sabato 31 gennaio 2009

minima / Il giorno del silenzio
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Un minuetto di scuse e di formule mondane, di mosse diplomatiche e di scandali giornalistici, sulle ecatombi del XX secolo. La morte - e per di più violenta, di massa, la strage - dovrebbe fare ammutolire. Al limite oscuro del silenzio, come i versi di Celan. Invece, un gran parlare, disseppellendo cadaveri senza alcuna pietas, e un parlare di vittime in quel modo: sempre discorsi di circostanza, retorica dell’orazione politica. Sui fiumi di sangue meglio sarebbe affidarsi alle parole forti dei profeti, alle maledizioni, alle benedizioni. Che riposino in pace!

Racconta René Girard: «un giorno Michel Foucault mi ha detto: ‘Non bisogna costruire una filosofia della vittima’. Gli ho risposto: ‘Non una filosofia, ma una religione… Ed esiste già!».

venerdì 30 gennaio 2009

L'ultimo imperatore / 3

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NELLA LOTTA IDEALISTA DELLA RAZZA CONTRO TUTTE LE MANIFESTAZIONI STORICHE DELLA CHIESA DI ROMA C’È ANCHE L’ATTACCO AL ‘FETICISMO PAGANEGGIANTE’ DELLE IMMAGINI: HUSTON STEWART CHAMBERLAIN, PRIMO TEORICO DEL RAZZISMO, MUOVE GUERRA A PIO IX

Passiamo, in questa terza puntata del trittico su Pio IX, a un personaggio oggi dimenticato ma che nella storia del razzismo, e della Germania moderna, ha un ruolo da protagonista: Huston Stewart Chamberlain, britannico naturalizzato tedesco, teorico dello spirito anglosassone, storico erudito, razzista appassionato, genero di Wagner. Chamberlain dimostra più intelligenza degli scienziati positivisti ma è un fine conoscitore dei loro metodi. Dopo Darwin, sostiene, non si può più negare la razza. Nella sua opera principale, Die Grundlagen des XIX. Jahrhunderis (I fondamenti del XIX secolo), uscita nel 1899 si propone un disegno imponentissimo: ricostruire la lotta tra lo spirito tedesco e quello romano, tra la spiritualità germanica e l’universalità della Roma imperiale prima e della Chiesa cattolica poi, il «caos etnico» come la definirà l’autore, ovvero il potere slegato da una determinata etnia. Un librone di più di 1500 pagine da leggere attentamente, non soltanto per gli adepti più scellerati che formerà via via in Germania, ma per gli inconsapevoli araldi della nuova spiritualità anti-romana che ripetono inconsapevolmente i discorsi critici di Chamberlain ignorando come siano originati dalla premessa razzista. La Roma che glorifica il saggista anglo-tedesco è quella repubblicana, legata a un’aristocrazia razziale. Con l’impero nasce l’universalismo che vede alternarsi sul trono tiberino uomini latini, africani, mediorientali e barbari tedeschi senza troppi distinguo nazionali e di ceto. I papi, successori del pontefice massimo Augusto, proseguiranno in questa politica «antigermanica».

Tenendo presente tale premessa si può comprendere la seguente affermazione: «La magnifica opera positiva dei Greci e dei Romani esigeva un complemento negativo: ed è Israele che l’ha fornito. […] L’uomo prende coscienza non soltanto della forza, ma della propria debolezza» (p. 58) Non che la storia d’Israele sia peggiore delle altre, ma qui «l’odore del vizio si mostra completamente a nudo» (p. 58). La Chiesa di Roma ne erediterà il «materialismo religioso», come denunceranno nel corso dei secoli i ribelli tedeschi. «Roma, nell’epoca imperiale, fu l’incarnazione del principio antinazionale» (p. 396), la Chiesa cattolica spinse questa incarnazione fino alle soglie della modernità. Pio IX, bestia nera di Chamberlain, si oppose strenuamente ai nazionalismi crescenti che assediavano il trono universalistico di Pietro.

