venerdì 18 luglio 2008

Idola / Soggettività

LA PRIMA DI UNA SERIE DI BREVISSIME RIFLESSIONI INTORNO AGLI IDOLI DELLA NOSTRA EPOCA, CON LE PAROLE DI TESTIMONI ECCELLENTI.
«Nulla era rimasto all’infuori degli stati d’animo»: la frase riecheggia una lugubre definizione del viennese Otto Weininger che, ventenne inadatto al mondo nuovo, di ritorno da un viaggio in Italia, si era tirato un colpo di pistola nella abitazione di Beethoven, all’alba del Novecento: «L’arte contemporanea – diceva infatti il suicida – non rappresenta che un sudario degli stati d’animo dell’artista». L’autore del nostro incipit era un altro abitante del sensibile Impero austro-ungarico, ebreo come Weininger. La frase continuava: «All’interno dei singoli e nei rapporti tra i singoli non c’eran che stati d’animo, tutti dello stesso rango e della stessa importanza. Tutto dipendeva dai punti di vista, esistevano solo delle congetture e delle opinioni individuali. […] Tutto aveva perso il suo carattere univoco, perché tutto era soggettivo; le informazioni avevano smesso di significare qualcosa e di escludere la possibilità di affermazioni contrarie; in questo mondo tutto riusciva a convivere, non esisteva nulla che fosse in grado di escludere alcunché». Un apocalittico che una volta tanto non si compiaceva del nichilismo in cui si stava sprofondando? Un critico letterario che sapeva cogliere nelle arti del tempo i sintomi della malattia che stava dissolvendo le arti: «Questo sentimento di vita doveva per forza esprimersi mediante un’arte basata sulle sensazioni, in cui si comunicano le esperienze vissute e si dà voce soltanto a ciò che è soggettivo e istantaneo». Letterati e artisti, espressionisti e futuristi si accendevano per i mondi legati ai soggetti, per i mondi proliferati, escrescenze del soggetto, e per la somma velocità contratta nell’istantaneo; il pensatore austro-ungarico se ne doleva nella gaia Budapest e nelle varie capitali europee in cui, rampollo della buona borghesia, faceva il suo apprendistato. Distante dalle mode – perfino a un loro critico come Karl Kraus, quando lo aveva invitato a scrivere sulla sua esclusiva Fackel, aveva detto di no per sprezzo di ogni giornalismo –, poteva sembrare un eroe della soggettività, un eroe romantico, ma della produzione caotica di quei soggetti sfrenati esprimeva il suo elegante rifiuto. «La libertà assoluta è il vincolo peggiore», si trattava dell’asservimento all’attimo. «Così – scriveva – tutto divenne arte delle superfici: superfici dietro le quali non si nasconde nulla, che non significano nulla, non esprimono nulla, si limitano ad esserci e, in modo indistinto e casuale, a produrre degli effetti in qualsiasi maniera, purché facciano effetto. L’arte delle superfici non poteva essere che l’arte delle sensazioni, un’arte che nega l’approfondimento, la valutazione, il discernimento. Sorsero delle nuove categorie, categorie paradossali: il nuovo e l’interessante, assunti a valore, in quanto soli valori esistenti, e destinati ad autoannientarsi nell’attimo stesso della loro realizzazione». Georg von Luckács, ancora con un von nobiliare concesso dall’imperatore alla ricca famiglia ebrea – o Lukács György, all’ungherese, prima il cognome e poi il nome – scriveva simili condanne dell’arte modernista che, a distanza di un secolo, acquistano ben maggiore lucentezza.

