sabato 8 novembre 2008

De Chirico alla Casa delle Muse

Il 19 NOVEMBRE, NELLA ROMANA GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA, CHE TANTO LO OLTRAGGIÒ IN VITA, SI INAUGURA UNA MOSTRA DI OPERE DEL PICTOR OPTIMUS IN DIALOGO CON I MAESTRI DELLA TRADIZIONE. LEGGIAMO LE SUE PAROLE COME VIATICO PER QUESTO VIAGGIO NEL MUSEO IMMAGINARIO CHE SI TENTA DI RICOSTRUIRE

«O Ebdòmero, disse, io sono l’Immortalità…»

Le folle che vengono trascinate per mostre e musei, a maggior esaltazione del consumo turistico, dovrebbero tenere a mente le parole che Giorgio de Chirico scriveva nelle prime pagine delle sue spumeggianti Memorie della mia vita (anche in tascabile, Bompiani 2002) a proposito di una faticosa gita per chiese e pinacoteche di Venezia: «penso che quella noia che mi fu imposta allora che ero un ragazzo, tante persone adulte d’ogni Paese e d’ogni razza, benché indipendenti e padrone delle loro azioni, se la impongono volontariamente, quello che prova l’infinità stupidità umana. Io allora se avessi potuto fare quello che volevo, invece di andare tutto il giorno in giro per i palazzi e le gallerie a faticarmi in quel modo, avrei passato le mie giornate al caffè Florian a consumare paste con la crema e gelati di cioccolata». Valéry, sdegnoso dei musei per gusto gaudente, avrebbe concordato.

Ma i saggi frequentatori dei caffè nonché golosissimi della cioccolata si alzino una volta tanto dalle loro poltroncine il 19 novembre, mercoledì, per recarsi in un museo moderno, in quella Gnam come si chiama oggi per vezzo infantile la post-risorgimentale Galleria nazionale d’arte moderna, onde assistere alla inaugurazione di una mostra del Pictor Optimus del Novecento. Gli iconofili vi troveranno i quadri del massimo artefice di immagini della italica modernità («Giorgio de Chirico ha inventato l’Italia» diceva Fellini) mentre dialoga con i maestri del passato, la prova vivente che le figure possono scaturire anche nel nichilismo del nostro tempo, nonostante il pessimistico borbottio di filosofi e teorici vari, in sfida audace e difficile al nichilismo. Quanto a coloro che sono attaccati alle terrasses dei bar e allergici alla polvere dei musei, due sole eccezioni si richiedono: Bellini e de Chirico bastano per l’inverno romano.

Si intitola «De Chirico e il museo» la mostra che ha scelto come tema il rapporto con la tradizione nell’opera di un artista che le avanguardie avrebbero tanto voluto dalla loro parte, tentando di allestire un museo immaginario dei suoi quadri che meditano sull’antico, che intrecciano le maniere. Chissà se si racconterà in catalogo delle innumerevoli offese inferte dal museo, dalla Gnam in questione, al pittore quando era in vita e già venerato in mezzo mondo. De Chirico ne accenna nella sua autobiografia, è buono ricordarle, non per confortare i falliti della loro oscurità, quanto per punire il vizio provinciale sempre riaffiorante nella cultura del dopoguerra, la mesta cecità nei confronti delle meraviglie d’Italia.

Quando si smise di giudicare quello che si faceva fuori della penisola «con equilibrio e buon senso, senza livori insinceri e ostilità di programma, come durante il fascismo, ma anche senza sdilinquamenti e folli passioni come si fa ora», cominciarono i guai esterofili e si perse la stima degli stranieri. A dire il vero, de Chirico era uno dei pochi ad averla mantenuta sempre intatta, ma nemo artifex in patria, avrebbe potuto confermare Dürer, che si lamentava della barbarie tedesca insensibile alla sua pittura, mentre otteneva la lode dei geniali confratelli al di là delle Alpi: «Hier bin ich ein Herr, daheim ein Schmarotzer».