Chamberlain rilegge la storia occidentale: «Che un Copernico o un Galileo, fiaccole della scienza, fossero dei buoni cattolici; che un Krebs (Nicola Cusano), un Bruno, un Campanella, un Gassendi, iniziatori del nostro pensiero a delle nuove rappresentazioni cosmologiche, fossero anche dei cardinali, dei monaci, dei preti, questo non prova nient’altro che una cosa: che non si tratta di […] conflitti propriamente religiosi, bensì di una lotta tra due concezioni del mondo o, meglio ancora, di due specie di natura umana, la germanica e l’altra» (p. 707). Del resto, per Chamberlain – che ha fatto scuola in questa direzione – Giordano Bruno sarebbe di origini tedesche, la sua spiritualità anzitutto lo comproverebbe, ci sarebbero inoltre conferme biografiche. Per Campanella, in mancanza di radici extra-calabresi, forse ci si deve limitare a una ventata della spiritualità del Nord spintasi fino oltre la Sila.

«In un certo senso si può considerare la storia intellettuale e morale d’Europa, dal momento in cui appaiono i Germani fino al giorno in cui Lutero si rivolta contro le potenze antigermaniche come una lotta tra Germani e Non-Germani, tra mentalità germanica e mentalità antigermanica», se l’eroe del Nord è il cinquecentesco frate agostiniano, il colosso latino è il quasi contemporaneo sacerdote basco Ignazio di Loyola. In lui si incarnano, secondo Chamberlain, i peggiori vizi razziali della storia umana: il fondatore dei gesuiti costruisce una religione più che mai legata al materialismo ebraico e all’universalismo romano. Ignazio scatena «l’attacco meglio organizzato e più pericoloso che sia mai stato mosso contro lo spirito germanico, o per meglio dire, contro lo spirito ariano in generale» (pp. 711-712). Più elegantemente che in tutta la schiera degli anticlericali, Chamberlain si esercita nella critica del gesuitismo partendo da una analisi degli Esercizi spirituali ignaziani. Vi si respira un clima maomettano – sostiene il razzista anglo-tedesco – «il materialismo crasso di tutte le nozioni – questo desiderio che le nostre narici si riempiano del tanfo dell’inferno, che ci si senta bruciati dall’ardore delle sue fiamme, ecc., o anche questa idea che i peccati siano infrazioni a una legge ‘articolo per articolo’, in modo che si possa e di debba tenerne la contabilità secondo un certo schema fisso, e molte altre cose di questo genere – ci ricorda le religioni semitiche; ma ci si mostrerebbe molto ingiusti verso queste ultime se si pretendesse identificarle con il feticismo appena mascherato di Loyola. La sua religione ha per principio fondamentale la lotta contro ogni simbolismo. La si è chiamata una mistica, si è cercato di dimostrare l’influenza mistica sul suo pensiero, mentre una testa siffatta è congenialmente incapace anche di concepire l’idea della mistica nel senso indo-europeo del termine. Poiché ogni mistica […] costituisce un tentativo di buttar via le scorie dell’empirismo per raggiungere direttamente una verità prima, trascendente, non suscettibile di rappresentazione empirica, mentre lo sforzo di Loyola tende […] a presentare tutti i misteri della religione come delle realtà concrete, che cadono sotto i sensi […]. I suoi Esercizi, piuttosto che formare a un’introduzione verso una contemplazione mistica, pervengono all’educazione metodica delle disposizioni isteriche che esistono in ciascuno di noi. L’elemento puramente sensuale dell’immaginazione è sovraeccitato a spese della ragione, a spese del giudizio, e spinto alla sua estrema capacità di produzione; in tal modo la natura animale ha la vittoria sulla natura intellettuale» (p. 713). Il kantiano razzista usa argomenti più moderni dell’antigesuitismo di stampo volterriano. In una nota ricorre addirittura «agli articoli del dott. Sigmund Freud, […] tra i più interessanti lavori sintetici che io conosca su tale questione» (p. 716); siamo nel 1899, ancora la fama non circonda l’interprete dei sogni, è lo studioso della nevrosi (e della pratica religiosa come nevrosi) che attira Chamberlain. Le origini ebraiche del dottor Freud, una volta tanto sono un elemento trascurabile. La mistica del Nord non si avrebbe – secondo il nostro autore – che con il taglio netto con tutto quanto è corporeo (ma quante prove contrarie si potrebbero addurre), quindi la mistica ignaziana come quella ebraica della Kabbalah non è mistica: «Il sistema di Loyola non ha niente a che vedere con l’ascetismo: egli aborre l’ascetismo, egli proibisce l’ascetismo e – dal suo punto di vista – ha perfettamente ragione» (p. 716). «Il metodo di Loyola […] prescrive un metodo della sensualità […] con cui addomesticare la volontà e il giudizio.[…] La forza di suggestione di un metodo così grossolanamente meccanico, calcolato con un’arte infinita per perquisire e rivoltare completamente l’uomo, è così grande che nessuno può sottrarsi del tutto. Anche a me succede che i sensi fremano quando mi sprofondo in questi Esercizi» (p. 717). D’altronde, una pagina più avanti elogia come ariana la visione di santa Teresa: ancora non erano venute alla luce le origini marrane della riformatrice del Carmelo, errori che capitano a chi si inoltra su questi sdrucciolevoli sentieri della ricostruzione storico-biologica.

