giovedì 3 luglio 2008

Libri / La carne, la morte e il diavolo nascosto nell’artista

In tempi di linguaggio anoressico, leggere in un titolo due parole ormai insolite come La pittura carnale, può far sobbalzare, riandando magari con il pensiero al felice ossimoro per mezzo del quale Antonio Paolucci ha svelato in una mostra recente l’opera di Guido Cagnacci: «anima carnale». Purtroppo qui, sotto l’inganno del bel titolo, si tratta piuttosto delle elucubrazioni di Merleau-Ponty, dove tutto viene rovesciato in un solipsistico discorso per cui, ad esempio, non è il pittore che guarda le cose bensì, schema assai allucinato, son le cose che guardano il pittore. Perfino i termini più materialistici come corpo e carne prendono a trasformarsi fino a volatilizzarsi nella prosa manierista della fenomenologia francese. Scende una nebbia fastidiosa che dovrebbe togliere la pesantezza ai corpi, la confortante pesantezza dell’essere che proibisce di dissolversi nelle futilità soggettive, entra in scena la terminologia psicoanalitica a disturbare la calma delle donne di Botticelli, ci si inebria con Klee a cancellare le figure in uno scherzo seriosissimo. Su queste orme del francese husserliano (che è già una vera disarmonia), l’autore della Pittura carnale riesce a farne una apologia dei prodotti estetici contemporanei, quanto di più inutilmente ascetico si possa fantasticare, senza neppure avvertire il piccolo dramma della «meravigliosa carnalità della vita divina», secondo l’espressione di Cristina Campo, ferita dalla Riforma e dall'Illuminismo. Però, in appendice a simili verbosissimi trompe-l’œil tradotti in italiano da il Saggiatore, si pubblica un prezioso racconto di Honoré de Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu, quasi a conferma delle teorie esposte nel libro. Verrebbe voglia di dire: saltate le pagine che lo precedono, correte a leggere una invenzione letteraria tanto paradigmatica.

Siamo nei primi del XVII secolo, il giovane Poussin bussa speranzoso allo studio di Porbus e qui, insieme al maestro riverito, incontra una singolare figura di artista: Frenhofer. Sarà l’uomo dal nome tedesco a iniziare gli altri due a uno straordinario esperimento che sta conducendo in segreto da lunghi anni. Si tratta di oltrepassare la pittura come la si è concepita in Occidente da tanti secoli, per non dire da sempre. L’artista esce dai suoi canoni per cercare l’Assoluto, la pittura pura. Ora siccome la pittura è sporcata dalla materia, le tele, gli olii, le tempere, i diluenti, i grassi, le colle, i pennelli, tale purezza cancella proprio la tecnica del dipingere che diventa tanto immacolata da non apparire più. Ma che cosa è un’arte visiva che non è visibile? Un esperimento mentale, una notte mistica, una riflessione indicibile. Tale è l’avventura di Frenhofer che anticipa quelle di tutti coloro che pretendono di fare un’arte che non vuole più rappresentare la realtà. Balzac sembra allora trasformarsi nel santo cavaliere di tutte le avanguardie, il patron dei contemporanei. E, a sua volta, sembra pure riprendere temi e tormenti di letterati romantici tedeschi, in primis Hoffmann, che volevano contrapporre una esoterica e astratta arte nordica, tedesca, protestante, a quella tradizionale, carnale, pagano-cattolica. Senonché Balzac è un conservatore, geniale scrittore dell’assennatezza, e fedele alla Chiesa di Roma: «Scrivo alla luce di due verità eterne, la Religione e la Monarchia… verso le quali ogni scrittore di buonsenso dovrebbe cercare di ricondurre il nostro paese» (Avant-propos del 1842). Come è dunque possibile che egli sia l’autore di questo «catechismo estetico» dei moderni?

Il fatto è che l’inventore di Frenhofer non sembra volere abbracciare i suoi personaggi finiti nel gorgo del sogno prometeico di reinventare l’arte, anzi Le chef-d’oeuvre inconnu è il doloroso racconto di un impazzimento. «È più poeta che pittore» fa dire a Poussin di lui: in quel tempo – nel secolo barocco che i francesi intitolano classico – Pascal colloca la poesia, la letteratura, su un gradino gerarchicamente superiore all’arte di dipingere, che comincia lentamente, ancora ammantata dallo splendore di Rubens o di Piero da Cortona, a perdere colpi. La parola si emancipa da tutto e conosce il suo maggior trionfo, l’alfabetizzazione che mette in riga i popoli renderà sempre più inutile la Biblia pauperum della pittura. Il gramo omaggio alla parola rappresentato dai rebus di Magritte e compagni in cabbale burlone, per non dire del meschino abbarbicarsi ai discorsi aggrovigliati dei cataloghi e delle didascalie con cui le gracili immagini del nostro tempo tentano di tenersi in piedi, sono un segno di tale sconfitta storica. D’altra parte, già gli artisti romantici si rigirano in concetti e oziosa indeterminatezza piuttosto che nelle messe in scena su tela o su parete di idee pittoriche. Non dimentichiamo che anche il giovane Werther fa il pittore che non dipinge mai, legge sempre, dipende dai libri, costruisce un unico capolavoro: la propria morte.