Della Gnam, che ancora non si chiamava con questo nome dal suono mandibolare, detestava molte cose. Ne ricordiamo qualcuna, per rivederla magari con altri occhi nel giorno della sua mostra lì nei pressi. «Voglio parlare dell’allestimento delle sale della Galleria d’arte moderna a Valle Giulia. La scelta delle opere che vi sono attualmente esposte è fatta in modo oltremodo tendenziosa. Per proteggere, difendere e giustificare la scemenza, l’impotenza e l’ignoranza dei pittori moderni, per poter gettare della polvere negli occhi della gente riguardo il provincialismo e la nullità della pittura moderna, si è voluto rappresentare in quella galleria tutta l’arte italiana del secolo scorso con qualche ridicolo ritratto di Mancini, ove la cartolinesca pittura delle facce contrasta buffamente con il modernismo casalingo d’un mezzo quintale di nero d’avorio inutilmente sprecato per dipingere gli abiti, poi ancora con un altro paio di ritratti di Boldini, legnosi e falsamente eleganti, e con qualche pittura di Spadini, scelte fra le più mediocri, d’un secessionismo di seconda classe. Dove sono le opere di Giacinto Gigante, di Palizzi, di Giovanni Carnovali, di Fontanesi, di Segantini, di Previati, di Vincenzo Gemito?». I nomi che invano egli cercava nelle sale di Bazzani, risuonavano felici nelle sale delle Scuderie del Quirinale durante la recente mostra sull’Ottocento che ha provato a ridare il giusto peso a questa illustre schiera.

Ma la sua avversaria preferita era la direttrice della Galleria: «anche oggi, dopo tanti anni, vedo nella mia memoria la dottoressa Bucarelli guardare quelle mie bellissime pitture con l’espressione fredda, distante e disgustata, simile all’espressione che avrebbe una cuoca d’alto bordo, quelle che i francesi chiamano cordons-bleu, recatasi a far la spesa per un pranzo molto importante e che stesse guardando davanti ad una bancarella alcune rape mezzo marce e bacate. Questo atteggiamento della illustre dottoressa è una delle tante prove irrefutabili della sua profonda incomprensione per quanto riguarda la pittura. Infatti la dottoressa Bucarelli [...] è una ardente sostenitrice di tutte le più brutte, trite, noiose e sceme manifestazioni della cosiddetta arte moderna». Tuttavia, la dottoressa-massaia-al-mercato che non amava davvero la sua pittura fu insignita di un grande omaggio da un altro de Chirico: il ritratto che le fece Savinio, tramandandola assai affascinante nei secoli.

Nel dopoguerra fu costretto a organizzare mostre in casa, le gallerie romane si accendevano per il nuovo, che noi abbiamo poi rapidamente dimenticato, e in una di queste mostre, con i quadri sul divano e sulle poltrone del salottino di via Mario de’ Fiori, fu invitata a prendere il tè tra amici e conoscenti «la dottoressa Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, galleria che, per antonomasia, molti chiamano il Museo degli Orrori». Tanta divertita ostilità nasceva dal fatto che alla «dottoressa» la pittura dechirichiana non sembrava proprio piacere, ma c’erano anche motivi contingenti: mentre Giorgio de Chirico doveva ingegnarsi in spazi espositivi ricavati alla buona, la Galleria Nazionale metteva a disposizione le capienti sale per le opere del suo rivale di gioventù, Picasso, e la indomita direttrice convinceva il capo dello Stato a presenziare al vernissage dello spagnolo, fatto raro a quei tempi, ma poi nonostante tanta ufficialità, l’artista acclamato non si degnava nemmeno di un viaggio da Parigi per partecipare alla festa che gli si tributava nella città eterna.