Non ancora marxista («il socialismo non possiede l’impeto religioso presente invece nel cristianesimo primitivo»), non più religioso, denunciava quella soggettività su cui si pretendeva fondare l’arte novecentesca e i suoi paradossali esiti: l’«interessante» e il «nuovo» che, a dire il vero, già Friedrich Schlegel e la sua schiera romantica aveva istituito come categorie dell’epoca a venire, ma che oramai stavano diventando una ossessione, «soli valori esistenti», appunto, «paradossali». Cento anni di ripetizione, la novità forzata che è diventata déjà vu, il vecchio del nuovo, dunque, il nulla come unico senso: anche queste contraddittorie parabole dell’arte sono chiare al ventisettenne Lukács quando scrive, nel 1912, Esztétikai Kultura, Cultura estetica come suona la traduzione italiana (Roma, 1977), da cui sono tratte queste lunghe citazioni. Intuendo come sarebbe andata a finire, il geniale ragazzo anticipava: «Tutto quanto è nuovo e interessante, lo è già meno nell’attimo stesso in cui si realizza; e ad ogni attimo che passa, di fronte a ogni somiglianza, a ogni ripetizione, lo è sempre di meno, fino a perdere del tutto il suo carattere sensazionale e il suo valore: non provoca più nessun effetto, è morto, non esiste». Sempre, uscendo da una Biennale o da Documenta di Kassel, si prova la medesima sensazione del giovane Lukács anche se pochi hanno voglia di ammetterlo (e di trarne tutte le conseguenze): non provoca più nessun effetto. Ma all’ingresso di simili esposizioni dovrebbe essere scritta, a caratteri di fuoco, la sentenza dell’ungherese: «è morto, non esiste».

Forse nulla infastidiva maggiormente il pensatore tedesco come la principale conseguenza del soggettivismo trionfante: «In quest’arte non esistono le forme, perché la forma è univoca ed esclude sia le forme diverse sia ciò che non ha forma; perché la forma è il principio della valutazione, del discernimento e della creazione di un ordine». Impressionismo e nichilismo andavano a braccetto e provocavano un disordine mortifero. «Una percezione del mondo che non conosca la resistenza della realtà, che non si renda conto della forza in sé delle cose estranee all’io» è roba da esteti. E gli oggetti cessano di esistere, vengono «ridotti a occasioni»: Carl Schmitt, nel suo Politische Romantik, del ’19, centrava a sua volta quelli che considerava gli inganni del romanticismo soggettivista proprio nell’occasionalismo. Contro questa tendenza percepita dai più come innocuo varietà delle metamorfosi dell’arte, Lukács leva un appello accorato: «Abbiamo un grande desiderio di continuità, di riuscire a misurare i nostri atti, di rendere univoche e controllabili le nostre affermazioni…». Se la follia della avanguardie rende la vita impossibile, se il surrealismo si spingerà a idolatrare anche la malattia mentale come se fosse un gioco, egli all’opposto testimonia «la fede nel fatto che esiste qualcosa di tangibile e di costante nel turbinìo degli attimi, la convinzione che esistono delle cose e che queste posseggono una sostanza», basta tale fede «a escludere l’impressionismo con tutte le sue manifestazioni». Gli scettici ridono da tempo di simili affermazioni che smontano i loro miseri loisirs, negano con tutte le forze che tali argomenti possano avere ormai - sentenziano sempre a colpi di ormai - una qualche rilevanza.

Più grande stima sembrano avere tutti, avanguardisti compresi, per Franz Kafka che, all’incirca in quegli stessi anni, scriveva Beim Bau der chinesischen Mauer (Durante la costruzione della muraglia cinese) dove l’autore, in opposizione alla dominante idolatria dell’io, alla teologia dell’ego, si nascondeva nell’anonimato di un cronista, riduceva la letteratura a scolio, a umile glossa di una scrittura sacra, parlava di artisti al servizio della casta dei capi, celebrava l'epica impresa del popolo, dava per scontata la possibilità che il vecchio ordine fosse insensato, che il suo massimo garante, l’imperatore/Dio, magari moribondo o addirittura morto come voleva Nietzsche, mostrasse la parabola chenotica, epperò il singolo era sorretto dalla coscienza di far parte del corpo mistico della comunità: «Petto a petto, un cerchio del popolo, sangue, non più racchiuso nel meschino circuito del proprio corpo, ma sangue che scorre dolcemente e scorrendo ritorna attraverso la Cina infinita».

Lukács si ritirò ben presto da questo mondo all’insegna della soggettività. «L’unica speranza che potremmo ancora avere […]: che sopraggiungano dei barbari i quali mandino brutalmente in frantumi tutte le raffinatezze…». Mise allora le sue carte in un caveau di una banca svizzera e andò a iscriversi al partito comunista, forse per affrettare tale barbarie apocalittica. Si piegò allo stalinismo pur di fuggire alla dittatura dell’impressionismo; altri, come Carl Schmitt, per cancellare ogni traccia di individualismo romantico, finirà per qualche tempo nel partito nazional-socialista. L’abbaglio delle scelte estreme, della militanza nei partiti totalitari, nasceva anche dalla nausea per il futile mondo soggettivo. Fu una tragedia moderna.