venerdì 4 luglio 2008

Il Nuovo Mondo e l'antica Roma

IN OCCASIONE DEL 4 LUGLIO, INDEPENDENCE DAY, FESTA DEGLI STATI UNITI D’AMERICA, CI PIACE PUBBLICARE LA TRADUZIONE DI UN SAGGIO DI ROGER CAILLOIS, «DAVANTI AL NUOVO MONDO», USCITO IN FRANCESE NEL 1946 E, CREDIAMO, ANCORA INEDITO IN ITALIANO

Invece di rassicurarlo, il Nuovo Mondo inquieta l’antico. Le riviste culturali più serie e più importanti annunciano volentieri dei numeri speciali dedicati agli Stati Uniti. Non so che cosa contengano. Ne prenderò conoscenza con la più viva curiosità, ma non senza apprensione. Di solito, infatti, si riconosce a questo paese tutti i meriti che si ritiene avere il diritto di poter disprezzare: l’efficienza tecnica in primo luogo, quindi quelle qualità secondarie che, procedendo dal metodo, dalla pazienza o dall’applicazione, non sembrerebbero generare altro che dei risultati a loro immagine, utili e mediocri come queste, finalizzate soltanto a una buona e saggia e serena organizzazione delle competenze e dei lavori.
Si ammette così che gli Stati Uniti rappresentino una sorta di barbarie meccanica in cui il denaro sarebbe la misura di ogni cosa e da cui si troverebbe naturalmente bandito ogni slancio, ogni poesia, ogni autentico raffinamento e anche ogni sentimento disinteressato. Si pretenderebbe in qualche modo che le stesse passioni d’amore siano, se non totalmente sconosciute, almeno rare e bonarie. Si citano certe lezioni che nei collages son destinate a mettere in guardia le giovanette sui pericoli e sulle suggestioni di quel che, senza benevolenza, viene chiamato lo choc emozionale. Si rivelano loro molto crudamente gli aspetti intimi dell’affare e di che cosa si tratti in ultima analisi. Qualche principio di igiene completa l’insegnamento. È abbastanza per fare comprendere a queste adolescenti che farebbero proprio male a commettere delle sciocchezze o ad abbandonarsi alla disperazione per una cosa così semplice e così volgare. Sembra che lo capiscano a meraviglia. Mi ricordo, a questo proposito, di uno studio in cui Rachel Besaloff spiegava come le fosse difficile far comprendere Racine ai suoi studenti, che rifiutavano per partito preso lo spirito stesso delle tragedie: «Al fondo del proprio cuore, ciascuna di queste ragazzine pensa che se Ermione si mostrasse più ragionevole e Alcesti meno stravagante, la catastrofe sarebbe evitata».

Che argomenti per condannare la civiltà americana come senz’anima! Proudhon le indirizzava già la medesima accusa. Gli dispiaceva che tale nazione fosse mercante e pacifista. La vedeva precipitare nel materialismo più sordido. Le augurava pertanto il suo riscatto: «Dio voglia allora, egli scriveva, che la guerra la salvi, se è ancora in tempo di darsi attraverso la guerra una legge, una fede, una costituzione, un ideale, un carattere» . Si sa che per Proudhon è la capacità di fare la guerra che distingue gli uomini dagli animali. Senza di essa, egli afferma, la civiltà rassomiglierebbe a una stalla (o a una banca).
Proudhon formulava il suo voto augurale prima della Guerra di Secessione. Da allora, gli Stati Uniti hanno subìto diverse volte la prova sanguinosa che, secondo lui, abilita alla grandezza. Tuttavia non per questo li si stima rigenerati attraverso i loro sacrifici o attraverso i loro trionfi. Si teme maggiormente la loro logora potenza. Si assicura che essa mette in pericolo i valori più delicati e più preziosi della civiltà occidentale, ogni giornalista francese proveniente da New York si dà arie da ateniese che fa ritorno dalle terre della Scizia. Non ignora sicuramente che rientra da Roma, ma enumerando con compiacenza le prove di barbarie che ha accuratamente annotato, egli fa un ritratto dei romani che li rende in ogni caso simili agli Sciti. Eppure vi sono delle differenze che egli si ostina a trascurare.

La prima di tutte è sicuramente la potenza, che la forza non basta a ottenere e tanto meno a conservare, e a cui un popolo non perviene mai senza eminenti qualità; la seconda è l’attitudine a raccogliere l’eredità delle culture precedenti; la terza è la presenza di un capitale morale di energia, di franchezza, di fiducia in sé, di tenacia e di altre qualità tutte positive che, congiunte a un territorio che una nazione controlla e alle risorse di cui essa dispone, le garantiscono una presa profonda e durevole sulla storia; la quarta consiste nell’invenzione, l’adozione o il perfezionamento di tecniche numerose e diverse, capaci di segnare sufficientemente l’esistenza quotidiana e di darle la sua particolare fisionomia; la quinta differenza consiste nel poter creare attraverso i costumi, attraverso la legislazione e attraverso la prosperità un modo di considerare la vita, di gioirne e di avervi un ruolo particolare, che provocano l’invidia di coloro che ne restano fuori, mentre appare a coloro che possono valersene un privilegio di nascita allo stesso tempo che un motivo di giusto orgoglio; la sesta… ma ecco che basta; mi sembra d’altra parte che questi caratteri suppongano o contengano una infinità di altri, che contribuiscono necessariamente alla formazione di un gusto, di uno stile, di una urbanità, di una saggezza, di un gioco originale di onori e di debolezze, di attrazioni e di rifiuti. Ne nascono presto tutti i tesori che lentamente maturano quando una civiltà si afferma.

Immagino che andasse più o meno così in altri tempi e che i greci che soggiornavano nella capitale del giovane impero romano si sentissero abbastanza spaesati. Rimpiangevano il fascino e la bellezza della loro città natale. Sicuramente non notavano altro che degli zotici in una clientela troppo indaffarata che, senza grande discernimento, voleva lezioni dai loro filosofi e collezionava le opere dei loro artisti. Questa scelta, dopo tutto, non era la peggiore. Non onorava gli autori meno dei beneficiari. Questi ultimi tuttavia non sapevano fare altro che denigrare gli uomini rudi che rendevano loro un tributo di ammirazione. Li trattavano come dei nuovi ricchi, dei villani rifatti. A sentir loro, soltanto sulle rive dell’Illiso [Fiumiciattolo che scorre ad Atene, n.d.t] fiorivano la misura, la finezza e l’eleganza. Roma pertanto aveva già i suoi poeti e i suoi architetti. E già l’abbagliante splendore di Atene era quello di un museo. Essa dava rifugio soltanto a dei pensatori sprezzanti che si preoccupavano dell’avvenire della cultura, minacciata – dicevano – da una barbarie inedita: aspra, industriosa e brutale. Parlavano cioè di quella civiltà che stava dando al mondo Virgilio, Tacito e Marco Aurelio, la pace secolare e i fondamenti solenni del diritto, attraverso la quale inoltre la Grecia stessa sarebbe sopravvissuta, trasmettendo la sua meravigliosa opulenza a degli imprevedibili eredi.