venerdì 12 settembre 2008

L'arte occidentale dell'imitazione

ANCORA SUL TEMA TRATTATO NELLA PRECEDENTE RUBRICA «IDOLA». LE CONSIDERAZIONI DI OSWALD SPENGLER, NELLA VESTE MENO NOTA DI STORICO DELL’ARTE, INTORNO AL RITRATTO

«L’imitazione è la vertigine degli spiriti agili e brillanti, e spesso anche una prova di superiorità»: suona ormai insolita questa citazione tra gli attuali cultori della ‘originalità’ e ancor più sorprendente è l’autore, Charles Baudelaire. Confusi e annoiati dai realismi prescrittivi, ideologici, dell’Ottocento, ci si incamminò per tutti i sentieri dell’astrazione, ripetendo in ogni arte un fatale periplo mesto e fuggendo così astutamente la realtà da finire spesso nel balbettio o nel mutismo, nella pagina bianca, nella tela strappata, nel silenzio ascetico. Senza conforto religioso però l’ascesi somigliava a una malattia, comunque a una dieta ospedaliera lunga un secolo. L’arte si impose dei tabù per paura di sfiorare la morte. Dopo che la fotografia e il cinema avevano fissato la realtà come perfetti imbalsamatori, l’arte riconobbe con terrore questa componente sinistra racchiusa in lei e non le restò che rinnegarsi completamente: preferì annunciare la propria morte piuttosto che ridursi a necrofora degli umani. Si propose ludica, concettosa, vantando la propria inutilità, a costo di risultare un segno dell’idiozia.

Agli inizi del Novecento qualcuno tentò, affrontando il mare magno della civiltà occidentale, di offrire un’altra, entusiasmante, versione del realismo che rivelava il profondo legame con la vita indicando allo stesso tempo le radici mortali di un particolare contatto con la realtà. Si legge nella fitta trama di Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, 1978):
«Ogni arte è una lingua dell’espressione. (…) Questa espressione è o ornamento o imitazione. […] Delle due, l’imitazione è senz’altro la più originaria […]. L’imitazione ha per punto di partenza un ‘tu’ fisiognomicamente colto, che spinge involontariamente a vibrare insieme a lui nel ritmo vitale […]. L’imitazione è nata nel ritmo occulto di tutto ciò che è cosmico. A un essere desto l’ ‘uno’ appare differenziato e distanziato: un ‘qui’ e un ‘là’, un qualcosa che è proprio e un qualcosa che è estraneo; un microcosmo in relazione con un macrocosmo, poli della vita dei sensi – dualità, questa, superata appunto mediante il ritmo dell’imitazione. Ogni religione esprime la volontà dell’anima desta di penetrare nel dominio delle potenze del mondo circostante; e l’imitazione, tutta religiosa nei suoi momenti più sacri, vuole lo stesso.
Infatti, è in un solo e medesimo dinamismo interiore che da un lato il corpo e l’anima, dall’altro il mondo circostante vibrano insieme e si unificano» (vol. I, pp. 290-91).
Oswald Spengler, nella veste meno nota di storico dell’arte, si prodiga nell’erotizzare il gioco dell’imitazione spiegando però dove si annida la trappola mortale che irrigidisce le figure di tanto realismo otto-novecentesco: «Soltanto ciò che è vivente può essere imitato e riprodotto», ovvero «solo l’arte sofisticata e disanimata delle metropoli finisce nel naturalismo inteso in senso odierno: imitazione degli stimoli dell’apparenza, dei fatti scientificamente accertabili nelle loro caratteristiche sensibili» (p. 292). La falsità dei rapporti nella metropolis può risultare un luogo comune dell’epoca ma l’apologia dell’imitazione – nell’èra dei trompe-l’-oeil della riproducibilità – è audace. Spengler insiste:
«[…] ciò che viviamo col vedere e l’udire e dietro al vedere e all’udire, è sempre un’anima estranea con la quale ci uniamo. […] appare in tutta la sua portata l’antitesi esistente tra i due aspetti di ogni arte: l’imitazione che anima e vivifica, l’ornamento che incanta e uccide. […] L’una è perciò affine all’amore e – nel canto, nell’ebbrezza, nella danza – soprattutto all’amore sessuale col quale l’esistenza si protende verso il futuro; l’altro è affine alla preoccupazione per il passato, alla memoria, alla sepoltura» (p. 295).
Tuttavia questo «elemento erotico» dell’arte non si limita al canto e alla danza, finalmente Spengler comincia con l’accennare al tema:

«Ma anche il ritratto ‘riuscito’ di una persona o di un paesaggio nasce dall’armonia sentita del movimento del disegno col vibrare segreto dell’elemento vivo di ciò che ci sta dinanzi. Qui agisce quella sensibilità fisiognomica, il cui presupposto è uno sguardo capace di percepire a nudo l’idea, l’anima dell’estraneo nel gioco dei suoi aspetti esteriori» (p. 291).


