivelava il profondo legame con la vita indicando allo stesso tempo le radici mortali di un particolare contatto con la realtà. Si legge nella fitta trama di Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, 1978):
«Ogni arte è una lingua dell’espressione. (…) Questa espressione è o ornamento o imitazione. […] Delle due, l’imitazione è senz’altro la più originaria […]. L’imitazione ha per punto di partenza un ‘tu’ fisiognomicamente colto, che spinge involontariamente a vibrare insieme a lui nel ritmo vitale […]. L’imitazione è nata nel ritmo occulto di tutto ciò che è cosmico. A un essere desto l’ ‘uno’ appare differenziato e distanziato: un ‘qui’ e un ‘là’, un qualcosa che è proprio e un qualcosa che è estraneo; un microcosmo in relazione con un macrocosmo, poli della vita dei sensi – dualità, questa, superata appunto mediante il ritmo dell’imitazione. Ogni religione esprime la volontà dell’anima desta di penetrare nel dominio delle potenze del mondo circostante; e l’imitazione, tutta religiosa nei suoi momenti più sacri, vuole lo stesso.
Infatti, è in un solo e medesimo dinamismo interiore che da un lato il corpo e l’anima, dall’altro il mondo circostante vibrano insieme e si unificano» (vol. I, pp. 290-91).
Oswald Spengler, nella veste meno nota di storico dell’arte, si prodiga nell’erotizzare il gioco dell’imitazione spiegando però dove si annida la trappola mortale che irrigidisce le figure di tanto realismo otto-novecentesco: «Soltanto ciò che è vivente può essere imitato e riprodotto», ovvero «solo l’arte sofisticata e disanimata delle metropoli finisce nel naturalismo inteso in senso odierno: imitazione degli stimoli dell’apparenza, dei fatti scientificamente accertabili nelle loro caratteristiche sensibili» (p. 292). La falsità dei rapporti nella metropolis può risultare un luogo comune dell’epoca ma l’apologia dell’imitazione – nell’èra dei trompe-l’-oeil della riproducibilità – è audace. Spengler insiste:
«[…] ciò che viviamo col vedere e l’udire e dietro al vedere e all’udire, è sempre un’anima estranea con la quale ci uniamo. […] appare in tutta la sua portata l’antitesi esistente tra i due aspetti di ogni arte: l’imitazione che anima e vivifica, l’ornamento che incanta e uccide. […] L’una è perciò affine all’amore e – nel canto, nell’ebbrezza, nella danza – soprattutto all’amore sessuale col quale l’esistenza si protende verso il futuro; l’altro è affine alla preoccupazione per il passato, alla memoria, alla sepoltura» (p. 295).
Tuttavia questo «elemento erotico» dell’arte non si limita al canto e alla danza, finalmente Spengler comincia con l’accennare al tema:

«Ma anche il ritratto ‘riuscito’ di una persona o di un paesaggio nasce dall’armonia sentita del movimento del disegno col vibrare segreto dell’elemento vivo di ciò che ci sta dinanzi. Qui agisce quella sensibilità fisiognomica, il cui presupposto è uno sguardo capace di percepire a nudo l’idea, l’anima dell’estraneo nel gioco dei suoi aspetti esteriori» (p. 291).


Il rito del denudamento qui menzionato non ha la faciloneria del naturismo contemporaneo, ricorda bensì quello sofferto di Agostino di Ippona, nell’autoritratto delle Confessioni, che affida alla nudità il nostalgico piacere del ritorno all’Eden. Spengler non si limita a sottrarre l’imitazione dal rigor mortis del naturalismo, distingue l’anatomia dell’imitatore greco dalla psicologia del ritrattista gotico-barocco.

«Ciò che per l’uomo antico significò il perfetto trattamento della esteriorità corporea (poiché questo è il senso ultimo di tutta l’ambizione anatomica degli artisti greci: esaurire l’essenza dell’apparenza vivente mediante la forma delle superfici esterne) per l’uomo faustiano divenne, coerentemente, il ritratto, espressione specialissima, ed essa solo esauriente, del suo senso della vita. […] Nudo e ritratto non sono stati ancora sentiti come un’antitesi e per questo non è stato nemmeno compreso il senso profondo che ha il loro rispettivo apparire nella storia dell’arte. Eppure tutto il contrasto fra due mondi si rivela solo nell’antitesi di quei due ideali della forma. Nel primo caso si rende visibile un essere nell’atteggiamento della struttura esteriore. Nell’altro parla la struttura interna, l’anima, come lo fa l’interno di un duomo mediante la sua facciata: parla il ‘volto’ in noi» (pp. 391-392).

