giovedì 31 dicembre 2009

Ricordando Berlino

~ NELLE ULTIME ORE DEL 2009, VOGLIAMO ARCHIVIARE L’ANNO DEL VENTENNALE CON UNO SCRITTO DI ALBERTO ARBASINO, UNA REQUISITORIA CONTRO I DESPOTI DEL SOCIALISMO E I LORO TANTI COMPLICI EUROPEI ~

Non siamo venditori di almanacchi, ne offriamo uno gratis, non abbiamo l’obbligo di magnificare le sorti dell’anno che verrà, anzi restiamo vagamente pessimisti. Però, proprio un ventennio fa, il 1989 riuscì bene, da meritare un Te Deum a parte: mentre si celebravano senza troppo senso critico i massacri della Rivoluzione di due secoli prima – e sui giornali progressisti italiani si accendevano insulsi dibattiti su illuminismo e bolscevismo –, il comunismo che aveva marcato il Novecento precipitava in poche settimane e spariva dall’Europa. Il 2009 cui stiamo dando l’addio in queste ore ci è sembrato scarsamente incline a ricordare il liberatorio evento. Si festeggiano anniversari d’ogni sorta, si commemora la Prima guerra mondiale, il secolo e mezzo del Risorgimento italiano, ci si ossessiona con il fascismo che appartiene a un mondo scomparso, si indaga ancora a fasi alterne sulle bombe milanesi o sull’assassinio di Kennedy, ma si evita di parlare di quella grande speranza novecentesca trasformatasi nel peggiore incubo. Da noi, nel giro di due o tre anni, l’Ottantanove fu digerito facilmente: il Male Assoluto ormai andava cercato negli ammanchi e nei profitti burocratici, ragion per cui i governanti democratici e filo-occidentali divennero i peggiori reprobi, inquisiti e insultati per sovrappiù dai comunisti con le ‘mani pulite’.

Mentre in qualche parte del mondo ancora resistono i tiranni di sinistra, a Cuba per esempio, mentre il regime di Teheran esaltato da Foucault e dai suoi emuli italiani uccide e terrorizza la popolazione, ci piace ricordare il tonfo comunista a Berlino con le parole di un eccelso letterato, Alberto Arbasino, che nella migliore tradizione civile lombarda si recò sul posto, grande inviato, per raccontare i giorni che sconvolsero il mondo. Il librino che raccoglie quegli scritti,
La caduta dei tiranni (Sellerio, 1990), non ebbe l’eco che meritava. Ne riproduciamo degli stralci per invogliare a recuperarlo e a leggerlo nella sua interezza. E per attraversare i confini temporali staccandoci dalla attualità più penosa.

«Il Popolo irrompe sulla Scena»: oggi è un titolo non più tanto da esercitazione, da Brecht direttore didattico, ma da giornale europeo ben fatto. Il regista non c’è più, un intoppo in meno. Però vedere concretamente questo irrompere, camminandoci in mezzo, a Berlino, sui marciapiedi celebrati e terribili, va superando qualunque immaginario di Fritz Lang, e discepoli o epigoni.

Nuova Oggettività? Espressionismo? Forza di uno Zeitgeist in scarpe da ginnastica?... Subito dietro quel fregio o fastigio di bandierine e jeans giovani apparsi alti e coreografici sul Muro nella televisione-spettacolo, ecco nei giorni dopo in mezzo alla strada un immenso popolo, ben più smisurato che le infinite comparse di Metropolis, uscire inverosimilmente mortificato e miserrimo da chissà quali cantine o miniere o caverne della tirannide, e invadere la ‘città’ superiore dove anche i giovinastri e le vecchiette non hanno il grigiore cinereo delle privazioni nel sottosuolo, ma il rosato-abbronzato di un’alimentazione con prosciutti e formaggi abbondanti, e delle vacanze-charter a prezzi stracciati anche per i pensionati nelle Canarie o a Creta.

I tedeschi occidentali anche biondi e lustri nel consumismo villano contro la protesta maoista o castrista e paleo-vietnamita e pro-immigrati turchi dei vecchi studenti «di piombo» non sono certamente mai stati il massimo del bell’incarnato e del benvestito; e il loro sciamare prussiano o slesiano o sassone in centro non è davvero una festa per gli occhi come un sabato italiano, fiera così colorata e peciona e allegra della vanità giovanile narcisa, anche senza shopping coatto. Ma soprattutto qui oggi sui marciapiedi berlinesi impressiona e sgomenta questa drammatica differenza di colore e di nutrizione e di ‘texture’ nella pelle e nei corpi, oltre che nell’indumento desolato e derelitto.

Questo popolo sotterraneo ‘orientale’ oppresso dai decenni del dispotismo e ridotto a «nazione inferiore» appare sbattuto e attonito ai varchi del Muro abbattuto o sui treni della metropolitana tra Friedrichstrasse (Est) e Zoo (Ovest) – pochi minuti di tragitto, molte ore ancora per controllare i fagotti e le carte – in corpi e abiti senza forma e senza colori, come negli squallori grigiastri del neorealismo strappalacrime circa gli sfollati in carri-bestiame e i sinistrati in cerca di cibo ma privi di gioia anche portando un po’ di farina a casa. […]

Altro che Nuova Oggettività. Altro che Espressionismo Rivisitato. Altro che straniamento epico, alienazione didattica, collage di protesta e denuncia. Questo lividore allibito e derelitto e non contento da rifugio antiaereo perenne, questa rassegnazione ancora avvilita di una gente resa schiava e sottoposta rispetto ai vicini di Muro – e con ingenti promesse ideologiche e pratiche non per l’al di là ma per l’al di qua, poi – con queste uscite in massa ancora passiva dalla mortificazione delle penurie si presentano come Pellizza da Volpedo nel weekend piuttosto sbigottito del Kurfürstendamm. Fiumane d’altri tempi...
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E ci riempiono magari di vergogne che dovrebbero colpire ben altri – mentre sediamo esterrefatti e inorriditi alla terrasse del Kempinski guardando l’enorme strada – come certi bambini ottocenteschi alle prese con la cioccolata innocente davanti agli spazzacamini e alle orfanelle tormentate dalla megera. Anche se i veri colpevoli sono i loro gerarchi, despoti e aguzzini e ladri ora cacciati in galera come nemici del popolo tra rivelazioni di infamie, ma a suo tempo così visitati e riveriti dalla nostra sinistra opportunista, che per quarant’anni non ha mai visto né capito niente oltre i vetri fumés delle limousines della tirannide oppure se ne fotteva proprio delle sofferenze del popolo, che sono davanti agli occhi di tutto, e non sono Cuore, sono qui.

(Aggrappati ogni sera alla televisione Ddr, la rivolta del popolo oppresso contro anche le ‘mangerie’ dei gerarchi comunisti appare anche più sensazionale che le revulsioni del 25 luglio e del 25 aprile, vissute traumaticamente nella peggiore età formativa. E le tavole rotonde – costituenti di popolo non presentazioni di libri di ministri – sembrano piuttosto assemblee di fabbriche e brigate stravolte per giusto rancore e giusta collera).

Ma che scarsa allegria, nell’avidità per gli indumenti e i cibi ammucchiati a prezzi infimi sui marciapiedi (nei negozi, non osano entrare), stralunati fra i menestrelli e ciarlatani che esibiscono i soliti giocattolini ‘d’animazione’ da Piazza Navona; e che curiosità incredula per i vetero-studenti borghesi d’altri mesi che vanno ancora lì come streghine maligne in occhialini tondi e paltò nero a contestare con accuse di consumismo i contadini e i vecchietti che contemplano con tanto desiderio e senza soldi non i testi trotzkisti predisposti per loro sui banchetti dottrinari davanti alla Freie Universität ma le arance e i jeans scartati dagli italiani, portati dagli abusivi, buttati per terra. E tanto, non arrivano a comprarli. […]

E all’ultimo piano del Ka-De-We, il vertiginoso assortimento di insaccati, affumicati, affettati, tagli di carni, dolci, coloniali, formaggi, e il foie gras fresco di Bocuse di qua e le decine di tè e caffè di Dallmayr e i dolci di Fauchon fra cui «si aggirano con avidità da drogate» le amiche miliardarie di Enzensberger che esaltano l’autenticità dei ghetti per immigrati turchi… Ma in questi giorni non vengono: al loro posto, solo frotte di volgarissimi paraculi con ostentate mignotte che si ubriacano di champagne avendo parcheggiato la Porsche sulla porta, dove una volta Auden e Isherwood passavano e ripassavano a piedi nell’alba nazi…

Ma tra le migliaia di pacchi e fagotti da fine della guerra, o guerra appena finita, che passeranno ore e ore coi portatori sdraiati per terra nella sotterranea, non si vede una sola busta con nomi di negozi o anche di supermarket. Solo, riempite fino a scoppiare di frutta o di pantaloni comprati nelle ceste sui marciapiedi, le vecchie borse e valigie a tristi fiori sintetici portate vuote e ripiegate da casa. E lo si nota con mestizia sui vagoni della metropolitana, gremiti e silenziosi e gelidi, nei vapori bianchi delle labbra e non una parola fra il passamontagna e la cuffia, ove (altro che «evviva il consumismo e la libertà») ci si additano con depressa ammirazione perfino le serre dei cavoli occidentali per gli orrendi crauti fra gli ex-giardini della «Atena sulla Sprea», e ci si stringe al petto la gomma di bicicletta appena comprata usata, e una lattina vuota da bibita forse destinata a soprammobile, fra qualche ubriacone che va avanti e indietro straparlando su di giri nel mutismo dei vagoni perché è già partito con l’alcol sottoproletario sul marciapiede ferroviario ‘Est’.

E fino a pochi giorni fa, i «responsabili per l’ideologia», attualmente in galera per furti continuati ai danni del popolo, sostenevano che si scappava di qui perché «sedotti dalla propaganda occidentale»: come se questi gruppetti di vecchiette smarrite emerse tenendosi per mano da chissà quali seminterrati in cerca di verdura fresca e Zitronen fossero abiette vittime della pubblicità di Wall Street malgrado i venerdì neri e i takeovers dei giapponesi… […]

Quanti «Liberate Angela Davis»... Nei meetings, nei titoli da noi, e proprio qui, su decine di stendardi, su decine di pennoni, lungo l’Unter den Linden e intorno all’Alexanderplatz: come fu ripetuto quello slogan, molto più di qualunque «Liberate» la Polonia e la Cecoslovacchia e l’Ungheria e la Ddr stessa e la Romania e la Bulgaria messe insieme…

Ma non vedevano proprio? Non capivano niente? Come si faceva a tornare tutti soddisfatti del «dibattito» da questi paesi europei un tempo simili a noi e non già all’Asia, con la stecca di sigarette-omaggio nel sacchettino e la bottiglia di J&B a mille lire per gli ospiti, non curanti delle sofferenze e dei bisogni, e svolgendo addirittura distinzioni fra morti e morti che sarebbero state trovate indecenti perfino da Filumena Marturano?... E magari, continuando a parlare astrattamente ancora adesso, tentando di «dare la linea» con la sufficienza della presunzione, come quando con l’intolleranza della saccenteria si ripeteva che «il paradiso è qui» senza vedere né provare «The Horror»: invece di venir qui a vedere, a toccare, a informarsi, a vergognarsi, a pentirsi o a ribellarsi, a piangere sul proprio passato o sulla propria mancanza di destino?... […]

Tra la vergogna e lo sgomento: questi due calvi di mezza età lividi e tremanti in veri stracci da officina o da stalla, frugando in borsellini da bisnonna monetine che valgono quasi niente, all’Akademie der Künste, sono evidentemente «dei nostri» o «come noi», dal momento che esaminano un catalogo di Hans Hartung, che è appena morto, e commentano un epistolario di Hermann Scherchen circa il Moses und Aron. Ma non possono comprare, evidentemente. Come se non potessimo entrare, noi, al Moma o alla Biennale perché costa troppo, e sapessimo già che difficilmente potremo permetterci, un giorno, un catalogo Electa o un buon drink. (C’è da arrossire: abbiamo in mano il grosso catalogo dell’esposizione «Kaiser Augustus und die verlorene Republik», abbiamo in tasca i biglietti per Jessye Norman alla Philarmonie stasera. Ma non arrossiranno mai invece quei nostri ex-bambini già con le mèches grigie che gemono da più di ventun anni per l’appartenenza alla borghesia di merda di mammà e papà, e in più di ventun anni non hanno mai mosso un solo ditino perché questi poveri disgraziati possano permettersi qualche Tetralogia ‘storica’ riedita in compact disc per riempire le serate a Karl-Marx-Stadt senza infilar la testa – possedendolo – nel forno a gas?). […]