I turbamenti per la sensualità romana barocca, i capogiri provocati dalle opere di Bernini, sono ancora una volta al centro della critica ‘protestante’, clamorosa prova dell’incapacità di accostarsi al mistero cristiano, all’invisibile che si incarna e si fa visibile, corpo. Chamberlain ha buon gioco a dipingere, con i primi biografi del santo, il capitano basco come «anti-Lutero». «E chi dice anti-Lutero dice Anti-Tedesco, che ne sia consapevole o meno» (p. 720). In nome del germanesimo poi si torna a dannare la celebre espressione ignanziana sull’obbedienza «perinde ac si cadaver essent». Qui l’escamotage è davvero difficile, facile la rivendicazione della libertà personale ariana: nonostante per molte pagine abbia argomentato che i Germani si cercano un padrone a cui obbedire con fedeltà assoluta e che la differenza con gli altri popoli risiederebbe nella scelta che i nordici si permettono nei confronti del capo da servire, critica poi la scelta del santo. Ebbene, che altro fa il capitano Ignazio se non scegliersi il supremo capo, Domineddio, e servirlo come nessun altro, con suprema virtù militare e con spirito di fedeltà che dura per l’intera vita? Anche i montanari baschi, senza una goccia di sangue ariano nelle vene, sanno essere eroicamente fedeli.

Le argomentazioni protestanti sono riassunte così: «La Chiesa romana è anzitutto una potenza politica, cioè statalista; essa ha ereditato l’idea romana dell’Imperium e, assieme all’Imperatore, rappresenta i diritti di un impero universale di istituzione che si pretende divina, di potenza assoluta e illimitata, contro la tradizione germanica e l’istinto germanico della configurazione nazionale. La religione, in questa concezione, ha il solo scopo di amalgamare intimamente tutti i popoli. Dai tempi più remoti, il pontifex maximus era a Roma il funzionario supremo della gerarchia, judex atque arbiter rerum divinarum humanarumque, colui al quale la teoria giuridica sottoponeva il re medesimo, e più tardi i consoli. […] Nello stesso tempo la Chiesa era l’erede dell’idea ebraica dello Stato ierocratico, con il sommo sacerdote come potenza superiore» (pp. 735-738). Chamberlain sparge veleno su Agostino perché è il vero grande teorico della «Chiesa romana come erede legittima dell’Impero romano».

Qualcosa tuttavia Chamberlain riconosce all’ebraismo: «Si potrebbe dire che in questo matrimonio (con il cristianesimo romano), lo spirito ebraico fu il principio maschio e fecondante: rappresenta la volontà. Nulla autorizza a supporre che la speculazione greca, l’ascetismo egiziano, la mistica internazionale, avrebbero dotato il mondo di un nuovo ideale religioso e, nello stesso tempo, di una nuova forza della vita, senza l’ardore delle fede ebraica, questa ‘volontà di credere’» (p. 774). La volontà di credere ebraico-cristiana, anti-interiore, anti-luterana è quel «bisogno appassionato di certezza», l’intento di fondare sulla storia, o meglio sulla dimensione storico-collettiva – il progetto di salvezza. L’influenza ebraica è dunque nella teocrazia, conseguenza della incarnazione storica di un Dio, nell’Antico come nel Nuovo Testamento. Teocrazia invocata dai profeti come utopica conclusione della missione di Israele nel mondo, teocrazia realizzata gloriosamente dalla Chiesa di Roma. La separazione dei poteri – vede bene Chamberlain – è di matrice protestante, germanica, radicalmente antiebraica. La contrapposizione tra l’ebraismo-cristianesimo che si muove per il timor di Dio e l’attesa di un premio nell’aldilà, da una parte, e le nobili concezioni ariane, rappresentate dal brahmanesimo che rinuncia al piacere dell’aldiqua e dell’aldilà, «per il primo grado della vera pietà» non è nient’altro che il duello tra l’insegnamento della dottrina cattolica (trasformata addirittura in formula dallo scienziato Pascal) e la morale illuminista astratta, senza interesse.