Il rito del denudamento qui menzionato non ha la faciloneria del naturismo contemporaneo, ricorda bensì quello sofferto di Agostino di Ippona, nell’autoritratto delle Confessioni, che affida alla nudità il nostalgico piacere del ritorno all’Eden. Spengler non si limita a sottrarre l’imitazione dal rigor mortis del naturalismo, distingue l’anatomia dell’imitatore greco dalla psicologia del ritrattista gotico-barocco.

«Ciò che per l’uomo antico significò il perfetto trattamento della esteriorità corporea (poiché questo è il senso ultimo di tutta l’ambizione anatomica degli artisti greci: esaurire l’essenza dell’apparenza vivente mediante la forma delle superfici esterne) per l’uomo faustiano divenne, coerentemente, il ritratto, espressione specialissima, ed essa solo esauriente, del suo senso della vita. […] Nudo e ritratto non sono stati ancora sentiti come un’antitesi e per questo non è stato nemmeno compreso il senso profondo che ha il loro rispettivo apparire nella storia dell’arte. Eppure tutto il contrasto fra due mondi si rivela solo nell’antitesi di quei due ideali della forma. Nel primo caso si rende visibile un essere nell’atteggiamento della struttura esteriore. Nell’altro parla la struttura interna, l’anima, come lo fa l’interno di un duomo mediante la sua facciata: parla il ‘volto’ in noi» (pp. 391-392).

Precisa più avanti:

«Un quadro ellenico dà il tipo di un atteggiamento, non è un ‘tu’, non è una confessione per chi lo crea o per chi lo osserva. I nostri ritratti descrivono
qualcosa di originale, ciò che è stato una volta e che più non torna, la storia di una vita nell’espressione di un momento, un centro cosmico per il quale tutto il resto diviene il suo mondo» (p. 393).

È una questione di tempo e di spazio.

«L’antica plastica è un’arte del vicino, del palpabile, dell’atemporale. Perciò essa predilige gli istanti brevissimi di immobilità che si intercalano fra due movimenti, l’ultimo istante prima del lancio del disco, il primo dopo il volo della Nike di Peonio, quando lo slancio del corpo è finito e le vesti svolazzanti non sono ancora ricadute – attitudine, questa, lontana sia dalla durata che dalla direzione, fissata di contro a futuro e a passato» (p. 393).

Passando poi a celebrare il ritratto ‘faustiano’ scrive:

«Il ritratto appartiene tanto alla natura che alla storia. Una tomba dei grandi Olandesi che dal 1260 lavorarono ai sepolcri dei re di St. Denis, un quadro di Holbein, di Tiziano, di Rembrandt o di Goya è una biografia; un autoritratto è una confessione storica. […] Quando il protestante o il libero pensatore insorgono contro laconfessione auricolare non si rendono conto di avversare non l’idea bensì solo una manifestazione esterna di essa. Essi si rifiutano di confessarsi col sacerdote, ma si confessano con sé
stessi, con l’amico o con la massa. Tutta la poesia nordica è una pura arte della confessione. Il ritratto di Rembrandt e la musica di Beethoven lo sono in non minore misura. […] L’autoritratto è l’esatta controparte dell’autobiografia sul genere del Werther e del Tasso, e l’uno quanto l’altra restarono affatto estranei al mondo antico» (p. 395).

Si scende nei dettagli:

«Il ritratto del periodo migliore del Barocco tratta il corpo come qualcosa di sé irreale, come spoglia espressiva di un Io dominatore dello spazio, usando a tal punto tutti i mezzi del contrappunto pittorico che abbiamo riconosciuto essere elementi rappresentativi di lontananze tanto spaziali che storiche, con la prospettiva,l’atmosfera immersa nel bruno, la pennellata mossa, le tonalità sfumate dei colori e delle luci» (p. 397).

Ancora una importante precisazione sui ritratti del mondo ‘greco’:

«Nell’antichità classica nasce un gusto per l’immagine dei caratteri, come nella commedia attica dello stesso periodo, in cui figurano solo tipi di uomini e di situazioni designabili con un dato nome. La qualità del ‘ritratto’ non è data dai tratti personali, ma soltanto dal nome che vi è scritto vicino. Ciò è di uso comune anche fra i bambini e i primitivi e ha una relazione con la magia del nome. Mediante il nome qualcosa dell’essere nominato viene legato magicamente all’oggetto e ogni osservatore ora va anche a vedervelo. Tali dovevano essere le statue dei tirannicidi ad Atene, quelle etrusche dei re sul Campidoglio e le figure ‘iconiche’ dei vincitori a Olimpia: non ‘rassomiglianti’ ma legate a un nome» (pp. 402-403).


