mercoledì 19 novembre 2008

Letture / Il deserto della Terza Roma

NELLA RUSSIA RACCONTATA DA WEIDLÉ VENGONO FUORI LE PREMESSE STORICHE E ARTISTICHE DELLA VIOLENTA RIVOLTA DI MALEVIC E KANDINSKIJ ALL’ALBA DEL NOVECENTO, QUELLA ICONOCLASTIA CHE RAGGIUNGERÀ PRESTO L’OCCIDENTE.
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Per ben due volte, l’«Almanacco Romano» ha citato un personaggio pressoché sconosciuto al pubblico italiano e adesso, come promesso, cominciamo a tradurre qualche pagina della sua opera. Vladimir Weidlé, nella trascrizione dal cirillico Vladìmir Vejdle (1895-1974), nacque a San Pietroburgo e nella sua città natale, ancora molto giovane, insegnò all’università. Dopo aver lasciato la Russia nel 1924, si stabilì a Parigi. Su proposta del teologo Bulgakov fu assunto all’Istituto di teologia ortodossa come docente di Storia dell’arte. Il filosofo Berdjaev lo invitò a scrivere sulla rivista dell’emigrazione «La voie» e qui pubblicò i primi saggi sulla crisi dell’arte moderna, poi confluiti nel suo libro più importante, Les abeilles d’Aristée (Le api di Aristeo) che influirà non poco sul lavoro di Hans Sedlmayr, l’austriaco che è stato forse il più duro e intelligente avversario dei prodotti estetici contemporanei. Critico, letterato, pensatore della modernità, erudito conoscitore della cultura dell’Occidente, Weidlé scrisse di mosaici veneziani e di icone, di arte moderna e di poesia europea. Diresse anche i programmi della Radio Liberty per la Russia. Morì esule nel 1974.
Avremo modo di tornare anche sugli aspetti biografici di Weidlé quando presenteremo la sua opera dedicata all’arte. In questo primo approccio, partiamo invece da un aureo librino, uscito presso Gallimard nel 1949 e intitolato
La Russie absente et presente, dove lo «storico geniale della Russia» – come lo celebrò il nostro slavista Ettore Lo Gatto – non dedica che pochissime righe ai fenomeni estetici ma ci presenta utilissimi quanto indiretti spunti per ricostruire una storia della iconoclastia moderna, di cui alcuni celebri russi del Novecento furono i protagonisti. Di questo scritto offriamo appena dei piccoli antipasti.
[I titoletti dei paragrafi sono nostri]

FOLKLORE VS. GRANDE ARTE
Gli studiosi tedeschi del folklore, per descrivere quel che succede a una poesia quando si trasforma in canzone popolare, impiegano la parola zersingen; diremo allora che tutta la cultura dell’antica Russia è stata zersungen, è diventata folklore prima ancora di essere rimpiazzata da una civiltà importata dall’Occidente. L’affresco e l’icona in piena fioritura ornamentale del XVIII secolo, l’architettura che non mira ad altro che alla scenografia e non si preoccupa più di spazio e di costruzione, dei racconti d’avventura senza stile e senza approfondimento, tutto questo non può sostenere alcun paragone con la Trinità di Rublëv, con le chiese del XII secolo o quelle della prima metà del XVI, con i sermoni di Cirillo o le Gesta di Igor. La poesia orale e le arti popolari della Russia superano molte altre per la ricchezza delle forme e il calore dell’emozione che esprimono, ma si sono sviluppate a spese della grande arte, dell’alta letteratura, e si sono diluite in meandri e intrecci senza fine.

FIGURINE PER L’ALMANACCO DEI CAVALIERI AZZURRI

Ai tempi di Pietro il Grande. […] In Germania è Tiziano che si scontra, diciamo così, con Grünewald, lo spirito di Leonardo o di Machiavelli che urta quello che aveva ispirato Mastro Eckhart e Jacob Boehme, mentre la cultura in declino, in gran parte già disintegrata, dell’antica Russia ha ricevuto il colpo di grazia in un altro modo. Essa fu sommersa da stampe di terz’ordine e da orribili quadretti olandesi trompe-l’oeil (unica forma d’arte compresa dallo zar), da embrioni a due teste conservati nello spirito di vino, e dai manuali di bon ton che sconsigliavano di costruire un intreccio di ossicini intorno al proprio piatto durante i banchetti ufficiali o di appendersi da una finestra in presenza delle signore.
Così si concludevano sette secoli di vita russa. Non bastava relegarli nel passato, condannarli, rimpiazzarli (in mancanza di meglio) con la paccottiglia; bisognava renderli abietti e ridicoli. Lo zar tagliò lui stesso le lunghe barbe patriarcali ai suoi cortigiani; ordinò a tutti i sudditi, con l’eccezione dei preti e dei contadini, di radersi il mento e di vestire secondo i modi occidentali. Dei costumi che appartenevano completamente alla vita privata furono cancellati, e altri, come l’albero di Natale importato dalla Germania, resi obbligatori. Lo zar amava organizzare delle indecenti parodie delle processioni religiose, alle quali prendeva parte lui stesso, e il suo vecchio precettore Zotov, con una mitria rivestita di una immagine oscena di Bacco, era costretto a interpretare il ruolo del «buffonissimo e molto ubriaco patriarca».