Tra le figure anticipatrici di Lutero, Chamberlain colloca Carlomagno, non solo perché repressore della volontà di potenza del papa, ma come paladino nella lotta al ‘feticismo paganeggiante’ delle immagini. I santuari, le madonne che appaiono sono residui della superstizione romana. Nella lotta idealista della razza contro tutte le manifestazioni storiche della Chiesa di Roma (Inquisizione, timor di Dio, indulgenze, doppia verità, clero corrotto, pellegrinaggi ai santuari, miracoli, insomma tutto l’armamentario della polemica massonica-laica) Chamberlain sottolinea anche l’impossibilità, da parte dei Germani, di credere al Diavolo. Satana non fa per loro. Ma lo stesso Chamberlain è costretto a riconoscere che Roma, pur rigorosa nelle questioni di potere, è invece grandemente tollerante per quanto riguarda le sottigliezze religiose, lasciando convivere domenicani e gesuiti, pelagiani e agostiniani. Ovvio, per Chamberlain, si tratta di una potenza politica, poco interessata alla sostanza cristiana, ma poi ammette che il cristianesimo cattolico si vuole adattare a tutti e quindi che le ragioni politiche determinano un universalismo che accetta tutte le differenze all’interno dell’unità. Chamberlain riconosce così che «il greco approfondiva e ‘sublimava’ troppo; il germanico, naturalmente religioso, prendeva le cose troppo sul serio; Roma soltanto non si allontanava mai da quel giusto mezzo che è la via dorata cara all’immensa maggioranza degli uomini. […] Roma comprendeva a meraviglia il carattere e i bisogni di queste popolazioni variopinte che per secoli si trovavano ad essere le depositarie e le intermediarie della civiltà e della cultura. Roma non esigeva dai suoi aderenti né grandezza di carattere né indipendenza di pensiero: anzi proprio di questo la Chiesa li liberava; ogni capacità, ogni entusiasmo, vi poteva – è vero – ritrovarvi posto alla sola condizione dell’obbedienza […] perciò la religione fu trasferita dal cuore e dallo spirito nella Chiesa visibile, in modo da divenire accessibile a tutti, intelligibile a tutti, tangibile per tutti. Mai una istituzione possedette una conoscenza più ammirevole della natura umana media di questa Chiesa che si diede così presto e così opportunamente il compito di organizzarsi attorno al centro dato dal pontifex romanus dei romani» (pp. 864-866). La critica di Chamberlain finisce col toccare il cuore del problema cattolico. Origene, il suo campione «indo-europeo» in lotta, a sentir lui, contro le concezioni del «caos etnico», «celebrava la distruzione del corpo nella morte, vista come una liberazione», mentre i cattolici romani, «questi uomini del caos etnico diretti da Roma non potevano concepire l’immortalità in altro modo che come una eterna sopravvivenza dei loro miserabili corpi!» (p. 865, in nota). Peccato che anche Paolo riduca tutta la verità cristiana alla resurrezione dei corpi. Forse non è un caso che molti teologi protestanti del Novecento abbiano usato la loro raffinatezza metafisica per aggirare questo problema e per negare la scandalosa fede di Roma nella resurrezione della carne.

Preoccupato da come Roma seduce i cuori dei semplici come dei sapienti con le sue belle idee di universalità, colpito dalla frase di Lutero, «Per quanto riguarda il governo esterno, il regno del papa è quanto di meglio ci sia per il mondo», Chamberlain paventa il ritorno di un nuovo Innocenzo III, un altro trionfo cattolico per risolvere i problemi della modernità. Se il mondo germanico non impone la sua religione, «si metteranno al lavoro i tribunali dell’Inquisizione». Sappiamo poi come sono veramente andate a finire le cose. Ma alle soglie della modernità non si tratta più della lotta tra Papato e Impero, ma tra Universalismo (rappresentato dalla Chiesa di Roma) e nazionalismi. Pio IX e Bismarck ne sono i due protagonisti.