Dalla nostra distanza, con il Novecento archiviato, De Chirico appare l’unico che si potesse misurare con Picasso, addirittura con minori concessioni agli idoli del tempo, con minori scorie del Moderno. Due geni del Mediterraneo, provenienti da luoghi ormai periferici, la Spagna e la Grecia. L’artista italiano aveva ripercorso gli itinerari del mito classico per poi inventare la «mitologia moderna» (come ammise Breton) e attraversare indenne ed elegante la rivolta del Novecento, da «gentiluomo del XX secolo», come pure fu definito, a cominciare dalla Monaco di Baviera, prima tappa della sua vita artistica: «‘È il paradiso, il paradiso sulla terra’ pensavo. Però in quel paradiso stava maturando, proprio in quegli anni, una grande calamità: la pittura moderna [...]. E circa un quarto di secolo dopo doveva nascervi una seconda calamità, ben più tremenda della prima: il nazismo». Passò quindi per Parigi, lasciandovi un segno decisivo, si spinse nella culla di questo modernismo, ovvero là dove fu distrutto il regno romano delle belle arti che era sopravvissuto poco tempo al suo ultimo sovrano, Antonio Canova: «A Parigi l’attività dei mercanti per valorizzare ed imporre la pittura decaduta e decadente principiata con l’avvento degli impressionisti fu più accanita e più insistente che in qualsiasi altro luogo».

Si spera che l’impostazione della mostra rifugga ormai le vecchie questioni del prima e del dopo la data fatale, frontiera cronologica imposta per consacrarlo avanguardista di una stagione e dannarlo per i decenni delle altre ‘maniere’. Del resto, chi presentò il mondo in chiave metafisica come un redivivo Platone non poteva essere apparentato agli ‘epicurei e stoici’ delle avanguardie. Se infatti risultò nuovo per la sua unicità, non fu così frivolo da idolatrare la novità per una vita. Preferì inseguire nel tempo la perfezione (idea poco praticata nella sua epoca). Non fu mai ‘rivoluzionario’, infatti, né alla moda e meno che mai alla mercè della opinione altrui. Nato in Grecia, universale come un greco, italiano cosmopolita in epoche di nazionalismo acceso, celebre a Parigi come a New York, scelse Roma per vivere e lavorare. Abitava nel centro della città – e quindi «nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità ed il colmo in fatto di antieccentricità» – diceva salace. Dimorava in una capitale mediterranea, panica, sempre ribollente, torrida, afosa. Nelle sue memorie, torna insistente il caldo romano: «gli americani avevano fatto esplodere su Hiroshima la bomba atomica […] e c’era chi diceva allora che quel caldo opprimente era dovuto all’esplosione cosiddetta termo-nucleare. Anche ora vi sono molti che attribuiscono le anomalie meteorologiche alle esplosioni atomiche effettuate in Russia e negli Stati Uniti. Io però ci credo poco e mi sembra che la situazione meteorologica sia su per giù quella che è sempre stata» (si è classici anche nei dettagli). Di Roma accettò le miserie novecentesche, le misure ristrette, vieppiù paesane, i traslochi negli appartamenti ammobiliati, i tragitti brevi e quotidiani, accerchiato da molti sguardi, tra casa sua a piazza di Spagna e il Caffè Greco, negli ultimi anni svuotato di artisti e di personaggi, riempito di anonimi turisti. Era il nume tutelare della città, imponente e beffardo, fissava il nostro povero mondo dei Cinquanta e dei Sessanta. Appunto come una divinità se ne stava sospeso, benché la sua figura fosse grave, sopra le bagattelle locali, le dispute effimere nelle trattorie rissose (aveva già assistito, mezzo secolo prima, a simili controversie bizantine tra i saccenti che si riempivano la bocca di modernità, era déja vu per lui). L’unica volta, crediamo, che firmò un appello, fu quello al papa, promosso da Cristina Campo e sottoscritto da alcuni tra i più prestigiosi personaggi del tempo – da Auden a Borges, da Dreyer a Julien Green, da Benjamin Britten a Marìa Zambrano (scegliendo a caso) – per mantenere la Messa in latino. Restano nella mente delle istantanee con le sue pose solenni, a qualche mostra, da un palco del Teatro dell’Opera alla prima di un Tristan und Isolde messo in scena da un bizzarro pronipote di Wagner, e si sarebbe voluto interrogare quel volto da sfinge per ascoltare un suo arguto commento.