«Loro stanno benissimo, lì. Loro sono contenti così». Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere, per decenni, dagli italiani e italiane di saccenteria più proterva, a proposito degli ingabbiati che osservavamo oltre il Muro; e si vedeva bene come davanti a un locale, che nessuno cercava di entrare, mentre tentavano tutti di uscire. Come del resto adesso: nessun flusso da Ovest a Est, tra le folle entusiaste di libertà lungo queste vie tante volte percorse… Ma nei due sensi, noi: sempre più carichi di imbarazzi incolpevoli, perché liberi di andare tra il Pergamon Museum e la Gemäldgalerie, e loro no. A Est? Si poteva apprendere fin troppo circa Brecht, Gorkij, e la scultura antica. E la pittura italiana e tedesca e francese, Raffaello e Rembrandt e Cranach e Watteau? Lì, a un passo, ma col filo spinato in mezzo, e ti sparano. Vuoi morire? Morire per Giorgione o per Giotto? […]

E quante volte fu autorevolmente soggiunto che la povera Bonn «senz’anima» era ormai spacciata, almeno fin dall’arrivo nella provincia italiana delle recensioni alla Ragazza Rosemarie – mentre invece i registi dell’Est, essendo sovvenzionati al 100% dallo Stato, possedevano l’interezza dello Spirito. […]

Eppure guardando questa Berlino che viene liberandosi senza domandare autorizzazioni ai ‘discorsi’ e ai ‘dibattiti’, si rimane soprattutto impressionati perché non si tratta più come (come pretendevano i feudatari e i valvassini di ieri) di «andare a lezione dalle masse», nel senso di andare a farsi ripetere dagli zombi le formule appena messegli in testa da presentatori e cantautori che magari si sono venuti a rifornire proprio qui, dalla Premiata Ditta. […]

Che cosa direbbe invece Fassbinder (dimenticato?), uscendo da una cantina di cuoio ora chiusa in Bundesallee col suo amico Armin di Regensburg (che ora non c’è più, neanche lui), a proposito dei privilegiati della quota contestativa, che finora godevano a Berlino Ovest delle sovvenzioni senatoriali per le manifestazioni alternative e le attività trasgressive, e anche esenzioni dal servizio militare e dalle imposte, tutte facilitazioni che potrebbero cessare dall’oggi all’indomani – come le esclusive aeree Pan Am e il mantenimento delle Antigoni – se la città-avamposto ridiventa metropoli-calamita, con bisogni di servizi sociali più urgenti?

Ma è mai possibile che in più di quarant’anni tanti nostri amici dei tiranni oggi smascherati e deposti e condannati non abbiano mai visto niente – niente! – né abbiano mai detto una parola di compassione e rimorso davanti alla realtà che qualunque turista imbranato poteva osservare? forse limitandosi a domandare «e il popolo?», e accontentandosi della risposta ufficiale dell’interprete «il popolo è felice, Altezza»? […]

E mai un momento di solidarietà o di ribellione, mai provato un minimo di turbamento, neanche la decenza istintiva del bambino che ha i giocattoli verso chi non ne ha? […]
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Il compromesso cinese

~ UNA MOSTRA IN VATICANO SULL’OPERA DEL GESUITA MATTEO RICCI, IL MISSIONARIO IN ABITI DA MANDARINO. ~ L’ARTE DELLA DISSIMULAZIONE PER CONVERTIRE IL MONDO CON IL LINGUAGGIO DELLA STORIA ~

Una vera arte della «propaganda fide» portò i gesuiti in Cina per conquistare il Celeste Impero al cristianesimo. Mimetizzati negli abiti dei mandarini, si mostrarono dei campioni del compromesso pur di convertire una cospicua parte di mondo alla religione romana. Perfino i riti, appena codificati dallo spirito tridentino, subirono delle modifiche in maniera elastica, a smentire le leggende sulla rigidità nell’epoca della Controriforma. Solo a dei rappresentanti del cattolicesimo poteva venire in mente di dialogare in tal modo con i saggi di altre religioni e culture. L’et et di Roma, lo spirito di inclusione già presente in epoca imperiale e ancor più trionfante nel cattolicesimo rinascimentale e barocco, accoglieva forme pagane e forme moderne: non a caso Cristo si era incarnato nella prosaicità della storia, non fuggiva dal mondo. Il rispetto amoroso per la tradizione del resto non deve oscurare il fatto che la modernità è un concetto cristiano, che nella Querelle degli antichi e dei moderni, questi ultimi – affermavano già i teologi medioevali – vedono meglio perché illuminati dal Vangelo. Inoltre, ogni giorno che cade nel precipizio della storia affretta il ritorno di Gesù su questa terra. La modernità apocalittica però non ha niente a che spartire con il culto progressista. Né la supremazia cristiana del moderno può trascinare al rifiuto della traditio: il Testamento nuovo non cancella l’Antico, lo porta a compimento. Dirà Baudelaire: la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. Negli ultimi tempi, questa è la differenza con tutte le altre epoche, si è abolito l’eterno.

Sull’ingegnoso protagonista di quest’arte della propaganda cattolica, nel quattrocentesimo anniversario della sua morte, hanno allestito una mostra in Vaticano: «Ai crinali della storia: Padre Matteo Ricci (1552-1610) fra Roma e Pechino» (aperta fino al 23 gennaio, nel Braccio di Carlo Magno). Nato da una nobile famiglia di Macerata, entrato nella Compagnia di Gesù, prete, scienziato, viaggiatore, a trent’anni padre Ricci si incammina verso l’Estremo Oriente, prima in India poi in Cina, trasportando una biblioteca di libri religiosi e un gran campionario di orologi, strumenti scientifici, giocattoli meccanici per abbagliare le anime dei colti. Aveva assistito ventenne alla battaglia di Lepanto, allo scontro cruento di civiltà, ha in mente un progetto di altro tipo per confrontarsi con le culture estremo-orientali che, benché lontane e misteriose, hanno inviato segnali di sapienza e scienza: esibire la civiltà cattolica, sedurre con il suo sapere, con la sua arte, con la sua umanità. «In Cina – scrive Ricci in una lettera – si può fare di più con i libri che con la parola». La strategia è articolata. Accortosi della lotta tra confuciani e buddisti, il coraggioso gesuita si allea con i primi e combatte i secondi. Abbandona quindi l’abito del bonzo che aveva indossato in India e prende quello del letterato. Ricci è affascinato dalle somiglianze là dove tanti missionari francescani non vedevano che differenza e barbarie pagana. Trova in Cina delle città belle quanto quelle europee, dove ci sono «cose simili alle opere dei romani». In quella specie di mostra di libri e di oggetti dell’Occidente che organizza in Cina per conquistare i funzionari dell’Impero, ciò che interessa maggiormente i mandarini è la tecnica della prospettiva, fino ad allora sconosciuta, e poi sfere, quadranti solari, prismi e pendoli. Questo grande regista della rappresentazione gesuita si rammarica spesso che, nonostante gli abiti, «il naso e gli occhi lo contraddistinguano ancora dai cinesi». Ignazio addestrava i suoi a dimenticare la lingua natìa per traformarsi in cavalieri universali di Cristo; così il santo basco negava le radici etniche, il sentimento del sangue. Se ne accorse il teorico razzista ottocentesco Houston Stewart Chamberlain che lo indicò come il peggior nemico della nuova Germania. Del resto, in piena Controriforma e in tempi in cui la monarchia spagnola esaltava la limpieza de sangre, si riportava del fondatore della Compagnia più diffamata della storia la seguente dichiarazione: «Un giorno che stavamo mangiando davanti a molti, a un certo momento, parlando di sé, Ignazio disse che avrebbe considerato grazia speciale di nostro Signore venire dalla razza degli ebrei; e aggiunse il motivo dicendo: ‘Come! Poter essere parente di Cristo nostro Signore, secundum carnem, e di Nostra Signora la gloriosa Vergine Maria’. Disse queste parole con un aspetto tale e con tanto sentimento che gli vennero le lacrime e la cosa fu molto notata».

La tomba di padre Ricci, nella Città Proibita, venne distrutta durante la Rivoluzione culturale dalle ‘guardie rosse’. Finita la furia dei rivoluzionari, il governo cinese restaurò con cura la sepoltura del gesuita, privilegio raro in uno spazio precluso agli stranieri. La scritta incisa sul marmo, sormontata da quattro draghi avvinti a una croce, recita in cinese e in latino: «Sepolcro del venerabile Li, della Compagnia di Gesù». Sulla stele si legge un breve compendio della vita di Ricci, i quarantadue anni nella Compagnia, la missione in Cina, la morte a Pechino nell’undicesimo giorno dell’anno di grazia 1610. Nel testo cinese si legge anche: «proveniente dall’Italia, dalla parte dell’Atlantico, giunse come missionario in Cina nel 1561». Il cavaliere universale aveva cambiato anche il nome, collocata la lingua cinese accanto a quella latina, i draghi intorno alla croce; annullata la sua persona ut unum sint. Fu designato Li Madou, ovvero il Saggio d’Occidente.

Sulla «mirabile varietà di costumi e istituzioni» della terra si era aperto un gran dibattito in Europa fin dal XVI secolo, ma l’epoca manierista continuava a cercare l’estraneo, lo stravagante, dentro di sé. All’alba del XVII secolo invece è cambiata la prospettiva spaziale: nel mappamondo fatto stampare su seta da padre Ricci, la Cina è al centro del mondo. Sparisce pertanto la vecchia idea sulla relativa prossimità dell’Estremo Oriente con l’Europa. Nelle università seicentesche non si studia ancora la geografia, ma già al Collegio Romano, nella fucina dei missionari gesuiti, si inaugurano i corsi di geografia descrittiva. Una descrizione che non si limita alla cartografia, che punta soprattutto all’uomo abitante della terra e alle manifestazioni umane, un’antesignana della antropologia culturale. Il gesuita Antonio Possevino la definì «ancella della filosofia morale».

«Allora che intrapresi a viaggiare nel nuovo mondo – confessa un viaggiatore del tempo – credevo che non vi fossero uomini veramente uomini che tra gli europei […] ma mi disingannai poco a poco». C’era stata la scoperta dell’America, ma la cultura degli indios non aveva colpito favorevolmente la nostra immaginazione. In Estremo Oriente però, nell’Impero cinese si estendeva una grande civiltà che non aveva mai sentito parlare di Vangelo. Come era possibile?

«La sorpresa provata dagli europei del XVI secolo – scrive uno storico delle missioni – è paragonabile a quella che potremmo provare noi oggi se scoprissimo degli esseri umani sulla Luna o su un altro pianeta», i nuovi mondi, i nuovi viaggi «distruggono poco a poco l’innocente persuasione che lo sforzo missionario del cristianesimo si fosse spinto ‘fino agli estremi della terra’» (Henri Bernard-Maître).

La missione gesuita in Cina segna il capovolgimento del tradizionale atteggiamento cattolico verso i non-battezzati, i pagani, come ancora si diceva. «Cancellare la superstizione» dal mondo, così le missioni venivano cantate nei Lusiadi, il poema delle gesta portoghesi. «Cancellare le superstizioni» significava ricondurre tutti i popoli del pianeta all’interno dell’Occidente dopo averli spogliati della loro differenza. È quello che fa da sempre ogni civiltà quando si impadronisce di un’altra. Ma Roma, con la Compagnia fondata da Ignazio, tenta un compromesso difficile. Per la prima volta ci si trova di fronte a un mondo altrettanto raffinato, religiosamente sofisticato, forse sul piano etico più elevato dei pagani greco-romani, manca soltanto della parola evangelica. I missionari, a cominciare da Ricci, provano a rendere in cinese il verbo tramandato in ebraico e in greco.

Di fronte al problema di tradurre il nome di Dio nella lingua dei mandarini, padre Ricci adotta una parola trovata da un catecumeno per designare il Signore del Cielo, Tian. Successivamente, studiando i classici della Cina, scopre che dalla fine del I millennio a.C. gli antichi cinesi riconoscevano all’Essere Primo molti attributi che al gesuita paiono imparentati con quelli della teologia occidentale. Tian poteva identificarsi con il Dio ebraico-cristiano? Nasceva a questo punto la questione dei «riti cinesi», dello sforzo di adattamento fatto da insigni rapprentanti della Controriforma in terra orientale per tradurre la teologia e la liturgia cattoliche nelle forme di una civiltà agli antipodi dell’Urbe. Per un secolo e mezzo si discuterà a Roma, in mezza Europa e naturalmente tra i missionari in Cina della questione della fede cristiana e delle abitudini millenarie di popoli appena scoperti.