Precisa più avanti:

«Un quadro ellenico dà il tipo di un atteggiamento, non è un ‘tu’, non è una confessione per chi lo crea o per chi lo osserva. I nostri ritratti descrivono
qualcosa di originale, ciò che è stato una volta e che più non torna, la storia di una vita nell’espressione di un momento, un centro cosmico per il quale tutto il resto diviene il suo mondo» (p. 393).

È una questione di tempo e di spazio.

«L’antica plastica è un’arte del vicino, del palpabile, dell’atemporale. Perciò essa predilige gli istanti brevissimi di immobilità che si intercalano fra due movimenti, l’ultimo istante prima del lancio del disco, il primo dopo il volo della Nike di Peonio, quando lo slancio del corpo è finito e le vesti svolazzanti non sono ancora ricadute – attitudine, questa, lontana sia dalla durata che dalla direzione, fissata di contro a futuro e a passato» (p. 393).

Passando poi a celebrare il ritratto ‘faustiano’ scrive:

«Il ritratto appartiene tanto alla natura che alla storia. Una tomba dei grandi Olandesi che dal 1260 lavorarono ai sepolcri dei re di St. Denis, un quadro di Holbein, di Tiziano, di Rembrandt o di Goya è una biografia; un autoritratto è una confessione storica. […] Quando il protestante o il libero pensatore insorgono contro laconfessione auricolare non si rendono conto di avversare non l’idea bensì solo una manifestazione esterna di essa. Essi si rifiutano di confessarsi col sacerdote, ma si confessano con sé
stessi, con l’amico o con la massa. Tutta la poesia nordica è una pura arte della confessione. Il ritratto di Rembrandt e la musica di Beethoven lo sono in non minore misura. […] L’autoritratto è l’esatta controparte dell’autobiografia sul genere del Werther e del Tasso, e l’uno quanto l’altra restarono affatto estranei al mondo antico» (p. 395).

Si scende nei dettagli:

«Il ritratto del periodo migliore del Barocco tratta il corpo come qualcosa di sé irreale, come spoglia espressiva di un Io dominatore dello spazio, usando a tal punto tutti i mezzi del contrappunto pittorico che abbiamo riconosciuto essere elementi rappresentativi di lontananze tanto spaziali che storiche, con la prospettiva,l’atmosfera immersa nel bruno, la pennellata mossa, le tonalità sfumate dei colori e delle luci» (p. 397).

Ancora una importante precisazione sui ritratti del mondo ‘greco’:

«Nell’antichità classica nasce un gusto per l’immagine dei caratteri, come nella commedia attica dello stesso periodo, in cui figurano solo tipi di uomini e di situazioni designabili con un dato nome. La qualità del ‘ritratto’ non è data dai tratti personali, ma soltanto dal nome che vi è scritto vicino. Ciò è di uso comune anche fra i bambini e i primitivi e ha una relazione con la magia del nome. Mediante il nome qualcosa dell’essere nominato viene legato magicamente all’oggetto e ogni osservatore ora va anche a vedervelo. Tali dovevano essere le statue dei tirannicidi ad Atene, quelle etrusche dei re sul Campidoglio e le figure ‘iconiche’ dei vincitori a Olimpia: non ‘rassomiglianti’ ma legate a un nome» (pp. 402-403).


L’apologia piega la storia, diviene cifra di una cultura secolare:

«Nella pittura a olio della fine del Rinascimento la profondità di un artista la si può misurare esattamente in base a ciò che nella sua arte ha carattere di ritratto. Questa regola non soffre eccezioni. Che si sia inteso fare ciò o no, tutto quanto viene raffigurato, siano singole persone oppure scene, gruppi e masse, ha significato di ritratto quanto a sentimento fondamentale fisiognomico. Ciò non dipendeva dall’artista come individuo» (p. 404).


L’arte del ritratto anticipa e supera l’impressionismo all’aria aperta (anche se, in verità, Spengler qui sembra piuttosto alludere all’eterno espressionismo tedesco piuttosto che al gusto francese):

«Come un quadro di Rembrandt con l’ornamentistica delle pennellate non fissa una riproduzione anatomica della testa, ma la seconda faccia in essa presente, nonl’occhio ma lo sguardo, non la fronte ma l’esperienza vissuta che vi traspare, non le labbra ma la sensualità – del pari la pittura impressionistica in genere non dà la sola facciata esterna della natura, ma insieme ad esso un secondo viso, lo sguardo, l’anima del paesaggio» (p. 432).