L’apologia piega la storia, diviene cifra di una cultura secolare:

«Nella pittura a olio della fine del Rinascimento la profondità di un artista la si può misurare esattamente in base a ciò che nella sua arte ha carattere di ritratto. Questa regola non soffre eccezioni. Che si sia inteso fare ciò o no, tutto quanto viene raffigurato, siano singole persone oppure scene, gruppi e masse, ha significato di ritratto quanto a sentimento fondamentale fisiognomico. Ciò non dipendeva dall’artista come individuo» (p. 404).


L’arte del ritratto anticipa e supera l’impressionismo all’aria aperta (anche se, in verità, Spengler qui sembra piuttosto alludere all’eterno espressionismo tedesco piuttosto che al gusto francese):

«Come un quadro di Rembrandt con l’ornamentistica delle pennellate non fissa una riproduzione anatomica della testa, ma la seconda faccia in essa presente, nonl’occhio ma lo sguardo, non la fronte ma l’esperienza vissuta che vi traspare, non le labbra ma la sensualità – del pari la pittura impressionistica in genere non dà la sola facciata esterna della natura, ma insieme ad esso un secondo viso, lo sguardo, l’anima del paesaggio» (p. 432).

Con gli impressionisti siamo già arrivati alla fine, il tramonto della civiltà è annunciato da questa «arte pericolosa, scrupolosa, fredda, malata, adatta per nervi più che raffinati, ma scientifica fino all’estremo, forte in tutto ciò che è dominio delle difficoltà tecniche, esasperata nella sua programmaticità: è una satira della grande pittura a olio da Leonardo a Rembrandt» (p. 435). Dopo di che «ciò che oggi si fa nel dominio dell’arte è impotenza e menzogna» non senza peraltro avvertire che «ciò malgrado, come espressione e segno dei tempi bisogna considerare solo quest’arte (quella ‘impotente’ e ‘menzognera’ ndr) che corrisponde al gusto della gente colta. Tutto ciò che di contro a tale arte si ‘tiene attaccato’ agli antichi ideali, è pura faccenda da provinciali» (p. 444). In tal modo il critico della metropoli liquida con ancora maggior sprezzo ogni tentativo di arte pompieristica. Siamo allora bloccati in una superba cerimonia di suicidio. Da premesse come queste nacque la convinzione diffusa che se di arte bisognava proprio parlare ancora all’inizio del XX secolo non restava altro da fare che seppellire quella falsa e bugiarda (cioè borghese come la si marchiava) e attendere l’avvento della nuova (magari proletaria). Insomma non più una questione di forme, ma di apocalissi. Con i medesimi presupposti nacquero l’Avant-garde, il realismo nazional-socialista e il realismo bolscevico. Spengler comunque si guardò bene dal predicare un’arte nuova e ricoprì di violento sarcasmo coloro che, proclamandosi suoi seguaci, tentavano di tradurre nella politica nazista la sua critica al mondo moderno. Si poteva dunque concludere alla sua maniera «Ducunt fata volentem, nolentem trahunt» e fare buon viso al brutto gioco del mondo contemporaneo. Per circa un secolo si ebbero delle proibizioni ufficiali: il buon gusto nichilista e le dottrine dei regimi palingenetici condannavano l’espressione artistica individuale. Ci si poteva mettere al servizio degli ultimi della storia e riprodurre per loro un riassunto parodistico dell’arte borghese. Oppure parodiare l’arte per venderla così ridotta a pseudosofisticati borghesi. In tali traversie i ritrattisti furono scambiati per copisti.

(Si provi in una di queste giornate di fine estate a entrare nei Musei capitolini: per quanto distrattamente si attraversino le sale della scultura romana, saremo colpiti da molte facce, una folla di statue che somigliano impressionantemente ai volti visti per la città poco prima. I capelli o le calvizie, ma anche i toni sarcastici sono uguali a quelli del taxista che vi ha condotto qui o del barista che vi ha servito il caffé, e sembrano farsi gioco delle teorie sistematiche del pensatore tedesco. A distanza di duemila anni, un qualche legame con gli antenati è testimoniato nel marmo, nonostante le tante invasioni che hanno modificato l’etnia. Proprio nell’ultima e più grandiosa delle civiltà classiche si hanno quindi dei ritratti individualizzati come e meglio che nella scultura gotica che insegue la somiglianza con fatica tecnica. I visi dei senatori nascondono una smorfia di scherno: loro, pagani meridionali e misurati, cattolici almeno nel senso di gusto universale, conoscono l’arte del ritratto come i cristiani nordici e faustiani assetati di infinito, ne sono una prova che non è retorico definire vivente. Ma pragmatici come sono, paiono assicurare: una contraddizione nella teoria non basta a sconfessarla.)