Nella Roma dove riaccese i bagliori di Rubens, «la bestia nera di tutti i modernisti», dove il 20 novembre del 1978, esattamente a trent’anni dal primo giorno di questa mostra, abbandonò la vita terrena per entrare nell’empireo degli artisti beati, restano poche tracce del suo passaggio: la casa-museo a Trinità dei Monti; il gruppo scultoreo di Ettore e Andromaca, davanti all’Aranciera di Villa Borghese, che fu visto attorniato da domestiche immigrate da altri mondi commosse per la scena dell’addio («le mie opere […] in fondo piacciono a tutti, in contrasto con le pitture moderniste che non piacciono a nessuno»), gruppo scultoreo en plein air che fa da guardia a un nuovo museo ‘americano’ dove i suoi quadri sono a contatto sacrilego con i pop; la tomba sotto un altare della chiesa di San Francesco a Ripa, fuori dal tempo ma spazialmente attaccata alla Ludovica Albertoni di Bernini, splendori barocchi che garantiscono reciprocamente l’eternità. Nei suoi quadri però c’è moltissima Roma, la sua luce, la sua trionfale resistenza al tempo.

Soffrì l’ignoranza e l’astio dei funzionari culturali e dei critici. Si legga ad esempio una recensione della povera Quadriennale del 1965, con il tono di sufficienza per i suoi quadri, ripetendo senza vergogna come scolaretti il dogma del déluge dopo il ‘periodo metafisico’ e andando oltre, nell’insulto involuto. Per i giovani che vogliono capire un clima senza troppe lungaggini si riporta, omettendo per pietà il nome dell’autore ora ben noto, un frammento dal periodico «Palatino» (anno X, gennaio-marzo 1966): «…al di là delle stanche e senili presenze attuali di Carrà, di Campigli […] che s’accompagnavano a quella, come ormai da anni volgarmente rinunciataria, di De Chirico nel costituire un lotto di mero significato commerciale, a livello assai basso (la dignità del pittore è anche nel prevenire le conseguenze dell’imbolsimento senile)». Così si esprimevano quegli sgraziati che si affannavano, con periodare penoso, su giornaletti alla periferia del mondo, tra trombonismo pezzente (che invidiava le ricchezze) e il beat incipiente. Del fastidio arrecato da petulanti giornalisti, lui stesso ci ha lasciato invece una ironica e diretta testimonianza nel documentario involontariamente divertentissimo «A tu per tu con l’arte», che può essere rinvenuto, nelle teche online di Rai Click, con qualche colpo di mouse.

Non gli fu conferito un premio, né gli si organizzarono mai grandi retrospettive, gli fu perfino negata (dal ministro fascista Bottai) una cattedra in una qualsiasi accademia di belle arti, ed era la nostra maggiore gloria contemporanea. Vittima della cafoneria esterofila, ma anzitutto dello splendore della sua opera che sconfessava la pittura «informe e deforme», smentiva l’impossibilità moderna di dipingere, si misurava alla pari con gli antichi.

The late Chirico, come sintetizzano gli americani quando vendono tele preziose vere o false dell’italiano, è stato un grosso problema per gli storici dell’arte, un caso. Perciò scavano nelle contraddizioni come fosse un concettuale, contrappongono filologicamente i suoi testi, non le opere, di decenni diversi della sua lunga e olimpica vita, spettegolano di gelosie, rinvengono benevolenze (rare) verso qualche modernista che gli era passato accanto, il tutto pur di svalorizzare quanto lui è andato dicendo e facendo lungo l’arco del Novecento. Incapaci di accettare che un sommo artista possa essere diverso dall’opinione comune, che il talento – nonostante le rassicurazioni democratiche del Bauhaus («si è tutti artisti») – faccia la differenza. Come è possibile – si domandano – che un uomo lontano dalle baruffe storiche che tanto hanno coinvolto questi critici sia poi capace di creare simili opere, negando sonoramente l’impotenza pittorica del nostro tempo?