Con gli impressionisti siamo già arrivati alla fine, il tramonto della civiltà è annunciato da questa «arte pericolosa, scrupolosa, fredda, malata, adatta per nervi più che raffinati, ma scientifica fino all’estremo, forte in tutto ciò che è dominio delle difficoltà tecniche, esasperata nella sua programmaticità: è una satira della grande pittura a olio da Leonardo a Rembrandt» (p. 435). Dopo di che «ciò che oggi si fa nel dominio dell’arte è impotenza e menzogna» non senza peraltro avvertire che «ciò malgrado, come espressione e segno dei tempi bisogna considerare solo quest’arte (quella ‘impotente’ e ‘menzognera’ ndr) che corrisponde al gusto della gente colta. Tutto ciò che di contro a tale arte si ‘tiene attaccato’ agli antichi ideali, è pura faccenda da provinciali» (p. 444). In tal modo il critico della metropoli liquida con ancora maggior sprezzo ogni tentativo di arte pompieristica. Siamo allora bloccati in una superba cerimonia di suicidio. Da premesse come queste nacque la convinzione diffusa che se di arte bisognava proprio parlare ancora all’inizio del XX secolo non restava altro da fare che seppellire quella falsa e bugiarda (cioè borghese come la si marchiava) e attendere l’avvento della nuova (magari proletaria). Insomma non più una questione di forme, ma di apocalissi. Con i medesimi presupposti nacquero l’Avant-garde, il realismo nazional-socialista e il realismo bolscevico. Spengler comunque si guardò bene dal predicare un’arte nuova e ricoprì di violento sarcasmo coloro che, proclamandosi suoi seguaci, tentavano di tradurre nella politica nazista la sua critica al mondo moderno. Si poteva dunque concludere alla sua maniera «Ducunt fata volentem, nolentem trahunt» e fare buon viso al brutto gioco del mondo contemporaneo. Per circa un secolo si ebbero delle proibizioni ufficiali: il buon gusto nichilista e le dottrine dei regimi palingenetici condannavano l’espressione artistica individuale. Ci si poteva mettere al servizio degli ultimi della storia e riprodurre per loro un riassunto parodistico dell’arte borghese. Oppure parodiare l’arte per venderla così ridotta a pseudosofisticati borghesi. In tali traversie i ritrattisti furono scambiati per copisti.

(Si provi in una di queste giornate di fine estate a entrare nei Musei capitolini: per quanto distrattamente si attraversino le sale della scultura romana, saremo colpiti da molte facce, una folla di statue che somigliano impressionantemente ai volti visti per la città poco prima. I capelli o le calvizie, ma anche i toni sarcastici sono uguali a quelli del taxista che vi ha condotto qui o del barista che vi ha servito il caffé, e sembrano farsi gioco delle teorie sistematiche del pensatore tedesco. A distanza di duemila anni, un qualche legame con gli antenati è testimoniato nel marmo, nonostante le tante invasioni che hanno modificato l’etnia. Proprio nell’ultima e più grandiosa delle civiltà classiche si hanno quindi dei ritratti individualizzati come e meglio che nella scultura gotica che insegue la somiglianza con fatica tecnica. I visi dei senatori nascondono una smorfia di scherno: loro, pagani meridionali e misurati, cattolici almeno nel senso di gusto universale, conoscono l’arte del ritratto come i cristiani nordici e faustiani assetati di infinito, ne sono una prova che non è retorico definire vivente. Ma pragmatici come sono, paiono assicurare: una contraddizione nella teoria non basta a sconfessarla.)

martedì 9 settembre 2008

Risate di coccodrillo

UNA STAR DELL’ARCHITETTURA ATTUALE SI PENTE DI QUEL CHE HA FATTO FINORA, INSIEME AI SUOI COLLEGHI, NELLE CITTÀ DEL NOSTRO PIANETA, PARAGONANDO IL NUOVO SPAZIO ALLA SPAZZATURA. MA POI, SENZA LACRIME, SI ROTOLA GIULIVO IN TALE SPAZZATURA

Sono già trascorsi due anni da quando la maceratese Quodlibet ha pubblicato in prima edizione mondiale il ripensamento di un archistar che arriva a parlare di spazio-spazzatura per descrivere i risultati dell’urbanistica odierna, senza che una grande eco si levi intorno a questa confessione: i suoi fans non si danno alla disperazione, i suoi committenti pubblici non sentono il bisogno di dimettersi. Un recente articolo estivo sul «Corriere della Sera» a firma del medesimo archistar, ha appena suscitato qualche protesta professionale. Nessun clamore per la esclamazione che «il re è nudo», sfuggita non a un bambino innocente bensì lanciata a bella posta da un vecchio marpione.