Qualche volta, nell’opera di Chamberlain, papa Mastai è allora citato come colui che chiude un’epoca. Per esempio quando si dice con dispiacere che «da san Paolo a Pio IX» il cristianesimo ha soffocato «l’antagonismo della razza» (p. 807). Il kantiano razzista vede meglio di chiunque altro che cosa bolle nella pentola moderna dove è stato disciolto l’universalismo romano. Ora che Pio IX, l’ultimo resistente, ha subìto la sconfitta, «l’antagonismo della razza» può venire allo scoperto e affermarsi in Europa. Oppure quando sostiene che dopo le condanne contenute nel Sillabo, se un papa volesse riconciliarsi con la modernità dovrebbe anzitutto distruggere l’opera di Pio IX (p. 864, in nota). Ovvero, Pio IX come baluardo contro la modernità. Dirà poco più avanti: «Pio IX si pose proprio sullo stesso terreno di Bonifacio VIII» (p. 902), era nella medesima tradizione: insensibile alle depravazioni delle epoche.

Così il principale testo di apologia della razza tedesca è, al tempo stesso, l’apologia della libertà di coscienza, l’unica che garantisca la creatività etnica. Chamberlain si rifà a Goethe: l’individuo libero, germanico, non ha limiti interiori e ne ha invece di esterni. Nella cattolicità, invece, secondo Chamberlain «l’Imperium ecclesiastico neo-romano [afferma:] sacrificami la tua libertà e io ti creo un impero che ingloba tutta la terra, nel quale regnano per sempre l’ordine e la pace; sacrificami il tuo giudizio critico e ti rivelo la verità assoluta; sacrificami il tempo e ti concedo l’eternità» (p. 906). La monarchia universale cattolica limita le fantasie individuali, dà ordine alla fiumana individuale e garantisce intanto il mondo intero. (Marx, curiosamente, sostiene in chiave antiluterana e antiborghese: la libertà interiore protestante lega con catene d’oro l’uomo alla propria coscienza). D’altra parte, i Germani non ebbero chiare le frontiere; si potrebbe dire che alla libertà interiore, all’anarchia spirituale, si accompagnava l’anarchia politica, l’informe delle migrazioni…

I papi divengono dunque gli avversari delle nazioni, e non per motivi strettamente politici, bensì per conseguenza logica dell’universalismo, derivazione dell’incarnazione di Cristo nella storia. I predicatori che giravano per l’Europa del medioevo andavano a condannare l’amor soli natalis, i gesuiti, sant’Ignazio in primis, avversavano le lingue vernacolari e nazionali operando a favore dell’universalistico latino (dalle lingue materne i Romantici prendono il la nazionalista). Una voce, ovvero una unica voce, è un segno, divino, di pace contro la babele romantica. Perfino Chamberlain comunque è toccato da una religione che vuole «trasformare questo mondo in un magnifico sagrato del Cielo» (p. 916). «Veramente impotente – dice – sarà lo spirito che non concepisca la bellezza di una simile idea». Ma oggi anche i cattolici non se la ricordano più.

(3. fine)

[Le citazioni riportate sono tratte da una edizione francese, uscita a distanza di quattordici anni da quella tedesca, e che si arricchisce di note polemiche con cui Chamberlain approfitta per duellare con i critici della prima ora: La genèse du XIX siècle (Payot, 1913, 2. voll.)]

mercoledì 28 gennaio 2009

minima / Il calendario di Google
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Mezzo pianeta ha un nuovo calendario surrettizio. Quel che non riuscì alla Convenzione francese con i suoi cervellotici Brumaio, Frimaio o Germile (per non parlare dei giorni, dedicati alle piante e agli animali), viene facile alla Rete universale che stabilisce le sue ricorrenze e le impone a tutti gli schermi collegati. Al posto dei santi quotidiani, delle festività cristiane, ebraiche, coraniche o induiste, ecco le occasioni ‘laiche’ del motore Google: ci si sveglia al mattino e si trova sul proprio pc una immagine diversa: cliccando sopra si scopre la memoria di qualche star dell’estetica contemporanea – come oggi che si commemora quell’ubriacone di Pollock – o eventi sportivi o anniversari di scoperte tecnologiche o beatificazioni di scienziati o primi decennali della Rete medesima e del suo indotto. È la liturgia elettronica globale, che schiaccia tutti fingendo di adattarsi a ciascuno, in genere con figurine puerili, icone da giardino di infanzia, in nome della tolleranza senza nerbo. Non consola, manca dei Sant’Antonio cui rivolgersi o dei pretesti per l’onomastico, priva l’umanità dei suoi vecchi totem e dei suoi vecchi tabù, svuota anche i villaggi tribali dove c’è la connessione dei simboli apotropaici, si limita a istituire un algido culto del ricordo. Riecheggia le pretese degli illuministi ma senza neppure le celebrazioni della patria e della rivoluzione o della virtù. Un’asettica religione del mercato.