Mentre i giansenisti di Port Royal, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, sottolineano nella loro Logica come le questioni teologiche abbiano un risvolto grammaticale, i gesuiti sostituiscono il latino con il cinese, concepiscono un rito straordinario sulla falsariga di quelli concessi ai bizantini, ai copti, agli ambrosiani. Si preoccupano inoltre di calzare nei dipinti Cristo e gli apostoli onde evitare l’orrore dei cinesi per i piedi nudi. Nella nuova liturgia c’è perfino un problema di copricapi: per i cinesi è disdicevole celebrare un qualsiasi rito a testa scoperta. I gesuiti divengono allora pure costumisti e realizzano uno speciale cappello a punta, una via di mezzo tra la mitria e il berretto dei letterati confuciani.

L’Inquisizione studia attentamente i protocolli del primo incontro Occidente/Oriente, dove si legge tra l’altro del culto confuciano dei morti approvato dai missionari della Compagnia in quanto tradizione nient’affatto religiosa. I gesuiti inviano a Roma la testimonianza dell’Imperatore, del «Figlio del Cielo», disposto a scrivere al papa per garantire che il culto di Confucio è puramente civile. Ma un teocrate che vanta ascendenze divine è forse un testimone attendibile? E la sua cultura sa distinguere il religioso dal civile?

Pascal teme che i millenni della storia cinese possano distruggere la conologia biblica, i gesuiti ritrovano la presenza semitica dei figli di Noè nella sterminata terra del Celeste Impero. Intrecciano le storie, ritrovano gli echi occidentali in ogni dove, riconciliando l’umanità. Nulla deve restare fuori dall’orbe romano, il katholikòs opera per questa riconciliazione, secondo l’insegnamento evangelico, affinché tutti siano una cosa sola. Nelle Lettere provinciali le critiche interne però si fanno velenose: «dove un Dio crocifisso è considerato una follia, [i missionari gesuiti] sopprimono lo scandalo della Croce e predicano il Cristo glorioso».

Intenti a un sì enorme progetto, i padri gesuiti non si lasciano fermare dalle accuse che vengono dall’Europa. La loro erudizione continua a produrre numerose prove sulle comunità ebraiche rinvenibili in varie epoche. Nella sinagoga di K’ai-feng, un’iscrizione fa risalire la presenza ebraica laggiù al III secolo a.C. anche se è probabile che si tratti di una esagerazione per dare lustro alla comunità. E proprio un ebreo, Ngai T’oung Pao parla per primo a padre Ricci di alcune comunità in Cina che veneravano la croce. Nell’infaticabile apostolo si accende la speranza di ricondurre all’antica fede i discendenti di quei cristiani. «Grazie a san Tommaso apostolo, i cinesi e gli etiopi hanno ricevuto la vera fede…» dice un manoscritto siriaco.

Sarà allora «piacevole» decifrare nei libri cinesi misteriosi e millenari le tracce della Trinità. Comincia l’opera di interpretazione dei segni, dei simboli «incomprensibili agli spiriti volgari», sui sentieri del Messia. Accanto alla Rivelazione c’è il tempo del Disvelamento. La questione della ragione, della luce divina riflessa negli intelletti umani, qui si pone in tutta la sua importanza.

I gesuiti costruiscono il mito della Cina naturaliter virtuosa. I colpi che in Occidente vengono sferrati contro il pensiero politico, morale, religioso porteranno allora come contrassegno la insinuante frase «Le Relazioni della Cina insegnano…». I cinesi «sono naturalmente inclini alla virtù»: diventano un mito occidentale, la pietra di paragone per esercitare una critica radicale di tutto quello che c’è da noi, il modello per i ‘persiani’ di Montesquieu. L’Illuminismo si nutrirà di «relazioni della China».

Per tutto il Seicento nessun laico, per quanto colto, conosce il cinese. Ci si deve fidare degli uomini della Compagnia che hanno il monopolio della grammatica, della lingua, della sinologia, delle religioni cinesi, delle conoscenze con gli intellettuali di quel mondo. Nei collegi gesuiti si allestiscono balletti ‘alla cinese’ e viene messo in scena un teatro edificante sui missionari in terre orientali, rappresentazioni che accendono i cuori degli ardenti discepoli. In mezza Europa si diffonderà la voga cinese, dalle pagode nei giardini alle porcellane per il tè. Chiuso in una stanza del Collegio Romano, Daniello Bartoli, uno dei nostri massimi prosatori, scriverà della Cina ricorrendo alle relazioni inviate dai suoi confratelli laggiù.

Nasce la leggenda che la Cina sia l’impero della felicità. Qualcuno, critico del traffico culturale dei reverendi padri, sospetta che i cinesi siano felici perché non viaggiano, se ne stanno fermi a ricevere i visitatori occidentali; sulla scia di Platone, cioè, si identifica il benessere dello Stato con il suo essere chiuso alle influenze straniere. Ma il cristianesimo spinge a interessarsi all’altro, la religione di Roma è universalistica, è missionaria. Invano i giansenisti, riprendendo questi motivi conservatori criticano, anche violentemente e talvolta calunniandoli, gli uomini della Compagnia. Pascal scrive in un celebre pensiero, miele per tutti gli stanziali: «… ho scoperto che ogni disgrazia umana deriva dal non sapere stare tranquillo in una stanza».

Come in uno specchio, in una lettera di un missionario si riporta il ritratto degli europei a opera di un mandarino: «Spendono delle grandi somme di denaro; certi giorni raccolgono una infinità di gente del popolo per fare le loro cerimonie; esaminano le nostre leggi e i nostri costumi, realizzano carte delle nostre montagne e dei nostri fiumi, si sforzano di guadagnare il popolo: non vedo qual è il loro disegno, non sta a me penetrarlo, so pertanto che questa religione è stata portata dall’Europa». Per i cinesi, i gesuiti sono i cartografi, gli architetti, gli astronomi, i maestri di meccanica, i matematici. Già nel 1612 diffondono il pensiero di Galileo in Cina. Da padre Ricci sentono parlare della rotondità della Terra, dell’esistenza degli antipodi, della natura delle eclissi, dei quattro elementi, della grandezza degli astri, della vastità e del numero dei continenti, della geometria di Euclide, di cui il maceratese offre in traduzione gli Elementi. Scoprono pure astrolabi, sfere, globi terrestri e celesti, orologi, sestanti, ecc. L’opera del cardinale Bellarmino è tradotta in cinese, le sottigliezze della scolastica fanno la loro comparsa tra i mandarini, con una certa approssimazione si cerca di rendere in lingua cinese il pensiero dei neoaristotelici. I letterati si entusiasmano per l’invenzione italiana degli occhiali. Ricevono da Ricci anche un Trattato sull’amicizia, crestomazia di sentenze e aforismi di autori occidentali e, quasi un testamento, Dieci capitoli di un uomo strano (edito lo scorso anno in versione italiana da Quodlibet), dialogo tra un letterato cinese e uno occidentale, per confrontare e integrare sapere confuciano e sapere cristiano. L’«uomo strano» è naturalmente padre Ricci e il titolo riecheggia una sentenza di un Confucio che dovette parere biblica: «l’uomo è strano per gli uomini, ma simile a Dio».

Il primo libro cinese stampato in Europa con tanto di ideogrammi è l’Historia del gran regno de la China del padre de Mendoza, pubblicato a Roma nel 1585. I caratteri cinesi sono resi quasi irriconoscibili dalla mano occidentale che li ha tracciati e dal suo gusto barocco. Circa un secolo più tardi, l’Accademia delle Scienze francese sottopone a un missionario gesuita un questionario a proposito della Cina sulla cronologia, le coordinate geografiche, l’astrologia, la musica e la medicina («il modo con il quale tastano il polso»), il tè, il rabarbaro, le altre droghe che usano, le piante, l’eventuale uso del tabacco, il loro vivere ordinario, nonché se gli uccelli e gli animali domestici siano simili ai nostri, della forma e dell’uso dei loro cannoni, della maniera di fortificare, delle feste e delle danze, delle arti e delle manifatture, delle forme dei loro vascelli, della grandezza del popolo, delle loro religioni, infine della Muraglia. Queste domande dei savants sono la prova che la scoperta della Cina è opera dei gesuiti.

La mostra in Vaticano documenta una fase della cultura romana e di una sua singolare appendice nel Celeste Impero. A Roma, proprio nell’anno in cui Ricci entrava in Cina, papa Gregorio XIII riformava il calendario, stabiliva la nuova misurazione del tempo, via via accettata nei secoli anche in paesi protestanti e cristiano-ortodossi, oggi ancora in corso; dopo avere offerto nell’arte le squisitezze del manierismo e gli aspri realismi di Caravaggio, la capitale del cattolicesimo si preparava a stupire il mondo con il Barocco; nella scienza la fisica galileiana sconfiggeva definitivamente la magia anti-cristiana; i missionari gesuiti preparavano un ponte tra le massime culture dell’Occidente e dell’Oriente e in America Latina, originalissimi, difendevano i diritti umani. Né è un caso che per raccontare delle missioni ignaziane l’esposizione vaticana si affidi alle illustrazioni di Rubens, Paolo Veronese, Van Dyck, Ribeira, Pulzone: i massimi artisti del tempo narravano la gloria del cattolicesimo che, a sua volta, esportava in Cina e insegnava l’uso della prospettiva in pittura. Così come esportava le verità di Galileo e la tecnologia che ne scaturiva. Se tra gli italiani il nome di Ricci non dice granché, una rivista come «Life» nelle sue studiatissime classifiche lo mette tra i cento che contano nella storia del secondo millennio. Per fortuna che in genere gli storici sostengono la decadenza della civiltà cattolica dopo la ferita della Riforma luterana. Questa ristretta mostra – che vede stipati quadri e macchine fisiche, orologi e libri cristiani stampati nel Celeste Impero, manoscritti e statue cinesi, rotoli che raffigurano madonne con occhi a mandorla e chinoiseries della corte Ming – sembra una bella smentita ai luoghi comuni degli storici. Appena uno stimolo a ripensare un contributo formidabile dei cattolici al mondo moderno.
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martedì 29 dicembre 2009

minima / L’occhio di Dio

Le agenzie di stampa annunciano che, stando a una ricerca medica condotta su oltre 150 mila persone, il rapporto giusto fra il valore della pressione sanguigna massima e della pressione sanguigna minima è 1,618. Ovvero, a dar retta a questo studio chi, dividendo la ‘massima’ per la ‘minima’, ottiene 1,618 vivrebbe più a lungo, a parità di altre condizioni. Subito dopo, le stesse agenzie aggiungono che i medici che hanno condotto l’indagine ignoravano che quel numero ha una sua lunga fama. A conferma dei compartimenti stagni del sapere scientifico, dunque, chi pratica l'arte medica non sa che 1,618, fin dai tempi pitagorici, corrisponde alla ‘sezione aurea’, alla «proporzione divina», secondo l’espressione del francescano Luca Pacioli, amico e collaboratore di Piero della Francesca, di Leon Battista Alberti e di Leonardo –, all’armonia geometrica che in alcune figure converge verso un punto di fuga chiamato l’«occhio di Dio». Conosciuto dagli artisti e architetti dell’antichità, riscoperto dai nostri rinascimentali, sembra incontrarsi anche nei grandi pittori del Medioevo, forse per trasmissione segreta, e nei musicisti. Perfino nelle forme della botanica è stato rintracciato. La psicologia sperimentale dell’Ottocento provò che nella maggioranza dei casi il pubblico gradiva i linguaggi artistici costruiti sull’armonia matematica. Al giorno d’oggi, l’esperimento dà risultati opposti: quasi nessuno sembra essere in grado di apprezzare la sezione aurea, l’euritmia, l’eufonia. Traviati dalle dissonanze, dagli urli, dal cacofonico, dall’artificiosità perversa, dall’informe, dal deforme, dal disarmonico appunto, perdiamo di vista l’occhio di Dio e rompiamo l’equilibrio del nostro sangue, delle pulsazioni dell’esistenza.
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lunedì 28 dicembre 2009

minima / Pubblicità

Magari con un po’ di ritardo, ma non amiamo lo shopping pre-natalizio, ecco il primo, autentico, spot di questo «Almanacco»: è finalmente uscito in traduzione italiana il volume di Alain Besançon, L’image interdite, che i nostri lettori hanno visto citare innumerevoli volte e con la massima ammirazione. L’immagine proibita spiega il ‘contemporaneo’ con il Concilio di Nicea, rassicura sulla temporaneità della mancanza di immagini nella nostra epoca, così come il diritto e la proprietà subirono un’eclisse quasi secolare a causa della Rivoluzione bolscevica. Lo pubblica Marietti 1820 (la data sta a indicare la longevità di questa casa editrice che è rinata con il nuovo contrassegno) e il sottotitolo spiega: «una storia intellettuale dell’iconoclastia». Costa 40 euri, ma ha più di 400 pagine, e comunque li vale tutti.
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giovedì 24 dicembre 2009