Rem Koolhaas, l’autore di Junkspace, che ha lasciato un segno del suo modo di concepire lo spazio anche a Roma, nella trasformazione dei Mercati generali, è architetto di gran fama, di quelli che firmano i negozi Prada a Los Angeles e la sede televisiva della Cina comunista, o che progettano a gloria degli emiri negli Stati più schiavisti della terra. Eroe del decostruzionismo, ex sceneggiatore cinematografico che mette in scena la metropolis, ex giornalista che sa raccontarsi come piace alla gente bigotta nel culto del contemporaneo, in questo libello prende di mira e colpisce un secolo di architettura come neppure riuscirebbe a quei conservatori che si riuniscono intorno al Principe di Galles: «Il progresso non c’è più, la cultura barcolla di lato senza sosta, come un granchio fatto di Lsd» ammette.

Giocando sulla parola space-junk, la spazzatura spaziale, i rifiuti che l’uomo lascia sulla superficie del pianeta come negli abissi marini e in quelli celesti, rovescia i due termini e parla di junkspace, ovvero «ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso». Un’altra versione del post-moderno? Sì, con la differenza che alla fine degli anni Ottanta ci si esaltò per la riconciliazione degli stili dopo tante efferate partigianerie, tirando un sospiro di sollievo per la fine della lunga corsa progressista, ma subito celebrando l’insensatezza che regnava sovrana, come fosse un altro segno delle magnifiche sorti del percorso umano; adesso invece l’olandese viene a dire con il linguaggio concitato e balbettante dei suoi stili che l’attuale spazio urbano è una schifezza come i cumuli di monnezza che riempivano fino a poche settimane fa le belle strade di Napoli.

«Si scandisce a chiare lettere la fine dell’Illuminismo» – e di ogni ragionevolezza, si potrebbe aggiungere – con «la sua resurrezione come farsa, un purgatorio di basso livello». Finalmente ci si rende almeno conto che la parodia – tanto trionfante nei manufatti estetici degli ultimi decenni – è un purgatorio ridicolo. «Non lasciamo piramidi», dice, e non è affermazione di poco conto. Forse la principale critica nel solco della tradizione alla architettura e in genere alla estetica moderniste è proprio di non avere più puntato alla durata. «Nel XX secolo l’architettura è scomparsa»: che altro diceva Hans Sedlmayr incolpando di ciò il Bauhaus (almeno per il colpo finale)? «Abbiamo speso il nostro tempo a leggere al microscopio una nota a piè di pagina sperando che si trasformasse in un romanzo». Tenta di volare alto per narrare quell’aberrazione, imbellita dalle voci servili dei critici e giornalisti, ma quando si tratta di spiegare il trucco, di descrivere il meccanismo, viene fuori una assai misera cosa: «scale mobili, aria condizionata, sprinkler, porte tagliafuoco, lame d’aria… provocano il disorientamento con ogni mezzo (specchi, eco, superfici lucide…)». Dunque, disorientare (servendosi di trovate da baraccone dei mostri): un’architettura come narcotico di bassa lega, architetti come spacciatori di robaccia. Ben più serio sarebbe però domandarsi perché si commissionino spazi che disorientano i suoi fruitori, perché in un aeroporto o in un centro commerciale, piuttosto che proporre uno spazio confortevole, sensuale e avvolgente, ci si lasci vessare dai disorientamenti, dal senso del vuoto? Uno storico dell’arte che resiste alla voga ha spiegato che la civiltà europea esorcizzò il vuoto con la vanitas, riempiendola di mille splendori, arricchendo superbamente le sue superfici, trasfigurandola in cangianti immagini: tutto ciò fu l’arte occidentale. Mentre nelle distese americane si osò rispondere al vuoto con il vuoto, anche per gusto protestante. Adesso però la desolazione si è imposta travolgendo anche l’etica puritana, esibendosi sconciamente. Al di là delle cause comunque, viene anche da chiedersi: perché chi è costretto ad attraversare questi spazi, o peggio ad abitarli, non si muove incollerito contro tali aggressori della mente? Perché i vecchissimi sindacati permettono che i loro aderenti siano seviziati sul luogo di lavoro dalla capricciosa volontà estetica di sconvolgere i nervi e i corpi degli abitatori della metropoli? «L’urbanistica offre – dice lui, meglio sarebbe precisare: infligge – una esperienza spossante». Stanchi perché progettati così dai manipolatori dello spazio. E l’«euforia in scatola» è ancora più deprimente.