Si incammina verso un probabile suicidio, o morte per sofferenza troppo acuta, anche Frenhofer. In balia dell’arbitrio soggettivo, della instabilità che perseguita l’autore mai soddisfatto e che si ripercuote sull’opera destinata a non concludersi mai, a non trovare per definizione un suo punto di arrivo, e quindi una sua perfezione, diventando eterno work in progress (dove lo spaventoso non risiede soltanto nell’interminabile progresso, che non conosce quiete, ma anche nel lavoro, che non diventa mai opera realizzata, restando sempre esperimento, laboratorio, elaborazione interminabile, fatica…).

Prima della sua morte, al termine di una scena madre in cui le innumerevoli intenzioni di Frenhofer vanno a cozzare con gli esiti desolanti o quantomeno impossibili, concludono i due testimoni: «Là, riprese Porbus toccando la tela, finisce la nostra arte su questa superficie. – E di là va a perdersi nei cieli, dice Poussin». Anche della nostra disastrosa bancarotta si sta parlando, quella che si ripete da oramai quasi due secoli. Lo spirituale nell’arte, ma senza paradiso, con un po’ d’inferno ridicolo. Solo l’olimpico Picasso poteva spingersi a disegnare il racconto balzachiano della pittura impossibile, e a rivestire i panni dell’illustratore, abbastanza superbo per il talento immenso da non temere alcun ruolo artigianale.

Il povero pittore dell’Assoluto si disperò con i due sodali che non vedevano nulla: ma come, anche tu Porbus, che sei un mio buon amico – implorava – dici che non c’è nulla? Quindi, accecato nella ragione e nei sentimenti, urlava che aveva speso dieci anni della sua vita per creare un quadro invisibile. Si vogliono realizzare opere estremamente sofisticate ma poi si invoca sempre una qualche complicità. Magari ci si taglia il lobo dell’orecchio e lo si porge in omaggio amicale. Frenhofer si sedette e pianse: «sono dunque un imbecille, un pazzo… Non ho prodotto nulla!». Sempre più folle, parlò allora in nome di Cristo, come tutti gli invasati si sentiva ormai sacerdote, angelo di Dio invece che pittore, forse addirittura un Dio impotente, chenotico. Questo l’eroe balzacchiano della non-arte contemporanea, secondo i suoi esegeti.

Se ci fossero molti dubbi su come la pensa Balzac a proposito del capolavoro impossibile, l’autore stesso potrebbe aiutarci a disperderli. Per esempio, quando afferma che «se l’artista contempla le difficoltà invece di vincerle una a una […] l’opera resta incompiuta e perisce […] mentre l’artista assiste al suicidio del suo talento» (La Cousine Bette). Probabilmente è un tentativo di esorcizzare le ossessioni che pur dovettero cogliere Balzac nel suo progetto iperrealista. Goethe scrisse il Werther per non soccombere alle pene amorose, il romanziere francese per non lasciarsi stregare dai sempiterni rimorsi estetici. Con tale racconto filosofico, con la rappresentazione di un tentativo di arte sperimentale che fallisce di fronte a due grandi testimoni, due pittori fedeli alla committenza, al lavoro onesto, spesso servile, è l’equilibrio che vince. Così Balzac «si è salvato dall’abisso del perpetuo ricominciare, è sfuggito alla disaggregazione che provoca l’analisi. […] Frenhofer, Balzac lo ha sottolineato, è diabolico: posseduto dalla ‘spirito che tutto nega’» (Pierre Laubriet)

Per fortuna che è ancora rintracciabile una edizione Passigli dello Chef-d'oeuvre inconnu, datata 2001: ci eviterà di dover leggere Balzac attraverso lo specchio opaco delle nostre scempiaggini contemporanee. Di fronte a un capolavoro, gli schemi comunque che cosa contano? Frenhofer ci può apparire inviso fin dalle prime scene, con la sua teorica insistenza per far scomparire il disegno dall’arte, in questo rivelandosi precursore prodigioso dell’informe prodotto nell’ultimo secolo, quindi procedendo in un irragionevole Kunstwollen. Eppure, proprio perché estranei agli schemi militari dell’avanguardia, si sapranno evitare gli schieramenti, perfino compatire l’ardente sforzo di ogni Lucifero umano, che oltrepassa nel patetismo l’angelo ribelle. Il giudizio sui defunti del resto non ci appartiene. Georges Bernanos ha lasciato scritto: «Être d'avant-garde c'est savoir ce qui est mort; être d'arrière-garde c'est l'aimer encore».