Così, mai si prese sul serio quel che affermava, nonostante l’abitudine a recepire come parola sacra qualsiasi sciocchezzaio dei contemporanei burloni. Non poteva essere vero né serio che non si avesse fede nelle sorti progressive. E come spiegarsi che l’antimodernista aveva dettato le forme del Novecento, anticipato le architetture e gli snodi delle città innovate, e il clima e i suoni e l’anima insomma? C’era inoltre un problema nel problema, quello per cui colui che dipingeva all’antica, che non voleva saperne di modernismo, che si ispirava alla tradizione, diventava a sua volta una ispirazione per i più estremi contemporanei che, dal re del pop a i nostri scolari di Piazza del Popolo, hanno rifatto a modo loro le icone, come direbbero, dechirichiane. Un bel rompicapo che ridicolizza l’accanimento ‘trasgressivo’ dei finti artisti, o semplicemente dei finti, e quantomeno rende più confuso il confine con la tradizione, sbiadendo quella rottura di cui ci si vanta perennemente (con i vessilli francesi e russi) che si agitano in simili casi, rivendicando la Legitimität der Neuzeit, la legittimità del moderno in versione artistica, che invece è meno lineare di quanto appaia a prima vista. Pertanto, se ancora proviamo il piacere di scrivere e leggere parole, al di là dei media usati, de Chirico ci mostra che il piacere della pittura su una superficie, del racconto per immagini, è ugualmente legittimo e possibile. «Tel est notre bon plaisir». Ecco lo scandalo.

Spiegava la fedele Isabella Far: «Era l’epoca in cui nasceva lo ‘spirito moderno’ con una marea di teorie, di tendenze e di nuove scuole. Lo spirito moderno costruiva tutta una nuova impalcatura di parole e frasi che falsavano il significato di molte concezioni, convinzioni e rappresentazioni, quel consenso di ragione e spirito che alcune forti intelligenze avevano saputo elaborare e conquistare. Ai nuovi profeti diventavano intollerabili persino i trofei della nostra cultura morente. Ciò che a loro conveniva di più era distruggere. La loro lotta ebbe successo, dato che essi riuscirono perfettamente nella distruzione, ma molto, molto meno nella costruzione. Così, la realtà dell’arte era una delle loro bestie nere; bisogna dire un po’ per giustificarli, che la confusione e il disorientamento in pittura erano stati prodotti dall’assenza di pittori importanti che facessero almeno dell’arte…».

Naturalmente va sempre precisata la differenza tra una mascherata nella storia e il tentativo vittorioso di sconfiggere il tempo. C’era chi si inebriava della corsa temporale, che si eccitava del carattere effimero celebrandolo e chi – come lui – bramava l’eternità, provava «il brivido dell’eternità». Il «sentimento originario» in luogo dell’«originalità», l’«emozione primordiale» che rincorreva in Hebdomeros (1929). La citazione allora non era mai uno sberleffo, un segno anzi un segnale come nella produzione moderna, piuttosto un sacramento dell’antico che consacra l’eternità.

Creatore e restauratore dell’antico, guardava al mondo del passato come a un mistero ormai, poetico anche per la distanza, il che può evocare il panpoetismo di Novalis ma pure la devozione per l’antichità che nutrì l’umanesimo italiano di un Ghirlandaio. Un classico non più sereno, tuttavia, secondo la lezione di Nietzsche, ma senza il chiasso dionisiaco: anche l’apollineo manca della piena serenità e si tinge di malinconico come la natura degli umani che mai trova sferica pienezza.