UN NICHILISMO SPECIALE

Le idee rivoluzionarie, quando penetravano in Russia, si ponevano nella prospettiva del nichilismo, che è una attitudine mentale senza niente a che vedere con i principi scettici o relativistici né con le credenze positive che hanno fatto le rivoluzioni d’Occidente, ma che si può definire come una fede ardente nella Negazione o, più esattamente, come l’affermazione appassionata del non valore di tutto quello che era considerato valido nel mondo della religione, dell’arte o della morale. Il nichilista guarda come nullo e come privo di senso tutto quanto non abbia un valore puramente animale relativo a una necessità quale la fame o l’istinto sessuale; ma l’affermazione di questa nullità, la distruzione dei valori, costituisce essa stessa ai propri occhi il valore supremo, per il quale si è pronti a dare la vita, creando così una specie di religione al contrario di cui, nel caso ci si farà martiri. Nella sua qualità di religione al contrario, essa autorizza l’assassinio e in generale non riconosce il carattere sacro della persona umana; ma siccome è pur sempre una religione, essa dà ai suoi adepti la certezza e l’audacia che spingono all’azione, ossia all’azione eroica; i terroristi russi che ha formato sono spesso delle vergini e degli asceti, dei santi dalla spada sanguinante e dall’aureola nera.
Il nichilismo non è altro che la conseguenza diretta di un complesso ideologico, largamente sparso nella cristianità scristianizzata a partire dal XVIII secolo e che si può chiamare oscurantismo razionalista. Ora, l’originalità del movimento rivoluzionario russo consiste proprio nell’avere spinto questa ideologia al suo estremo limite e di averne dedotto quello che altri si erano astenuti dal dedurre. L’oscurantismo razionalista può non esser altro che una espressione relativamente inoffensiva della mediocrità umana che esalta una ragione di cui essa è lungi dall’esserne provvista. Il signor Homais [il farmacista di Madame Bovary, ndt] si preoccupa più del suo benessere che della sua irreligione e trae da questa piuttosto un tema di chiacchiere piuttosto che un principio di condotta. In Francia, soltanto certi eccessi del furore combista [movimento ferocemente anticlericale, ndt] potevano dare una idea di quello che fu in Russia il positivismo militante degli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Un russo non può riandare a quegli anni senza rievocare una particolare atmosfera, fatta di materialismo ingenuo e di utilitarismo intransigente, di accettazione obbligatoria delle «idee avanzate» che consistono nel rigettare senza discussione tutto ciò che non può essere dimostrato in tre minuti ai cervelli più limitati e a sostenere che Shakespeare non vale un paio di stivali, che le metafore del linguaggio poetico non sono altro che delle menzogne spudorate. L’idolatria della scienza, corollario inevitabile dell’oscurantismo razionalista, ha prodotto in Russia a quel tempo un atteggiamento spirituale risolutamente ostile alla libera ricerca scientifica. Ciò che non era che una ipotesi in Occidente, si trasformava qui in un dogma, e ogni ipotesi contraria era considerata come una eresia. Per un adepto del darwinismo semplificato, quale quello di Pisarev, un partigiano di Lamarck assumeva i panni del traditore, del fuorilegge. […] Tutta la filosofia, tutta l’arte, tutto l’umanesimo non potevano che essere sospetti a tali spiriti. […] Questa grande pulizia degli spiriti, questa tavola rasa accuratamente sono indispensabili affinché il movimento nichilista possa rivelare la sua forma suprema, il terrorismo. Ma questo sforzo, d’altra parte, necessita di un tale impegno dell’intero essere che ciascuno ne riceve come una consacrazione tragica. Inoltre, non è soltanto la negazione né l’odio che conducono il terrorista all’azione, ma anche qualcosa di positivo che non deriva affatto dal nichilismo teorico. Anche lui, come il ‘nobile pentito’, come il maestro del villaggio o il medico che cura gratuitamente i contadini, come tutta la intelligentsija che si sacrifica a quel che crede essere l’interesse del popolo, agisce, secondo la giusta annotazione di Solovi’ev, mosso da questa strana deduzione: «l’uomo discende dalla scimmia; amiamoci dunque gli uni con gli altri». Grattate il terrorista, troverete il filantropo; continuate a grattare e finirete per trovare il pio cristiano.