N A T A L E ...R O M A N O

L’intensità della nostalgia è forse direttamente proporzionale alla velocità del mutamento dei tempi. In una cittadina del Quattrocento italico, poteva accadere che due o tre generazioni passassero senza che nel panorama circostante mutasse alcunché. Dalla fine del secolo XVIII, la corsa al cambiamento travolge anche i villaggi più remoti, e oggi i ragazzi si commuovono ritrovando in appositi siti la pubblicità natalizia della Coca Cola di dieci anni fa. Per i più grandi poi, basta un’immaginetta dei Cinquanta, un richiamo civettuolo del mondo ormai totalmente trapassato, per far spuntare le lacrime. Epoca ossessivamente nostalgica, trova il suo culmine sentimentalistico nel Natale. La mitologia che lo circonda è alquanto recente, una invenzione soprattutto del romanticismo, che enfatizzò il lato pittoresco della festa religiosa. Anche quello infantile e fiabesco attrasse i sodali dei fratelli Grimm. Fu l’Ottocento a costruire le immagini patetiche, le cartoline degli auguri, i riti familiari che turbavano perfino il ‘dionisiaco’ Nietzsche (si vedano le lettere sull’albero di Natale a madre e sorella), le canzoni toccanti, i racconti delle piccole fiammiferaie, dei bambini laceri, della miseria, per confortare chi banchettava al caldo borghese. Si rispolverarono vecchie leggende nordiche, il mondo protestante del sacerdozio privato aveva finalmente una liturgia da celebrare in casa. Il resto lo fece l’industria dell’entertainment negli Stati Uniti. In pochi decenni si impose Babbo Natale e la fantasmagoria dei doni portati da san Nicola di Bari, del gesto gratuito cioè (i balocchi e dolciumi per i piccini), divenne la festa dell’universo delle merci, sia pure con un vago segno cristiano persistente.

Nel cuore del rito planetario dei buoni sentimenti, del consumo, della puerilità, dello zuccheroso, una frase perentoria di Benedetto XVI interrompe l’incantesimo e sembra sottrarre il Natale al romanticismo interminabile. Dalla Chiesa di Roma, e proprio da un papa tedesco – a riprova che l’universalismo cattolico supera le caratteristiche nazionali – viene un richiamo solenne: «il Natale non è una favola».

Nella tradizione romana della festa non c’è ombra di leziosaggine. Di fronte alla morte ciclica della natura, al
memento annuale della nostra fine, i pagani celebravano il Dies Natalis Solis Invicti e accendevano nelle fredde notti dicembrine robusti fuochi di giubilo per le strade di Roma. Ma la consolazione conservava il sapore malinconico dell’eterno ritorno, dell’alternarsi di morte e vita, della perfetta simmetria temporale che annienta il futuro e perciò la speranza. I cristiani approfittarono di questa ricorrenza così vibrante per collocarvi il giorno natale del Vincitore della morte. Il cerchio pagano veniva spezzato, adesso c’era un prima e un dopo definitivi, si affermava l’irreversibilità trascinando tutte le cose. Frutto di uno spregiudicato accostamento, le antiche credenze però resistevano e papa Leone Magno se ne preoccupava: nel giorno di Natale «alcuni cristiani, prima di entrare nella basilica di S. Pietro, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente». Ma Ambrogio ribadiva senza indugi: «Cristo è il nostro nuovo sole». Dialettica luce/tenebre che va ben al di là dei ‘notturni’ romantici nel paese delle selve. Piuttosto quelli italici, senza tenebre e paure, luminosi e sereni sotto la luna. Nei presepi del nostro Rinascimento, ad alto valore simbolico, il paesaggio classico, le figure magniloquenti, i templi spezzati, il vecchio e nuovo mondo, mettevano in scena un dramma cosmico, non una storiella montanara. Roma aveva riequilibrato come sempre tutto. La stalla trasformata in reggia, i pastori mescolati ai re, gli umani agli angeli, Dio a una coppia di ebrei. A noi, invece, a furia di carillons e di motivetti facili ci è sfuggito di mente il legame del Natale con la Pasqua.

«Quanno nascette Ninno a Bettalemme/ Era nott', e pareva miezo juorno» cantava in napoletano sant’Alfonso riecheggiando il profeta Isaia che riconciliava il leone e l’agnello. Notte dei miracoli, mezzanotte che sembra mezzogiorno, gli animali e gli umani, il cielo e la terra si ricongiungono sospendendo il tempo e con il tempo l’èra del peccato. Da secoli l’umanità nella notte santa sembra ripensare l’età dell’oro. Le montagne silenti, i paesi luccicanti, uno stuolo di angeli, i magi con i turbanti, il cielo trapuntato di stelle, i doni, la cometa fissa su una grotta, e nella grotta una vergine che partorisce il
puer divino. È il presepio che l’arte napoletana arricchì di spunti esotici con le scimmie che si aggiungono agli elefanti e ai cammelli, con le strane fogge dei re-indovini e dei loro innumerevoli cortigiani. È il presepio affollatissimo dove si incontra l’occidente e l’oriente. «La terra è arreventata Paraviso», ma questo è ancora una promessa: nella notte santa, nonostante sia la più incantata delle notti, gli umani continuano a morire e a soffrire, in particolare di solitudine estrema e dolorosa. Il Natale, il presepio, è solo prefigurazione della festa celeste.

Alla malinconia romantica risponde la Chiesa di Roma con argomenti vigorosi che vogliono sconfiggere morte e dolore, come nelle parole di papa Leone Magno che, per rincuorare i suoi neo-cristiani, predicava: «Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita: una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità». Al cospetto della morte, dunque, ci vuole qualcosa di forte, la futilità accentuando il senso di vuoto e la devastazione. La solennità dell’avvento messianico non è appunto riducibile al clima fiabesco: «il Natale non è una favola».

Il bambino di Betlemme «è il Logos eterno che esisteva prima dell’inizio dei tempi, e pertanto in certo modo vecchio (…). Egli è più vecchio del cielo e della terra. ‘Giovane bimbo, Dio eterno’: così suona il refrain del
kontakion sul Natale composto da Romano il Melode» ricordava Averincev, parlando dell’iconografia bizantina. Il culto dell’infanzia nel cristianesimo va di pari passo con il culto della vecchiaia, della «vecchiaia nell’infanzia» e dell’«infanzia nella vecchiaia», a riprova che nella sapienza tradizionale non si dà mai la piattezza di una sola faccia.

Nelle tre messe con cui nei primi secoli si solennizzava a Roma il Natale veniva ribadito il senso di quella notte. Il messia è ancora
infans, non parlante – sono i profeti a parlare in sua vece – ma l’evento oggi è l’incarnazione di Dio. Contro tutte le eresie spiritualiste, la liturgia ripete: il Verbo invisibile si fece visibile consacrando il mondo delle immagini, rendendole di uno splendore che mancava nonostante tutto alla civiltà pagana. Contro i manichei si ricorda che Dio non si è rifiutato di assumere la nostra carne. Si annuncia infine che la sua grazia si spargerà «usque ad extremos terminos orbis terrarum», altro che la piccola comunità del villaggio sotto la neve prediletta dai romantici. Lo stesso presepio di Greccio, nonostante l’oleografia irritante che accompagna san Francesco, è una sacra rappresentazione dell’incipit del Vangelo non la sequenza delle scene di una Winterreise.

Immersi nell’oro, in solenni forme simboliche, i personaggi del presepio di Duccio – nell’Adorazione dei Magi conservata a Siena – officiano il mistero della parusia: i due più giovani si guardano perplessi per tanto portento, il più vecchio inchina la propria maestà al puer presentato dalla madre su un tronetto marmoreo, classico. Andiamo a vederlo almeno nella riproduzione elettronica della rete. Una capanna incornicia una grotta sotto una grande montagna che occupa quasi tutta la tavola. Il nero dell’antro è bilanciato dalla luce aurea che inonda la scena. Il bambino è stato già portato fuori dal buio dell’arcaico, dall’indistinto della colpa adamitica: la rivelazione è compiuta. Il mondo lo riconosce, un gruppo di servi, stretti tra i cavalli, osservano la scena. Ornamenti preziosi per uomini e bestie, quasi fossero abiti liturgici. E dettagli squisiti come i calzari del magio vegliardo: nel mondano avviene l’epifania. D’oro è anche la stella, cometa senza coda ma collegata con l’astro che brilla sulla grotta. Il cosmo partecipa alla festa terrena. Che l'aureo splendore duccesco avvolga l’augurio di un gioioso Natale ai lettori di questo «Almanacco».

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sabato 19 dicembre 2009

minima / Parole

Ieri, la scritta in ferro all’ingresso di Auschwitz, «Arbeit macht frei», l’installazione nazista con un retrogusto ironico, sghignazzamento di macellai, è stata rubata. Forse feticismo sinistro di gitanti chiassosi nel luogo del nichilismo realizzato, forse addirittura performance di dileggiatori d’ogni croce, d’ogni dolore umano. I giornali titolano con una parola ricorrente: «profanazione». L’altro ieri, sui medesimi giornali era tutto un gran ridere per una ragazza in cera crocefissa di spalle in un museo di Stato a Napoli. 'Opera' di un goliardico autore già noto per avere impiccato in effigie dei bambini agli alberi di Milano, ora intento agli sfottò per un ebreo ammazzato. Nel caso napoletano, secondo la stampa, la profanazione risultava assai spiritosa.
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mercoledì 16 dicembre 2009

minima / Iperbole

Ieri i giornalisti di «Repubblica» si sono riuniti e hanno dichiarato in un comunicato di «scrivere al servizio della verità». In Matteo leggiamo: «il vostro parlare sia sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (5,37). Satana corrompe le parole, il grosso gruppo editoriale si limita a banalizzarle.
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domenica 13 dicembre 2009

L'imbandigione dell'arte

~ ROGER SCRUTON A ROMA PARLA DI SACRO E BELLEZZA. ~ QUALCHE INTERROGATIVO SULLE SUGGESTIVE PROPOSTE
DEL FILOSOFO BRITANNICO (E SULLO SFONDO VAGAMENTE BIEDERMEIER) ~

I media, con il loro tono ellittico e ridondante in ossimorica combinazione, lo chiamano il Festival di Dio, sulla falsariga di quelli dedicati alla filosofia e alle letterature; in ossequio alle mode correnti, gli organizzatori lo presentano come un «evento»; ha un logo e una grafica che fanno pensare a un filmone di fantascienza. Ma al convegno organizzato dai vescovi italiani su «Dio oggi», appena conclusosi a Roma, pur con simili piccole concessioni ai riti culturali (d’altronde il Dio cattolico è incarnato nella storia, nelle miserie del presente), si è parlato sul tema della bellezza e dell’arte, di Dio e dell’uomo, in modo davvero eccentrico rispetto alle estetiche scontate che non soddisfano né l’«eros della ragione» né quello dei sensi. Se lo scientismo – come qualcuno ha ricordato rievocando parole wittgensteiniane – è la «superstizione della modernità», l’estetica contemporanea rappresenta la liturgia di tale superstizione.

Della bellezza, invece, come una specie di ‘terzo predicato’ di Dio (dopo la potenza e il bene), ha trattato Roger Scruton. Altre volte, aveva sottolineato che la sua ricerca nell’arte tende a smentire il tremendo sospetto che le vite umane siano solo un insensato alternarsi di nascite e di morti, mentre un’«arte» priva di bellezza, secondo i canoni dall’estetica contemporanea, sarebbe la migliore conferma di tutto questo ciclico vuoto, la sua più insistente réclame. Contro l’opera senza senso e contro la riduzione della vita a sequenza chimica insignificante Scruton aveva obiettato: «è vero che il feto è un collage di elementi chimici, ma solo nel senso che la Quinta sinfonia di Beethoven è esclusivamente una collezione di suoni». L’autentica creazione si ha nel momento che «si crea un significato», non raccogliendo in frammenti lo scarto del mondo che si ammanta di glamour con il nome di trash. A Roma è tornato a cercare di stringere questa bellezza dal significato metafisico, pur sfuggendo – secondo tradizione e gusto britannici – alle definizioni precise. Ha preferito accostarvisi attraverso esempi concreti. O enunciazioni abbozzate.