Si era incuriosito ai miti classici e addirittura arcaici forse per dono degli dèi, per evenienza familiare che lo portò in un angolo della Tessaglia a contatto con le reliquie dell’antico in un piccolo museo locale e tra i profumi mediterranei del posto, per il classico rivisitato dai bavaresi dell’Ottocento che ebbe modo di vedere a Monaco, per la lettura di Nietzsche che stregò la sua generazione, saggiamente diluito tuttavia nell’anima meridionale, nella cultura cattolica del ritrattista di Pio XII.

Chi sapeva mettere insieme il mare classico e i trasporti arditi degli uomini, i gesti del mito e la tecnè possente, le forme poetiche e, nascosta là dietro, la brutalità moderna, l’esattezza spirituale del classico e la melanconia, poteva stare accanto a un altro novecentesco che tentò di annientare il tempo fuorviante e crudele dei forestari, Ernst Jünger, soprattutto in Auf den Marmorklippen, sulle scogliere di marmo.

In molti si chiesero che cosa avesse trasformato il beniamino delle avanguardie – in particolare dei «degenerati» surrealisti, come li chiamava – nel cultore della tradizione. Il diretto interessato lo spiegava così, parlando in forme narrative saviniane di un vero e proprio evento miracoloso: «Fu al Museo di Villa Borghese, una mattina, davanti a un quadro di Tiziano, che ebbi la rivelazione della grande pittura: vidi nella sala apparire lingue di fuoco, mentre fuori per gli spazi del cielo tutto chiaro sulla città, rimbombò un clangore solenne, come di armi percosse in segno di saluto e con il formidabile urrà degli spiriti giusti echeggiò un suono di trombe annuncianti la resurrezione». C’era bisogno di un intervento celeste ormai per dipingere come un tempo, nulla appariva scontato, si era perduta l’ingenuità, come assicurano i pensatori dall’Illuminismo in poi. Ma la fiamma pentecostale, il Santo Spirito invocato con coro possente da Mahler nella sua Ottava Sinfonia pochi anni prima, serviva soltanto a rimettere in moto l’arte con il mito; successivamente, affermava in prosa, «con lo studio, il lavoro, l’osservazione e la meditazione ho compiuto progressi giganteschi». Altri prodigiosi interventi si erano avuti, quando inaugurò la maniera metafisica, nella piazza Santa Croce di Firenze; le fasi artistiche della sua vita erano tutte all’insegna del miracolo, dell’enigma pieno di grazia.

In quella specie di manifesto titolato Il ritorno al mestiere invitava, fin dal 1919, «i pittori a rendere omaggio alle statue», a rendere rispettoso omaggio all’antico. Dirà in un’altra occasione: «Solo dopo che si avrà copiato per decine e centinaia di volte disegni e studi di alberi fatti da autentici maestri come Tiziano, Rembrandt, Poussin, Claude Lorrain, Fragonard, ecc. si potrà, in seguito, copiare un albero dal vero, e allora lo si farà con maestria e sicurezza». Il che suonava paradossale pittura ‘dal vero’ in chi si vantava di prendere la tavolozza e davanti al cielo ‘fiammingo’ della sua terrazza romana al tramonto raffigurarlo, ma per specchio della tradizione, con un netto antinaturalismo. Il principale motivo era tuttavia che andava evitato, come invece facevano molti pittori suoi contemporanei, di dipingere «pensando magari a Cézanne e Van Gogh». Spogliarsi dei clichés modernisti, ritrovare la via maestra.