L’AMORFO E LA PAURA DELL’ARTE

Ogni forma fissa, ogni idea di regola e di sanzione sono contrari ai desideri profondi del russo. Se vi è una fobia che gli è propria e che si manifesta bene sia nella vita di tutti i giorni che nelle più alte creazioni del suo genio è quella della forma che egli è sempre tentato di considerare come una maschera, come un brillante velo che non può non ingannarci sulla natura reale di quel che esso avvolge. Nessun popolo è meno attratto di lui dalla superficie delle cose, né così pronto a preferirla grossolana affinché si possa esser sicuri di non finire vittima dei suoi artifici. Ogni forma gli è sospetta in quanto affettazione e in quanto reticenza, perché essa esibisce una menzogna e, allo stesso tempo, nasconde una verità. […] Un russo metterà sempre un po’ di ironia nell’attribuire a chiunque sia una «bella prestanza», e d’altra parte, il termine «corretto» non mancherà di sembrargli mortalmente noioso. Una grande riserva evoca necessariamente per lui l’idea di freddezza e non ammetterà facilmente che una autentica cordialità possa andare di pari passo con una impeccabile cortesia. Secondo lui, ogni specie di formalità dovrebbe essere bandita dai rapporti sociali, e l’uomo non dovrebbe mai avere coscienza di stare a interpretare un ruolo. Nulla di meno russo del Paradosso dell’attore, perché in Russia anche l’attore non deve giocare un ruolo ma piuttosto viverlo sulla scena. Non si tratta in tutto questo di un semplice odio dell’ipocrisia, bensì di un istinto per il quale ogni forma appare come una ipocrisia, inutile e fastidiosa. […] Il ministro Stolypin, quando gli fecero notare che aveva commesso un solecismo nel suo discorso al Parlamento, rispose non senza veemenza: «il russo è la mia lingua, ne faccio quel che voglio». Un tale atteggiamento verso la lingua doveva ritardare e rendere incompleto il suo ancoraggio in forme relativamente stabili e sottomesse a un certo controllo. La Russia possiede una lingua letteraria comune soltanto dal XVIII secolo in poi e ancor oggi è per molti versi fluttuante, anche per quello che concerne la pronuncia di alcune parole. Nella struttura stessa del verbo, come in quella della frase, si fa sentire una mancanza di disciplina logica e, per corollario del resto, una elasticità e una libertà di espressione che supera quelle di cui dispongono le lingue occidentali. Le parole vi cercano non tanto il riferimento esatto quanto la risonanza profonda, sono più spesso dei simboli che dei segni. È per questo motivo che la lingua della poesia è meglio dotata di quella della prosa, e la prosa di immaginazione raggiunge un maggior grado di perfezione della prosa saggistica. […]
Il sospetto nei confronti delle forme, il desiderio di neutralizzarle non sono dei sentimenti favorevoli all’artista, e l’arte russa del secolo scorso ha molto sofferto della paura dell’arte. La mancanza di fede nella pittura come tale ha condotto il pittore a utilizzare dei procedimenti tecnici qualsiasi e ad applicarli come un talismano, nella speranza fallace che «l’anima» e il «sentimento» avrebbero avuto ragione di tutte le difficoltà e avrebbero compensato largamente tutte le insufficienze.

IL MOTIVO DELL’ODIO PER LE FORME

Quel che offre la spiegazione di questa rivolta contro la forma è che la Russia antica non l’aveva mai conosciuta. I suoi pittori di icone, i suoi architetti, i suoi predicatori non temevano affatto di aspirare alla perfezione formale; la bellezza che vedevano non sembrava loro avere niente di scandaloso. Ora, se avevano questo atteggiamento, è perché nessuno chiedeva loro di concepirla fuori del suo contesto naturale; essa restava quella che ai loro occhi era sempre stata: un riflesso della gloria divina. Solo la Russia laicizzata degli ultimi due secoli si è vista costretta ad affrontare la bellezza discesa sulla terra, disgiunta dagli altri attributi della divinità, separata dalla beatitudine celeste. Nulla mostra meglio la persistenza del bisogno religioso nell’anima russa del rifiuto che essa oppone a questo nuovo stato di cose. Perché l’odio delle forme – proprio come il timore del diritto – non è nient’altro, nella sua fonte essenziale, che il rifiuto di riconoscere la sovranità di un valore dissociato da altri valori, strappato dall’unione di tutti i valori in Dio.