Cosicché ha spiegato che «all’arte chiediamo di rassicurarci sulla sensatezza della vita» e, al di qua della Manica, sebbene grati per le semplificazioni e la probità intellettuale, subito affiora qualche dubbio. Anche perché egli ha invocato quali testimoni di una simile funzione rincuorante dell’arte Paul Cézanne o Anna Achmatova mentre magari ci si sarebbe aspettato che facesse nomi Biedermeier, e non tanto gli sconfortati Schubert o Grillparzer quanto gli ebanisti, gli autori di mobili solidi, gli ormai dimenticati protagonisti dell’arte applicata. Sembra schiudersi a queste parole sull’arte ‘rassicurante’ un bozzettismo del XXI secolo, decorativo, privato, tra le rovine del mondo dove sono cancellate le differenze. È davvero una proposta per il nostro presente?

Quando il filosofo parla del «bisogno di casa» – non la dimora di risonanza heideggeriana, proprio il cottage elegante – facendo l’esempio di una madre che organizza una cena in cui riunire la famiglia e imbandisce con cura la tavola, tirando fuori i migliori piatti e i migliori bicchieri, trasformando la cena in un «simbolo del ritorno a casa», esempio assai prosaico di bisogno quotidiano della bellezza, che altro dobbiamo pensare se non al biedermeieriano Gemütlich? Il termine, con la sua eco nell’anima, diventa l’aggettivo fatale della festa familiare. E Scruton sembra salvarsi soltanto perché si riferisce alla villa rustica e aristocratica: fuori da quel mondo, fuori dall’isola britannica, saremmo già in un carosello. Ma poi il filosofo innalza questo «bisogno di casa» a un «bisogno che sorge dalla nostra condizione metafisica» e allora la bellezza ci dice che «noi siamo a casa in questo mondo». La sensazione, va detto, risulta molto cattolica e molto controcorrente in questo tempo segnato da gnosi striscianti che giocano soltanto sulla parola ‘esodo’ perché credono nel «dio malvagio», il demiurgo che ha costruito un mondo materiale da cui si vuole fuggire. Ma la poetizzazione dell’intérieur non è forse un’altra fuga dal mondo?

Con una punta di cattiveria Adorno aveva osservato che «con il Biedermeier la vita interiore del passato diventa mobilio», Scruton che ha esordito proprio con un libro di critica al pensiero ‘francofortese’, se ne sta lontano dalle ansie critiche che turbano la stille Zeit della campagna inglese, dei luoghi esclusivi senza neppure lo strascico moralistico piccolo borghese che accompagnava il Biedermeier. Ma l’arte non ci aiutò a fuoriuscire dal quotidiano piuttosto che a enfatizzare l’abitudine, la routine? Non fu sempre momento festivo che interrompeva la ferialità?

Questa sorta di quietismo estetico non si sofferma sui linguaggi, sugli stili veri e falsi, sui ritorni del passato come revivals, sul caos stilistico del postmoderno, sulle forme spezzate, sulle immagini catatoniche, sull’amorfo, sui minimalismi. Nulla, soltanto dei nomi che indicherebbero una certa linea, da Benjamin Britten a T. S. Eliot. E in un recente scritto, ancora una volta contro Adorno, prova a esorcizzare i dèmoni severi della Scuola novecentesca di Vienna e a riscattare con innocenza le canzoni dell’America pop della prima metà del XX secolo. Si può stabilire una concordanza tra le due dichiarazioni di intenti?

Ben più attraente si fa il discorso nella parte critica della dissacrazione moderna, questa parola-chiave buona a giustificare ogni banalità estetica. Ecco il «catalogo di mutilazioni», la decostruzione sistematica per rendere la «forma umana disgustosa». Anche qui, qualche perplessità però. Anzitutto nel racconto con cui presenta il fenomeno. Parlando in chiave autobiografica, accenna a un taglio profondo nella storia del dopoguerra: «il mondo dell’arte ha conosciuto un cambiamento improvviso». Anche il lettore del nostro «Almanacco» si è imbattuto più volte nella vicenda, lunga secoli, della trasformazione moderna e modernista dell’arte, dal sovvertimento del bello con il brutto al rifiuto anche del brutto, fino al trionfo dell’insensato. Scruton dimentica qua e là questi essenziali passaggi, o li comprime, così come arriva a prendersela con l’incolpevole Quentin Tarantino, quasi incarnasse la summa degli oltraggi all’umano, confondendo il contenuto – le efferatezze del pulp – con la forma (e quella di certi registi è forte, rigorosa addirittura, fedele a un ‘genere’, niente a che vedere con le debolezze degli altri ‘visivi’, con l’impotenza della pittura d’oggi di rappresentare, di narrare).

Finalmente affronta l’«abitudine alla dissacrazione in cui la vita non viene celebrata dall’arte quanto invece presa di mira da essa», nell’epoca in cui gli artisti si fanno una reputazione «gettando sterco sul volto umano». Oggi, quel viso imbrattato attesta la straordinaria «sordità all’umano», come al convegno qualcuno l’ha designata. Michel Foucault non viene menzionato, ma è lui il capofila della dissoluzione del volto dell’uomo, della profanazione del versetto biblico «a sua immagine». In Le parole e le cose concludeva con tono oracolare: «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima». Scommetteva anzi con indifferenza su quella fine, quando «l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia». Nei luttuosi annunci, ben più narcisistici di quelli sofferti di Nietzsche, si trastullò una generazione giocando con il nichilismo senza alcun desiderio di oltrepassamento. È comprensibile che, da parte di un filosofo britannico, allergico agli ermetismi linguistici, si tenti di reagire anche solo mettendo in luce una nostalgia dell’«oltre la linea».

La «tediosa cultura della trasgressione», della negatività, degli «imbruttitori» del mondo ha il suo culmine nell’epoca della massima ricchezza diffusa in Occidente, della pace, dei «figli viziati dallo Stato assistenziale», sostiene Scruton. «Giovanissimi in braccio al lusso» son scivolati con compiacimento nel tragi-comico del «contemporaneo». Dall’altra parte, nella Russia del comunismo, della miseria coatta, il perseguitato Josif Brodskij seppe scrivere versi rari nel nostro tempo. Si vuol dire che l’arte cresce soltanto nel mondo travagliato? Riduciamo il discorso sulla bellezza dalla teologia alla sociologia? Piuttosto che una questione di ricchi e poveri, la mancanza della presenza divina nelle società della opulenza sembra essere una esclusiva moderna. Possiamo forse definire atea la Firenze dei Medici, così eccessivamente ricca e straordinariamente ricolma di artisti? Da che cosa è mossa dunque quella voglia di dissacrazione, cioè di depredazione, di un cadavere o di un cimitero, di una chiesa o di una immagine, che si è registrata da oltre un secolo?

Scruton più che a una eterna tentazione satanica sembra credere nello «spirito democratico» che mette in discussione la regalità e la religione. Forse rivolgimenti più profondi di un semplice fatto di benessere ozioso, magari accompagnandosi con lo spirito democratico, fecero crollare il mondo di ieri; anche se il terremoto fu certamente meno traumatico nel regno insulare. E il castello e la chiesa, che secondo Hans Sedlmayr sono alla base della storia dell’arte, laggiù sopravvissero Ma almeno il ‘giardino all’inglese’ e le teorizzazioni di Lord Shaftesbury, che Scruton cita, influirono anche sulla cultura britannica e aprirono al radicalmente nuovo nell’arte: «il giardino ‘all'inglese’ deve essere considerato molto più che una nuova forma di giardino. Esso vuole significare la ribellione all’egemonia dell’architettura, cioè una specie di rapporto del tutto nuovo fra uomo e natura, e – in genere – una nuova concezione dell’arte», attirando nella propria orbita tutte le altre forme estetiche. Così scriveva l’austriaco Sedlmayr che con rigore unico provò a spiegare l’eclissi della bellezza nel mondo moderno. In guisa di appunti, riprendendo dalla sua opera maggiore, Perdita del centro, limitiamoci ad annotare i punti principali di quella disamina: il regno del museo e il nuovo culto dei morti; il monumentale che caratterizza la fine del XVIII secolo e l’intero XIX; le macchine, la tecnologia in genere; la estraneazione tra le arti e la morte dell’iconologia (pur in un’epoca che ne studiava come mai quella del passato, anche a causa dei copiosi mezzi del miliardario ebreo-tedesco Warburg e del circolo che costituì). E soprattutto, in conseguenza di tanti rovesciamenti, il dissolvimento dei confini dell’arte, il connubbio romantico con l’esistenziale, la confusione tra bellezza artistica e bellezza naturale. Con simili novità dovette misurarsi la bellezza divina.

Le osservazioni sociologiche, la descrizione delle scene di vita mondana, i bien-nés che dissipano le ricchezze in sciocchezze non ci dicono l’essenziale. Ricorriamo ancora a Sedlmayr che trova nella palude dell’arte moderna la figura e l’opera di Satana. Leggiamo e riflettiamo su questo denso passaggio: «La vicinanza dell'arte alla morte e alla sua agghiacciante atmosfera era stata già notata nella storia dell'arte: essa esisteva cioè in quell’arte anticlassica che viene superficialmente riassunta nel nome di romanticismo. In essa una sublime concezione della vita, della natura e dell’antichità erompe dagli abissi primordiali. Ma in questa situazione minacciosa si conserva la dignità dell’uomo. Nel romanticismo tedesco – in Gilly, Beethoven, Kleist, Hölderlin e Novalis come pure in Runge e in Friedrich – la vicinanza alla morte è umana, è tragica. Nella sua dedizione al Tutto, divenuto ancor più inaccessibile, l’uomo afferma nell’arte la propria legge di fronte al caos ch’egli conosce fino in fondo. Ma ora, alla coscienza della morte che in mille modi spia ogni essere vivente trasformandolo nella maschera della morte stessa, in un fiore appassito, in una stanza vuota e, perfino, in una natura morta, rappresentati in tutto il loro orrore, si unisce il dubbio angoscioso sulla dignità e l’essenza dell’uomo, sia come dolorosa rinuncia sia anche come cinica deformazione. Questa vicinanza alla morte non è tragica, ma è infernale, e conferma il caos. Ed è tanto più terrificante in quanto ora non esiste più alcun settore dell’esistenza umana che si possa sottrarre a questa irruzione del mondo degli inferi».

Scruton, autore di un manifesto dei conservatori sa bene che la tradizione viene meno con grande deflagrazione quando l’uomo si ritrova autonomo da tutto, desolantemente solo. Non basta il conforto di un interno borghese, di un pranzo familiare per riassaporare l’arte. E il mercato non basta né per spiegare le merci estetiche che circolano né per risolvere i problemi sorti e così interrompere la danza infernale di queste merci.

Giusto perciò puntare alla messa a fuoco della profanazione moderna. Già alla fine del Settecento, il sacro si distaccava vieppiù dall’umano, osservava Rudolf Otto, e questo distacco appariva nei versi di Hölderlin come nelle immagini di Caspar David Friedrich. Adesso, dice Scruton, «la dissacrazione è una sorta di difesa dal sacro», ovvero, «davanti alle cose sacre le nostre vite vengono giudicate; e per sfuggire a quel giudizio, noi distruggiamo la cosa che sembra accusarci». L’infantile ripicca, il gesto insolente, lo sberleffo, si estendono quindi alla bellezza che è un po’ la forma del sacro o comunque la sua immagine numinosa. Questo produce la speciale pornografia contemporanea, non esclusivamente sessuale, un nichilismo a luci rosse, lo chiama Scruton. La «vendetta contro la forma umana» diventa la vendetta contro ogni forma, il rifiuto del Logos, l’abbassamento al balbettio, alle posture animali, alla degradazione umiliante, alla fissazione stercoraria.