Si addestrava modestamente in interni senza fasto, rievocò esercizi quasi da dilettanti, ma al fondo c’era l’immenso talento e l’intelligenza: con un suo amico scultore parlavano a lungo dell’arte del disegno, «sfogliando monografie dedicate all’opera di Michelangelo e di Dürer. E per aggiungere l’esempio alla parola […] disegnavamo di memoria figure e parti di figure umane, cercando di imitare la maniera di questo o di quel maestro. A volte, mentre lavoravamo, si parlava della decadenza della nostra epoca…». A quel tempo, dunque, c’era tra noi chi dipingeva con colori e tecniche del fulgore rubensiano, anche se si cimentava nella réclame delle auto Fiat. Intorno si levava, davvero passatista, il frastuono degli echi di furori espressionisti, anche in salsa astrattista e le estreme semplificazioni di tramontati surrealismi. Il tutto condito con chiacchiere che riandavano ai dibattiti della Repubblica di Weimar o addirittura ai secessionismi europei, discorsi vetusti dopo la fine del mondo, le capitali bombardate, i Lager tedeschi e sovietici, le etnie sterminate. Duelli in nome di Kandinskij fuori tempo massimo, come se in qualche isola extraoccidentale ci si accapigliasse nel 2008 per il cinema neorealista, con appendici di scomuniche politiche e sofferenze patetiche di eretici. Nel frattempo, Malevič era tornato a dipingere figure, un po’ per convinzione un po’ per costrizione del regime, poi Malevič era morto, era morto Kandinskij, dimenticata Monaco, decaduta Parigi, gli americani imponevano il loro easy estetico pure a Mario Sironi, e qui come niente fosse, a giocare alle battaglie di inizio secolo, astrattisti/figurativi. I partecipanti si giustificavano però con la cappa fascista, con un ventennio nella campana di vetro, nascondendo ai più giovani e a se stessi che i gerarchi si elettrizzavano tanto per i futurismi d’ogni risma, e mai fu imposta una linea culturale tradizionalista da quel duce cresciuto all’ombra di Marinetti e di Margherita Sarfatti con i suoi protetti, tutti sperimentatori dell’anteguerra. Resta inoltre la vecchia obiezione della ‘gita a Chiasso’ e, in mancanza di soldi, almeno un qualche libro sfogliato in sonnolenti biblioteche romane: se ne trovavano e sarebbe bastato per accorgersi di quel che accadeva in mezza Europa.

Eugène Delacroix, pittore che pure a de Chirico talvolta capitò di citare, annotò nel suo Diario: «Rubens, a più di cinquant’anni, durante la missione di cui fu incaricato presso il re di Spagna, impiegava il tempo che non consacrava agli affari, a copiare a Madrid i magnifici originali italiani che vi sono ancora adesso. Nella sua giovinezza aveva copiato enormemente. Codesto esercizio del copiare, trascurato dalle scuole moderne, era la sorgente di un immenso sapere.[…] Su questo era fondata l’educazione di tutti i grandi maestri. S’imparava dapprima la maniera di un maestro, come un apprendista impara la maniera di fare un coltello senza cercar di mostrare la sua originalità. In seguito si copiava tutto quello che veniva sotto mano, di artisti contemporanei o anteriori. Si era fabbricante di immagini, come si era vetraio o falegname. I pittori dipingevano gli scudi, le selle, le bandiere. I pittori primitivi erano più artigiani di noi: imparavano il mestiere prima di pensare all’arte. Oggi accade il contrario». De Chirico dipinse quadri, disegnò costumi teatrali, bozzetti per il cinema, pannelli per l’arredamento delle case, illustrò libri di vario genere, dall’Apocalisse a un manuale sui cocktail. Quanto all’esercizio dell’imitazione vs il culto dell’originalità, si spera che insieme al grembiulino uguale per tutti la maestra unica reintroduca il copiato, fondamento di ogni scuola.

Si sosti a lungo davanti alle sue opere: parlando un giorno di un concerto eccessivo, faceva un confronto tra le arti e pretendeva che la durata di una sinfonia si imponesse anche a quella della contemplazione di un quadro. «Io non credo che guardare per un’ora, con occhio di pittore e mente di filosofo, una grande e bella composizione di Tiziano e di Rubens, debba essere meno interessante e più noioso che udire per lo stesso tempo una lunga sinfonia». Un’ora dunque all’incirca. Anche perché qui Rubens è raddoppiato dalla interpretazione di de Chirico. E viceversa.