venerdì 21 novembre 2008


minima / Se la marmaglia sporca il Contemporaneo

«Scrivi nel sangue» si raccomandava il filosofo dionisiaco. I suoi peggiori epigoni ricorsero anche alle lacrime. Liquidi impropri. E pensare che gli inchiostri erano fatti apposta per scorrere sulla carta, brillare e resistere al tempo. Se ne davano anche versioni eccentriche, verde e violetto per animi decadenti. O, in tradizioni maggiormente auliche, si richiedevano piccoli e aggraziati pennelli onde trascinare inchiostri di China e tracciare un segno che si offriva pure a immagine, con una sottilissima scia sonora del liquido che scivola sul foglio e una scia profumata di resine. Specialità dell’Oriente estremo. Nel frastuono meccanico delle macchine per scrivere del Novecento l’inchiostro si tramutava in striscia, le lettere battevano il nastro grasso di colore, mani e dattiloscritti se ne impiastricciavano. Nei nostri epistolari di e-mail ci affidiamo a caratteri che non si posano su alcuna carta e possono scomparire senza lasciare traccia. Evanescenti carteggi per fantasmi. Dai diari dell’età puberale fuoriescono invece crittografie furuncolose dell’egocentrismo per assumere tinte triviali, gonfiarsi nei caratteri come una rana e, non più segreti, marcare la firma sulla pubblica scena, in tentativi di emergere dalla propria mediocrità sporcando il quartiere: questi i cosiddetti writers, gli scrivani del nulla sugli esterni delle case, i decoratori senza decoro, i calligrafi senza kalòs. Sì, è un itinerario tipico dell’estetica attuale: evadere con gestacci dal ghetto della desolazione, tanti piccoli Erostati violenti e accorati per ansia di notorietà.

Si è avuto un sobbalzo, ieri, leggendo su «Repubblica» che a Venezia il ponte appena inaugurato di un ferramentoso architetto spagnolo è stato «sfregiato dai writers». Quelli che il giornale al servizio di ogni conato estetico considera degli artisti, eroi del ‘contemporaneo’, stavolta sono umiliati con il più probabile titolo di imbrattatori. Se ne deduce che si è creativi se si scarabocchia sui muri berniniani del Palazzo di Montecitorio e marmaglia di vandali se ci si permette di maculare il ponte dello scandalo. A chi si mostra irritato perché qualche ragazzotto gli ha rovinato il costoso intonaco della sua proprietà con le scritte da filisteo di borgata, o peggio tatuato le facciate delle chiese e dei palazzi barocchi, le statue e le panchine di marmo, gli archi e le mura antiche, o semplicemente si è permesso di bruciare ripetutamente i suoi occhi con tali inguacchi, come se a Roma non bastasse la peste dei manifesti politici fuor di misura, unici nel panorama europeo, e spesso claudicanti nella ortografia e quasi sempre nella punteggiatura, insomma a questo poveraccio assai innervosito che invoca la galera per i guastatori, le maestrine della cultura rivolgeranno il dito accusatore come Furie: lei non sa chi sono loro, roba da museo, perché non gode invece della fantasia che colora le città e combatte il grigiore urbano? (ma che c’è di più deprimente delle scritte con gli acidi spry industriali? Che direbbe il povero Loos, attento per furia modernista a ripulire le leggiadre metropoli europee dall’ornamento del migliore artigianato, di simili svolazzi sguaiatissimi, di sfregi ai manufatti architettonici, di arabeschi del sempreuguale?). Forse, senza ricorrere alle carceri affollate, basterebbe che i giornali trendy e inventori continui di mode e di abitudini gregarie facessero sentire quelle anime semplici un po’ out e, subito, nel timore di apparire rétro, peggiore di punizioni galeotte, smetterebbero di fare danni.

Si scopre poi, leggendo integralmente la notizia, che «chi ha imbrattato il ponte ha colpito approfittando del fatto che da qualche giorno, passata la preoccupazione iniziale, è stato sospeso il servizio 24 ore su 24 di sorveglianza affidato ai vigili urbani». Dunque, per proteggere l’acciaio e il vetro veneziani si piazzano telecamere e vigili giorno e notte. Ohibò. Ecco spiegato allora perché l’intonaco bianco dell’ecomostro dell’Ara Pacis a Roma resta immacolato nonostante i branchi di grafomani in circolazione. I vigili, diurni e notturni, sono pronti a fulminare qualsiasi zombie che puntasse le sue bombolette su quella specie di garage anni cinquanta. È giusto, a differenza di una autentica architettura che sopporta stoicamente le ferite inferte nei muri e nel marmo – addirittura i millenari obelischi sono scempiati senza alcuna guardia –, le recenti costruzioni di Venezia e di Roma non reggono i graffiti, basta poco, uno striscio, una tacca, un segno osceno, per trasformarsi in un anonimo muro del Bronx dove gli adolescenti infelici scaricano la loro rabbia. Che ne sanno quelli (e i loro protettori accademici) dell’insegnamento terapeutico di Bonaventura per tutti i rabbiosi: ««Sensus tristatur in extremis et in medis delectatur»?