Allora senza l’idea di bellezza nell’estetica trasgressiva, anzi nella sua programmatica esclusione, viene a mancare anche la possibilità di amore. Nel mondo post-moderno non c’è spazio per esso, non si può nutrire di parodia e di irrisione. Non resta che un sentimentalismo caricaturale. La cosiddetta «arte contemporanea» – conclude il filosofo britannico – ha distrutto l’amore.
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martedì 8 dicembre 2009

minima / Blasfemia del colore

La Carmen meneghina non riguarda un «Almanacco Romano», ma l’empietà futile è affar nostro, rientra nella critica delle arti e delle lettere. Una paffuta signora della «Repubblica», la disneyana Fata Smemorina del nostro giornalismo, si infiamma per «un’eretica alla Scala», profonde lodi per la regista torva che vilipende i simboli cattolici, gode per le santuzze derise, per le croci violate, per il Cristo fatto a pezzi in scena. Questione di gusti. Fairy Godmother prova con la bacchetta magica a trasformare in un’accolita di Goya la signora palermitana che non ha nemmeno il talento anticlericale di Buñuel. Ma a un certo punto si fa seria. Lei così eccitata dal sacrilegio ha trovato qualcosa di insopportabile nella dissacrazione della festa mondana e lo bolla con la parola appropriata: bestemmia. Perciò definisce «blasfemi» i cravattini verdi sullo smoking di alcuni deputati locali in abbigliamento ideologico. Povera vecchia signora, il suo senso del sacro è legato al mondo di sarti e sartine, alla Moda compagna della Morte.
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domenica 6 dicembre 2009

minima / Vaudeville

Quelle malelingue dei fratelli Goncourt, nel loro Journal, alla data dicembre 1851, subito dopo cioè il golpe di Luigi Napoleone: «Sono certo che i colpi di Stato riuscirebbero meglio se ci fossero posti, palchi, poltrone per poterli meglio vedere, senza perderne nulla». Ecco esaudita la loro fervida fantasia dalla situazione attuale, quando i capi di governo, regolarmente eletti, sono colpiti al cuore da procuratori, mafiosi, mature signore del demi-monde, velisti invidiosi, giornalisti, rancorosi in genere, faccette elettroniche, poteri forti, folle sguaiate, a maggior gloria della sterminata platea, quella comodamente seduta in casa davanti al televisore. Adesso ci sono anche i primi piani della telecamera, si vede ogni cosa.
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sabato 5 dicembre 2009

minima / Cene

Mio Dio, pensate con carità cristiana alle cene nelle taverne romane di quanti sono sfilati oggi per far dimettere il governo democraticamente eletto: che concentrazione conviviale di banalità e frustrazione.
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venerdì 4 dicembre 2009

minima / La caduta

Càpita di entrare, in occasione di un ‘evento mondano-artistico’, nel mega-garage dove hanno sistemato l’Ara Pacis e di scoprire che, come fossimo a Disneyland, dei fasci di luce colorano virtualmente i rilievi del monumento augusteo. Un piccolo affronto alla libertà dello spettatore di interpretare e di immaginare le reliquie del passato. Eppure le rovine attraggono in quanto «opera d’arte incompiuta», diceva Simmel nel suo celebre saggio sull’argomento. Non si potrebbe offrire questo sussidio didattico puntando i riflettori su un calco da collocare negli inutili spazi che attorniano la teca?

Càpita di alzare gli occhi sopra i marmi romani e di scoprire una volta a vetri che riprende fedelmente le forme di una fabbrica berlinese inizio Novecento. Perché mai, di grazia, simile accostamento? È una spiritosaggine?

Càpita di entrare con un’amica nel recinto dell’altare per ammirare i fregi marmorei che ispirarono gli artisti del nostro Cinquecento e un istante prima di infilarvi il piede essere raggiunti dall’avvertimento di un custode: «Attenti al gradino!». Càpita poi che, uscendo dal magico quadrato, l’amica non faccia in tempo a sentire il monito di un altro solerte custode, inciampi quindi e cada rovinosamente sul marmo. Senza neppure i «balsami beati» delle Grazie invocati da Foscolo. Il responsabile del suo acuto dolore è l’autore americano di questa offesa alla storia di Roma. Non si tratta soltanto di bruttezza, di faccende di gusto: un architetto che, forse per calcoli sbagliati, si ritrova un piccolo dislivello intorno all’opera per la quale ha costruito tutto l’edificio e, invece di pareggiare il pavimento là dove il flusso è maggiore, costringe le folle dei visitatori a rischiare gambe e piedi, impegnando inoltre ben quattro custodi – nei quattro angoli dell’ara – a ripetere perennemente la raccomandazione ai malcapitati, è al contempo un incapace e un mascalzone.
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giovedì 3 dicembre 2009

minima /Artisti

All’inizio del secolo scorso, le sciantose del café chantant erano chiamate artiste. E generosamente venivano insignite del medesimo titolo soubrette e ballerine dell’avanspettacolo: sono artiste – si diceva, per giustificare i costumi non irreprensibili. Artisti erano i guitti che conducevano una vita bohémienne, artisti i suonatori ambulanti, i complici delle bassezze raccontate da Thomas Mann a proposito del chitarrista e baritono-buffo di Der Tod in Venedig, l’istrione «mezzo ruffiano e mezzo commediante», il protagonista di un ripugnante spettacolo. La nostra lingua non possiede in questo campo le sfumature gerarchiche che ha quella tedesca: Artist si riferisce all’arte grossolana del clown, Künstler soltanto è il continuatore di Dürer. Il celebre film di Alexander Kluge, Die Artisten in der Zirkuskuppel: Ratlos, parlava appunto di Artisten sotto la tenda del circo.

Guitti, circensi, ballerine, talvolta bastò la sifilide, «sintomo di artista». Adesso, molti di questi artisti per equivoco possono vantare un’udienza pontificia, addirittura un dialogo con il papa teologo. Per carità, è una piccola questione nominalista: anche Pio XII riceveva Joséphine Baker (benché si esibisse a Parigi soltanto con un gonnellino di banane) e i ciclisti con in testa Bartali, però nei resoconti vaticani non veniva in mente a nessuno di denominare tali personaggi come artisti.

«“Gott ist Form”, aveva scritto un giorno Gottfried Benn, in una folgorante intuizione. Non “Gott ist eine Forme”, né “Gott ist die Form”, né definito né indefinito, ma Dio è Forma. È la sola risposta possibile, mi sembra, al sarcasmo di un’arte contemporanea che ha non solo del tutto dimenticato i propri doveri, ma anche i propri poteri». Così concludeva un suo libro Jean Clair. Si potrebbe aggiungere che il folgorante Gottfried – riconciliato con Dio, secondo l’etimo del suo nome – ritenne essere l’araldo massimo di quella Forma divina. E almeno per la sua epoca, nonostante sia stato più volte tentato dal Satana del nichilismo, forse ebbe ragione. Anche se non mise mai piede in Vaticano.
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sabato 28 novembre 2009

minima / Bandiera rossa

Nella Polonia per mezzo secolo asservita al comunismo dei russi, oggi proibiscono l’esibizione della bandiera rossa. Con un certo ritardo, vent’anni dopo la fine di quel regime, un po’ come successe nell’Italia dei Settanta, quando per motivi contingenti si riscoprì l’«antifascismo». Ma i simboli, ancorché clandestini, non sono facilmente cancellabili, anzitutto dal cuore.
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Sergej Nicolaevič Bulgakov fu un economista e un rivoluzionario russo, amico di Rosa Luxemburg, avversato da Lenin. Davanti alla Madonna Sistina di Raffaello a Dresda, digiuno di conoscenza estetica, ebbe una esperienza estatica, tornò a interessarsi alla fede dell’infanzia. Allora l’«insolenza rivoluzionaria» gli apparve come lo spirito dell’Anticristo. Rientrò nella Chiesa ortodossa, chiese l’ordinazione sacerdotale, divenne uno dei massimi teologi del Novecento, un amico di Pavel Florenskij. All’inizio degli anni Trenta, padre Sergio, ormai esiliato dall’Urss, era a Londra dove si trovò a passare per Hyde Park in un Primo maggio freddo in cui cadevano fiocchi di neve. Racconta un pope che era con lui: al passaggio delle bandiere rosse, una «nube di bandiere rosse» nel cielo grigio e bianco, «mi meravigliai nel vedere con quanta eccitazione, con gli occhi scintillanti, padre Sergio osservasse questo spettacolo per me rivoltante. Egli ammise di sentire un’emozione, un entusiasmo a lui ben noti… ‘È complicata la lira dell’anima umana’, disse. ‘L’armonia in essa si mescola con la dissonanza’».
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venerdì 27 novembre 2009

minima / Kulturmarkt e paure

Scherzammo, qualche settimana fa, sulle grandi truffe del «global warming» e del «contemporaneo» (The Great Swindle, 25 ottobre 2009). La recente scoperta della clamorosa manipolazione dei dati, per dimostrare il surriscaldamento della Terra, all’interno dell’University of East Anglia’s Climatic Research Unit, un santuario scientifico che detta legge nel mondo; l’affondamento odierno del Dubai, patria dell’architettura vacua e del postmoderno maomettano, sembrerebbero dar ragione all’«Almanacco» e al buonsenso. Ma c’è poco da gioire. Il grande pubblico non vuole accorgersi di queste cose e, a modo suo, ha ragione. Le crisi attuale del consumo, infatti, gli sbandamenti in Borsa, non sono risposte, purtroppo, alle domande decisive: perché si crede ostinatamente in questa Apocalisse senza Rivelazione? Perché tanto parlare di arte a proposito di merce?

«Molto resta ancora da dire circa il rifiuto del godimento visivo della sensibilità moderna», scrive Jean Clair. Che volete che se ne possa ricavare dai grafici del Kulturmarkt? Meglio Jünger: «Viviamo in tempi indegni dell’opera d’arte; soffriamo senza scusanti. Non resterà di noi che il rumore della sheol. Anche oggi la costrizione trova consensi. Ma insieme cresce la tristezza, che si dilata fino ai negri, e la mia malinconia ne partecipa».
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sabato 21 novembre 2009

Cortesie per gli ospiti

~ SI TIENE OGGI NELLA CAPPELLA SISTINA UNA STRANA CERIMONIA: LA CHIESA SEMBRA MENDICARE UN PO’ DI ARTE DA CHI PER LO PIÙ APPARE ESTRANEO ALL’ARTE. ~ QUI SI PROVA A FARE ENTRARE BAUDRILLARD NELLA ELETTA ADUNANZA PER SPIEGARE LA NUOVA ICONOCLASTIA: «LE IMMAGINI DOVE NON C’È NIENTE DA VEDERE» ~

Giulio II, eccelso committente, si appassionava talmente all’opera richiesta da scappargli qualche volta una bastonata per l’artista troppo lento nell’esecuzione. Accadde a Michelangelo, lo narra Vasari. I pontefici contemporanei dovrebbero munirsi di auree clave e distribuire copiose randellate su alcuni tipacci che imbrattano le chiese cattoliche. Ma i papi degli ultimo secolo sono di tutt’altra pasta. Pazienti, cortesi, meno mondani dei loro predecessori, sembrano quasi chiedere scusa quando intervengono con affabilità e discrezione negli affari del mondo moderno. Così l’intera Chiesa, che fu la massima mecenate dell’arte occidentale, adesso mendica un po’ di favori estetici anche da chi non è in grado di donare alcuna bellezza. E chiede venia se, glorificata dai maggiori artisti, architetti e poeti della storia, non benedisse benevola da subito i wc delle avanguardie.

Partono per il mondo cinquecento inviti a un incontro conciliante con il papa, si distribuiscono generosamente patenti di ‘artista’ da cattedre altissime, anche a sghignazzanti caricaturisti dei pontefici, e soltanto la metà risponde con un sì. Prevalentemente italiani. E già questo non va bene per l’universalismo romano, oltralpe difficilmente faranno caso a un «Sanremo in Vaticano». Ci sono inoltre nell’elenco gruppi di musica assai pop che neppure nei villaggi rurali hanno più qualche ascolto, comici da avanspettacolo, figurine della moda televisiva. Cormac McCarthy non c’è. «A vivere oggi si respira nichilismo. Dentro e fuori la Chiesa è il gas che si respira»: così annotava Mary Flannery O’Connor, la grande scrittrice cattolica del Novecento. Chissà se lei sarebbe venuta sulla tomba di Pietro con simili compagni di pellegrinaggio?

La Chiesa dialoga giustamente con quel che passa il convento, ossia con chi lavora in campo estetico nel nostro tempo. Ma forse dovrebbe chiedersi se in quel campo non sia accaduto qualcosa che impedisce il dialogo. Non per cattiva volontà, rigidezza, passatismo, non per «incomprensione», come ci si autoaccusa ossessivamente. E se, anzi, proprio la Chiesa avesse capito bene fin dall’inizio? Mica si crederà davvero alla favola delle forme nuove che richiedono tempo per essere digerite, sulla falsariga delle grandi innovazioni linguistiche nella storia dell’arte. Il «contemporaneo», la post-avanguardia, il postmoderno, comunque lo si chiami, è un’altra cosa. I più diretti dei loro presentatori lo dicono senza remore, come questo che abbiamo scelto soltanto perché più sintetico: «Volendo essere drastici, il criterio ispiratore dell’arte oggi non è più l’amore del bello e del vero (secondo la poetica definizione di John Keats) ma sono principalmente i soldi, l’ego e la ricerca della notorietà» (va precisato che il tizio lo afferma con compiacimento, fiero anche della patetica «ricerca di notorietà» che lo accomuna alle adolescenti sognanti le luci della ribalta). Bene, legittime aspirazioni – che cosa c’è di più comune, volgare, che voler fare soldi e gonfiare l’ego – ma che c’entra la Chiesa?