«Lo scialbo è diventato l’unico terreno di incontro tra il vecchio e il nuovo…», il banale è la cifra di questi spazi: che altro ripetono con il rischio dell’ossessività i critici conservatori? Gli apologeti delle opere di Koolhaas si affaticano a nascondere o negare la scontata verità. Trattasi proprio di scialbo, di sciocchezzaio. «Una vacuità risibile pervade […] gli abbracci incerti che gli architetti-star mantengono in presenza del passato», giunto alla maturità l’autore si accorge perlomeno che gli manca il terreno sotto i piedi, per un costruttore è fatale. «Il junkspace ti rende incerto su dove sei, rende poco chiaro dove stai andando, distrugge il luogo dove eri. Chi pensi di essere? Chi vorresti essere?». Perché mai si insegue un simile piacere del babelico? L’architetto ha perso le velleità redentrici del modernismo e si limita a sponsorizzare «una minacciosa collettività di consumatori in sicura approssimazione dei loro prossimi acquisti […]. Il soggetto è svuotato della sua privacy in cambio di un nirvana di credito». Già detto, e da decenni, dai fustigatori francofortesi quando criticavano le forme totalizzanti del consumo; da un architetto par suo ci si attenderebbe qualcosa di più specifico. Insomma, risulta una critica ingenua, che usa espressioni abusate per denunciare il mondezzaio che la sommerge, discorso che non riesce a stabilire una qualche distanza con il suo oggetto, quasi fosse adescato perversamente da quel tanfo. Un’altra faccia dello Zeitgeist.

Si concorda almeno quando dice: «‘capolavoro’ è diventata una sanzione definitiva, uno spazio semantico che salva l’oggetto dalla critica, lascia la sua qualità non provata». Lo stesso vale per tutte le manifestazioni dell’arte modernista e per la complicità della critica sempre sospetta. «Capolavoro è una tipologia corrente».

Ma poi si lascia sfuggire un «fascismo latente». In altre parole, Koolhaas rivela nascondendo a stento il piacere che si tratta di «un fascismo senza dittatore». Affermazione pesante che, una volta appurata, meriterebbe come minimo una qualche preoccupazione: ci sarebbe dunque a parer suo un nuovo squadrismo in giro per il mondo, quello con il tono intimidatorio delle avanguardie, un fascismo estetico, parola di un reo confesso. E invece, con il sorriso ebete del violento, la frase serve soltanto a intensificare il nichilismo sempre di moda, a illividire lo spettacolo urbano. Si parla perciò di «ecofascismo benigno», come nessun revisionista oserebbe, annegando nella melassa i cattivi della storia. Insiste con stupore: «il junkspace è senza autore, e tuttavia sorprendentemente autoritario… Nel momento della sua più grande emancipazione [sic], il genere umano è soggetto alle trame più dittatoriali»: «assemblee di concentramento, film di concentramento, cultura di concentramento». Appiattendo così le orribili macellerie del Novecento, mischiate all’architettura decostruzionista, si libera il Führer dalle sue colpe, quasi fosse un semplice urbanista scriteriato, e si fa dei Lager uno sfondo estetico violento, un filmetto horror, per mordere l’accidia metropolitana.

Lui continua a vivere in questa cultura ad alto rendimento per le sue star, dove manca la fede in quel che si fa e ci si atteggia per i lettori più ingenui a bruti per forza di cose, a bruti appagati, provando grande diletto a dimostrare che altri orizzonti non sono dati. Un tempo si fu hegeliani del crimine per fedeltà al senso della storia, più tardi ascetici per weberiana virtù borghese, ora per moda contemporanea ci si immerge, martiri neo-stoici, nella spazzatura.