Gli affossatori della bellezza – quindi, un po’ satanici, ma solo per ‘fare soldi’ – si auto-trasformano con un atto di magia nera in artisti, cioè nella categoria umana più simile a quella divina. Il nome auratico serve per catturare la fantasia del pubblico come quando si vuole imporre un detersivo (del resto, già i sarti e i dipendenti del sistema reclamistico del ‘sempreuguale’ presero in prestito niente di meno che il titolo di creatori e creativi). Che c’entra la Chiesa con simili trucchi?

Nei corsi universitari dedicati al «sistema economico dell’arte» si insegnano i presupposti epistemologici del «contemporaneo». Ne riportiamo una presentazione contenuta nei programmi di un prestigioso ateneo (scusandoci per la terminologia gergale), ma è vulgata di ogni manuale, sorpresi che prelati coltissimi non ne traggano le dovute conseguenze: «… La causa, ma in certi casi anche la conseguenza, di questi “cedimenti” oppositivi è da ricercarsi in una serie di mutamenti sia teorici, sia tecnici sia disciplinari, di importanza epocale, esprimenti, se non sempre una realtà data, quanto meno una forte linea di tendenza: la complessità si è sostituita alla linearità, il rizoma alla radice e all’albero, l’ibridazione alla selezione, il mutante al tipo, la performance all’oggetto d’arte, la dispersione alla concentrazione, il digitale all’analogico, il multimediale al mediale, la simultaneità al tempo, la televisione al cinema, internet a posta, fax, telegrafo, telefono, le onde e le fibre ottiche ai cavi di rame, la biogenetica e la chirurgia alla medicina, le scienze neuronali alla psicologia e alla pisicoanalisi, la clonazione alla procreazione, il bilinguismo alla monolingua, il globale al particolare, l’imperfetto al perfetto, il virus all’identitario». Chi parte da simili premesse dovrebbe illustrare il Verbo?

Un personaggio che ricorse pure a tali gerghi, inventandoli però, non limitandosi a ripeterli, ebbe a un certo punto un sospetto. A furia di decifrare i segni del nostro tempo, Jean Baudrillard cominciò a parlare di «arte che scompare». Era già un dato, ma tale scomparsa veniva ancora abbellita: «L’arte oggi – diceva negli anni Ottanta – non esiste che nella forma della scomparsa. Ma essa può giocare la sua scomparsa per molto tempo con degli effetti sublimi». Anche qualche chiesa deve aver creduto in tali effetti speciali e commissionato delle opere a coloro che si industriavano per far sparire l’arte. Baudrillard continuava intanto a scrutare il magma del «contemporaneo»: «la merce – scriveva – è leggibile, in opposizione all’oggetto che non svela mai il proprio segreto, la merce manifesta sempre la propria essenza visibile, il proprio prezzo». Questa «arte» del tutto trasparente era dunque soltanto merce. Si affermava la preponderanza del significante: l’«onnipotenza di un sistema di lettura su un mondo diventato un sistema di segni», ciò che deve essere letto, il leggendario. Non era più questione della « verità del mondo e della sua storia, ma solamente della coerenza interna del sistema di lettura». Trionfava la tautologia. Brillavano allora nei saggi dello studioso francese delle importanti intuizioni: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere». Le immagini «dove non c’è niente da vedere» attraevano forse i nostri teologi negativi, illudendosi in un risvolto metafisico, non capendo che si trattava di puro consumo.

Suscitando scandalo internazionale, Baudrillad fece il passo decisivo. Nel 1996 pubblicò un articolo dove denunciava Le complot de l’art. Stavolta i suoi sofisticati fans ebbero difficoltà a salvare l’immagine progressista del maestro. Baudrillard metteva insieme il sesso della pornografia – senza più segreto e senza più desiderio – e l’«arte contemporanea» senza più rappresentazione. Distingueva perciò dagli ultimi esiti le avanguardie, il modernismo estremo rappresentato da espressionisti e cubisti, che volevano «forzare il segreto del desiderio e dell’oggetto». Resisteva nelle loro opere l’«enigma in negativo», il «mistero in filigrana», ossia una traccia di «autenticità» che ammaliava gli spiritualisti d’ogni religione. Nel post-moderno però anche l’aspetto segreto veniva meno. «Che cosa se ne sta rincantucciato dietro a questo mondo falsamente trasparente?» si chiedeva riassumendo le aspettative di chi per bisogno di arte sembra poi accontentarsi di tutto. La risposta era netta: «ci si appropria del banale, del rifiuto, del mediocre come valore e come ideologia», anzi una confessione di banalità «eretta a valore». Baudrillard cercava la chiave di questo «godimento estetico perverso» e distingueva dentro la ricerca nichilista. Dovrebbero prestare attenzione a queste riflessioni gli amanti degli astrattismi e dell’arte anoressica che danno fiducia agli installatori. Il pensatore francese separava il Nulla della mistica eckhartiana (anche se non la chiamava così), il nulla come «qualità segreta», dai «falsari del nulla», dallo «snobismo della nullità». «Pretendono esser nulla: “Non sono nulla! Non sono nulla!” e in effetti non sono proprio nulla». Si tratta allora di una strategia commerciale della nullità, alla quale «danno una forma pubblicitaria» e la «forma sentimentale della merce». In tal modo «si nascondono dietro alla propria nullità e dietro alle metastasi del discorso sull’arte, che si adopera generosamente per fare risaltare questa nullità come valore», anzitutto, naturalmente, sul mercato. In un simile quadro non c’è più «alcun giudizio critico possibile», soltanto un «convivio della nullità». I presuli che guidano allegri la brigata nei Sacri Palazzi non condividono certo quel nichilismo da strapazzo di alcuni ospiti ma il ‘complotto dell’arte’, direbbe Baudrillard, è contagioso. L’altro aspetto del «bluff della nullità» è infatti quello di «forzare la gente, a contrario, a dare importanza e credito a tutto questo, con il pretesto che non può essere che sia solo una nullità, che vi si nasconda qualcosa». È la trappola appunto in cui cadono gli spettatori in buona fede. Su di loro impietoso, con tono pamphlettario, Baudrillard concludeva: «L’arte contemporanea gioca su questa incertezza, sull’impossibilità di un giudizio di valore estetico fondato, e specula sul senso di colpa di chi non capisce niente o che non ha capito che non vi era niente da capire».

Temiamo allora che, sia pure con le migliori intenzioni del mondo, non ci si potrà aspettare da un installatore niente di bello. Con le prediche di papi e vescovi discese su di lui sarà forse più ispirato ma continuerà a mancargli tecnica e talento. È comprensibile d’altronde che si provi una certa stanchezza per la traversata nel deserto iconoclasta e che, per quanto riguarda l’arte sacra, la liturgia abbia bisogno urgente di forme adatte, ma non conviene ripiegare sulla imitazione di un qualsiasi passato – il gioco dei revivals è parte integrante del post-moderno –, sull’idolatria del passato che è altra cosa dalla tradizione. Se le arti figurative devono ancora attendere, niente di apocalittico. Sarà una quaresima, una settimana santa con le immagini velate, la storia mostra altri austeri periodi per le arti belle. Pascal pensava addirittura che fosse finito il tempo della Biblia pauperum, ormai sostituita pienamente dalla parola piena, dalla preziosa prosa seicentesca. Meglio comunque un periodo di eclisse, penitenziale, che un autoinganno con le astrazioni, con l’emotività facile, con immaginette edificanti. Nel frattempo ci si rifarà magari con la letteratura, dove si scrive ancora e, per fortuna, non si ripetono più le filastrocche dell’avanguardia d’antan. Il Concilio di Trento definì la pittura «letteratura per illetterati». Oggi, una folla di illetterati, soltanto a causa dell’alfabetizzazione, inganna il tempo leggendo libri che non lasciano un segno. Sembra che non si abbia più bisogno della pittura né della letteratura ma di intrattenimento per il «tempo libero» dei carcerati. Eppure, come scriveva Guido Ceronetti: «Forse c’è là, nel groviglio delle vite, qualcuno che aspetta di ricevere i nostri versi per mangiarne la luce e fortificarsi, indebolendo la morte, allontanando per un attimo la paura?». Ecco, una scrittura per «indebolire la morte», per sbalestrare il sistema nichilistico: quanti degli invitati in Vaticano operano in tal senso?

Il soave «culto delle immagini» che predicava Baudelaire diventa pernicioso nell’epoca delle immagini «dove non si vede niente». Ogni liturgia deve diffidarne. Tenendo gli occhi bene aperti onde non confondersi con quelli che ormai ammettono a chiare lettere che le loro merci hanno solo valore economico, che il contemporaneo è un modo di far girare i soldi. Altrimenti - spiace per le buone maniere del clero odierno - di fronte ai mercanti nel tempio (tema peraltro ricorrente di molti capolavori pittorici) bisogna, come il Salvatore, rovesciare i loro banchi, il senso del loro mercato, e buttarli fuori con la frusta.
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giovedì 19 novembre 2009

minima / Le croste dei Musei Vaticani

Per colmare la «divaricazione tra fede e arte» son stati convocati in Vaticano sabato 21 novembre degli strani ospiti: qualche rispettabile scrittore, musicisti di vario genere, rari scultori, molti cinematografari, canzonettisti, fotografi, ballerini e mondani che fanno i soldi con le ‘installazioni’ ridanciane. Dio solo sa come tutta questa gente possa contribuire anche nel più contorto e miracoloso dei modi alla rinascita dell’arte sacra. Comunque alla vigilia dell’incontro con il papa nella Cappella Sistina, gli ospiti saranno accompagnati in un luogo poco frequentato dei Musei Vaticani, quello dedicato ai contemporanei, dove sono riunite opere per lo più tristanzuole, per esempio quadri e bozzetti, molti bozzetti, su infelici e malati, quasi che nella modernità l’arte cattolica fosse ridotta a una specie di Croce Rossa estetica. Alain Besançon, nella prefazione al suo L’image interdite (che i lettori dell’«Almanacco» trovano spesso citato), ricorda che fu tra l’altro l’esplorazione di questa appendice dei Musei, dove l’arte sacra diventa sentimentalismo scontento, dolorismo senza speranza, a spingerlo alla poderosa riflessione sull’iconoclastia dei nostri tempi: «Un segno di cattivo augurio fu la visita della sezione contemporanea dei Musei Vaticani, che segue quelle antiche e le collezioni di pittura raccolte dai papi di un tempo. Davanti a queste croste, si è colpiti da uno spavento che va al di là dell’arte. In nessuna altra parte l’angoscia del cristianesimo moderno appare in una luce più cruda – una luce da ospedale. Davanti a queste povere cose aggressive (ci si abbassa fino a Bernard Buffet!), invano si cerca il più effimero riflesso della maestà che Raffaello, nelle Logge lì accanto, trasmetteva dal divino e al divino». Se questo è il modello…
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martedì 17 novembre 2009

minima / Mecenati

I Wiener Philharmoniker, il Coro polifonico della Fondazione Bartolucci (tra i maggiori interpreti di Perluigi da Palestrina), il Palatia Classic Brass Ensemble; nelle precedenti edizioni, le principali orchestre sinfoniche europee, e direttori come Riccardo Muti, Daniele Gatti, Leopold Hager, Franz Welser-Möst. Tutto gratis et amore Dei. Sfondo: le absidi delle basiliche romane. È il Festival internazionale di musica e arte sacra giunto all’ottava edizione, che si svolge nelle quattro basiliche patriarcali, cioè in territorio vaticano dal 18 al 22 novembre. Una fondazione, la Pro Musica, mecenate d’altri tempi piuttosto che sponsor, regala al popolo romano concerti di gran classe. Benché la crisi economica si sia fatta sentire anche qui, costringendo a ideare per quest’anno un programma con molto organo e poche orchestre, resta un modello di intervento pubblico, anche se fatto da privati.

Lo scorso anno, nella basilica di San Paolo, all’inaugurazione era presente pure il papa, e la scena del suo arrivo ricordava una Roma ottocentesca: nonostante la prestigiosa orchestra che si esibiva, i Filarmonici viennesi appunto, la curiosità del pubblico era tutta rivolta al vecchio sovrano vestito di bianco che attraversava la navata per sedersi su un tronetto tra due guardie svizzere con l’alabarda. L’osservatore cosmpolita, il nostro massimo scrittore vivente, Alberto Arbasino, commentava: «A San Paolo i Wiener sono perfetti e l’acustica insolitamente ottima, nonostante l’assenza di apparati visibili». Diverso dal misero Auditorium tanto atteso dalla città di Roma, e pagato di tasca nostra, dove gli amanti della musica vanno via a metà esecuzione, irritati per i difetti dell’acustica. Mentre gli amanti della bellezza sono umiliati dal fabbricato in mattoncini, con i portici che, al meglio, evocano il neorealismo architettonico delle borgate romane del dopoguerra.
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venerdì 13 novembre 2009

minima / La domenica del globetto

Si inaugura per l’ennesima volta, e non è l’ultima, il mausoleo del Maxxi, opera di un’architetta irachena (è la globalizzazione, bellezza!), cemento grigiastro planato tra le caserme della polizia e i casermoni borghesi inizio Novecento, portando un carico di malinconia islamica in un angolo di Roma già non particolarmente allegro. Fa pensare a certe periferie di Istanbul in giornate piovose, quando la religione maomettana appare severa, tetra: un monoteismo che ha il terrore di contaminarsi con i sensi, uno sconfinato campo di battaglia, i fedeli come guerrieri, le donne come ombre. Comunque, tra vent’anni risulterà più vecchio delle trimillenarie Mura serviane. Vezzo di una stagione.

Questo costosissimo vezzo avrà in dote per il prossimo anno quattro milioni di euri garantiti dal governo di destra. Per farci che cosa? Non si sa, basta scatenare la fantasia, lo Stato paga. Per adesso, tanto cemento profuso serve a mettere in mostra la tela tagliata dell’italiano, una delle minestrine in scatola del pubblicitario statunitense et similia. Il popolo romano esulta. Le scolaresche son state mobilitate da tempo. Gli assessori si inorgogliscono. La città ne sentiva un profondo bisogno. Non si voleva restare dietro a nessuno, e finalmente la domenica come a Helsinki, come a Dallas, provenienti dalle lontane periferie, sul tram che trasporta i tifosi all’attiguo stadio, porteremo i nostri piccoli a vedere le tele tagliate e le minestrine americane.
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martedì 10 novembre 2009

minima / La festicciola della libertà

Racconta Billy Wilder che quando uscì a Berlino il suo brillantissimo Uno, due, tre – un film sulla città divisa, tratto da una pièce di Ferenc Molnàr (quello dei Ragazzi della via Pàl) ma complicato strada facendo dalla costruzione del Muro, tirato su mentre la troupe stazionava lì nei pressi – «nessuno aveva voglia di ridere di una commedia sui rapporti tra Est e Ovest ambientata a Berlino, mentre altri berlinesi rischiavano la vita saltando dalle finestre oltre il muro, oppure cercando di attraversare i canali a nuoto sotto il fuoco delle mitragliatrici. Non che non si possa scherzare anche con l’orrore…». In pochi lo hanno menzionato in questi giorni, eppure è stato il film più feroce sul comunismo tedesco, preferendo evidentemente le ironie bonarie da diario adolescenziale, da murales appunto. E quei berlinesi che non avevano voglia di ridere con la satira di Wilder chissà quali epiteti avrebbero usato per la festicciola della libertà in salsa turistica, organizzata a Roma. Ieri dicevamo che altre cerimonie meritava la riconquistata libertà in Europa, concerti come quello diretto da Barneboim alla Porta di Brandeburgo, che metteva insieme Wagner e Schönberg, la preghiera di riconciliazione con le massime autorità tedesche in una chiesa berlinese, perfino la retorica dei capi di Stato di mezzo mondo. E naturalmente la festa popolare con tanto di fuochi d’artificio.

Anche da noi un concerto, un grande nome della musica, si poteva ottenere, non siamo ancora alla periferia del mondo. Invece, si passa per via Condotti sotto la pioggia e si scorge sul fondo, un obbrobrio grigiastro. Si affretta il passo per veder meglio quell’incubo che invade la mente e si scopre che sulla scalinata di Trinità dei Monti, proprio là dove il ripido pendio del Pincio si addolcisce nelle soluzioni scenografiche dell’ingegno barocco, qualche dissennato ha pensato bene di costruire un Berliner Mauer con tanto di coloracci acidi degli writers. Intorno, nelle misure delicatissime della singolare piazza, accanto alla Barcaccia berniniana, una specie di ‘festa dell’Unità’, con la solita plastica degli accampamenti, con la solita plastica delle sedie, con pile di amplificatori per diffondere rock davvero cheap sotto lo sguardo smarrito di branchi di giapponesi grondanti. Strapaese mixato con l’elettronica del «contemporaneo», il risultato è una discoteca burina. Collocare il tutto a piazza di Spagna suona come una bestemmia. Passi la scalea barocca sfruttata dalle case di moda per farne una passerella, ma un muro per fini pedagogici è una trovata bestiale (con le migliori intenzioni del mondo, s’intende: in modo che lo shock sia più truculento, secondo la vecchia storia avanguardistica dell’imbrattamento della Gioconda, della bellezza violentata, dei pugni nello stomaco; solo che a lungo andare vien voglia di rispondere pugno su pugno e dare così una bella lezione a questi picchiatori estetici). Esulando da Berlino, insopportabile è ormai la continua profanazione delle opere d’arte romane, l’Auditorium essendo il luogo ideale per simili imprese. O i nuovi spazi del Maxxi o del Macro. Se poi, nonostante i soldi pubblici spesi, queste architetture non fanno abbastanza sensazione, non sono riconoscibili, non si prestano a essere offese e umiliate da gesti blasfemi, neppure dai muretti berlinesi, peggio per loro e per chi le ha volute.

In questo ultimo anno più volte è venuto il sospetto che le nuove autorità cittadine non si rendano bene conto di operare nella città di Roma: la cultura dell’urbe non prevede le feste paesane, i nomi di chi si esibisce nei luoghi sacri della città devono essere di tutto rispetto, le archistar vanno tenute a bada ma i dilettanti allo sbaraglio sono ancor peggio. In tutta Europa le differenze destra/sinistra sull’arte, l’architettura e l’urbanistica appaiono sempre più sfuggenti ma a Roma, di fronte a tanto spirito gregario nei confronti della cultura dei predecessori, viene quasi da rimpiangere gli originali.

lunedì 9 novembre 2009

minima / Oltre i graffiti, il sangue

Avevano teorizzato con Marx alla mano, letto in originale, nella madrelingua, la «fine dello Stato», e in effetti uno Stato tedesco venne giù, abolito da un giorno all’altro, estinto con il suo apparato. Pensionati i generali, i capi della polizia, cacciati senza pensione ministri e deputati, smascherate le spie, liberati i prigionieri politici, mandato al macero il denaro… La fiaba marxiana si avverò vent’anni fa. Ma i suoi fedeli lettori non esultarono perché lo Stato abbattuto, l’unico nella storia occidentale, fu proprio quello dei loro sogni, che doveva approdare al comunismo. Bloccato nella fase intermedia.

Per difenderlo nel mezzo secolo della sua durata si ricorse alle armi come nessun altro Stato fece in Europa. Armi di dissuasione e armi che sparavano su cittadini inermi. Una storia terribile, senza eguali. È vero, negli anni del dopoguerra in Europa non si andava troppo per il sottile, a Parigi abbatterono nelle strade decine di algerini gettandone i cadaveri nella Senna (per gli islamici perseguitati si mossero allora solo i cattolici di Louis Massignon), in Gran Bretagna si combatteva una specie di guerra civile contro i cattolici dell’Irlanda del Nord, una vera e propria guerra civile si ebbe in Grecia sul finire dei Quaranta, con strascichi golpisti fino ai Settanta, in Polonia si scatenavano nuovi pogrom contro gli ebrei e stavolta con la benedizione degli «antifascisti» al potere, in Ungheria i carri armati sovietici schiacciarono una rivolta di «comunisti», a Praga i medesimi carri armati terrorizzarano gli apprendisti riformatori, spietatezze insomma che tolgono rilievo in confronto alla stagione del terrorismo italiano, però in nessun posto dell’Occidente si tenne una metropoli in gabbia, divisa per trent’anni con muri e filo spinato e torrette di guardia, da vero Lager, e cani addestrati e militi con i mitra spianati pronti a sparare. Che all’occorrenza spararono, freddando duecento concittadini sul punto di evadere da quella galera. Una volta, a un diciottenne centrato nell’atto di scavalcare, capitò di essere lasciato in quella scomoda posizione a dissanguarsi per parecchie ore fino alla morte. Non fu consentito ad alcun samaritano di prestare aiuto. Si era agli inizi, doveva servire da monito. Nessuna organizzazione di sinistra intitolò a quel giovane migrante un suo circolo. Si chiamava Peter Fechter. Lo ricorda una croce. Chissà se i giudici europei oseranno proibire quel simbolo anche lì.

Non erano bastate le armi per frenare la fuga popolare attraverso le frontiere, il governo «democratico» costruì un muro, centocinquanta chilometri di muro, assediò i berlinesi che non volevano credere nella religione comunista. A quei tempi le commissioni europee si preoccupavano poco delle discriminazioni religiose, si prodigavano invece, pieni di realismo e di buonsenso, perché si dialogasse con i signori che discriminavano e che apparivano assai crudeli. Né i movimenti giovanili, in anni tumultuosi in cui una manifestazione non si negava a nessuna causa, provarono ad abbattere sia pure simbolicamente quella oscena barriera nel cuore d’Europa (negli anni Ottanta si divertiranno a ricoprirne il lato occidentale con scritte e scarabocchi in forma punk, immagini di successo ancor oggi, che nascondono nei media la parete grigia vista dalle vittime). Neppure gli intellettuali firmatari sprecarono un loro autografo per la causa tedesca, anche perché un intervento pur generico poteva costare loro il mancato ingresso nella suggestiva Berlino Est, il viaggio in una metropolitana con stazioni per soli stranieri, il soggiorno di ospiti privilegiati all’inferno; un appello e una firma cioè poteva privarli del visto per la DDR e del biglietto per il teatro brechtiano che li confortava nei loro princìpi: il fascismo e il capitalismo messi in burletta sulla scena socialista, diavolo di un drammaturgo epico!

Vent’anni fa, il 9 novembre questa immondizia ebbe fine. La data andrebbe ricordata come il nostro 25 aprile, come quella dell’ingresso delle truppe alleate nei campi di sterminio nazisti, come il giorno della sconfitta della Germania hitleriana. Cioè con cerimonie solenni, ispirate alla gravità di una storia europea poco spensierata anche nel dopoguerra. Alla maniera di Rostropovich, un altro fuggiasco, che nella notte della liberazione suonò Bach tra le macerie della barriera comunista. Invece, chissà perché, per commemorare l’abbattimento del Berliner Mauer si ricorre all’ironia, come se fosse la festa di quei murales che le autorità cittadine hanno saggiamente lasciato decomporsi senza spendere un solo euro per il restauro. Inimmaginabile un «giorno della memoria» dello sterminio ebraico a colpi di segnacci spiritosi e di canzonette, di writers e di rock. E chi mai tenterebbe di spiegare Auschwitz ai ragazzi con giochi di simulazione sulla vita nei campi, con Lager elettronici a fini didattici? Ma per rammemorare gli uomini e le donne, i bambini (anche decenni) e i vecchi (anche ottantenni) uccisi dai poliziotti su quella «striscia della morte» (si veda la voce ‘Muro’ di Wikipedia per ripercorrerne le principali vicende), a Roma si prevedono canzonettisti sanremesi, installazioni, videoclip, murales, trenta performances, ‘eventi multimediali’ vari: il «contemporaneo» si impadronisce dell’occasione e sparge il suo spirito parodistico. Gli ex frequentatori del Berliner Ensemble adesso si dedicano a un genere di moda più faceta.

Nei giorni scorsi, a Roma, i funzionari comunali preposti alle cose della cultura hanno organizzato un convegno sui ‘muri’ in genere, sulle barriere politiche e psichiche. Il Muro comunista diventa così una muraglia metaforica. In altri ambiti si parlerebbe di banalizzazione dell’orrore. Gira gira, si tirerà fuori anche il muro israeliano per evitare gli attentati. Come se i cittadini tedeschi dell’Est fossero stati dei kamikaze, degli shaid pronti a esplodersi. Meglio spendere i soldi pubblici per diffondere nelle scuole un piccolo libro dal tono pariniano che Arbasino scrisse per il novembre dell’Ottantanove e a cui mise un titolo settecentesco:
La caduta dei tiranni. Meglio una semplice informazione su quanto avvenne a Berlino: il Muro, prima di esser colorato dalle bombolette spray fu macchiato dal sangue.