martedì 27 gennaio 2009

minima / I segreti della morte

Questa non è una recensione della mostra «La magia della linea», con centodieci disegni di Giorgio de Chirico, al Museo Bilotti. Piuttosto il resoconto di un brevissimo quanto casuale excursus tra le «cose ultime». Un martedì spoglio, nel cuore dell’inverno, l’occhio cade su parole epigrammatiche: «moro per sapere». Gli enigmi di un arco temporale si chiariscono alla fine, nel passaggio fatale. Da quel momento in poi, il Libro della Vita si può rovesciare e leggere all’incontrario: vi apparirà dipanato l’arcano dell’esistenza spesa. Se fede è intravedere nell’oscuro, scorgere le macchie di colore delle figure, in un giorno conclusivo se ne afferreranno le linee del disegno, la traccia nascosta.

Aprendo un volume, il giorno dopo, sembra di scoprire un collegamento con la
consolatio rinvenuta: Jacob Taubes, filosofo ebreo, sta esponendo nell’ultimo seminario della vita i criteri della sua lezione definitiva: «non sopporto l’apoteosi aurorale né in Heidegger né in Buber. Non vedo perché l’iniziale debba essere migliore di ciò che è più tardo. Chiunque si sia esercitato su Riegl e Benjamin sa che ciò che è tardo ha le sue leggi. Non v’è dubbio che l’apocalittica sia più tarda della profezia. Essa la presuppone, presuppone il canone e l’interpretazione. Ma non capisco perché debba essere meno significativa, decadente» (in La teologia politica di San Paolo, Adelphi). L’Apocalisse non è la guerra degli orrori, l’ultima puntata della decadenza, bensì la rivelazione suprema, la soluzione di tutti i misteri. Naturalmente, il tempo (apocalittico) che avanza non ha niente a che vedere con la corsa pseudo-virtuosa del progressismo, né tanto meno le spiegazioni delle scienze si perfezionano in esattezza strada facendo, come vuole la vulgata, fino a coincidere con la verità. Assonanza piuttosto con quel morire che dà accesso al sapere decisivo. E assonanza con il difficile frammento teologico-politico benjaminiano: «nella felicità ogni essere umano aspira al suo tramonto, ma solo nella felicità esso è destinato a trovarlo». Esaltazione dell’effimero o del passaggio – lieto – all’eterno?

Il terzo giorno, giovedì, i viali di Villa Borghese sono immersi in una luce bianca, immobile, invernale, confortante. Oltrepassata la statua di Goethe, là dove il poeta si appuntava le scene della cucina stregonesca del suo
Faust alla ricerca dell’eternità, appare un piccolo museo, già convento di suore e prima aranciera dei principi Borghese, cannoneggiata dai rivoltosi risorgimentali; è in corso una inaugurazione di una mostra delicata, e il nome dell’artista esposto, Giorgio de Chirico, provoca nel passante la scandalosa, nietzscheana, sensazione di «inattualità», lo invita a entrare lasciando fuori le miserie del mondo. In pochissimi si attardano davanti ai cento disegni schierati nella palazzina addossata al Lago – benché alcuni siano incantevoli – forse anche perché incalza l’ora di pranzo, forse perché gli habitués sono già partiti verso Bologna a venerare l’attuale, a rotolarsi come lattonzoli nel brago padano del contemporaneo. «Tortuoso è il sentiero dell’eternità» intuiva il suggeritore di Zarathustra. La dolcezza del trapasso mortale contenuta in quel motto trovato per caso, il pareggio tra fine e origine accennata dal filosofo ebreo, ed ecco sopraggiungere anche l’immagine di questo attraversamento. «Il disegno – svela Elena Pontiggia, curatrice della mostra – è la tecnica metafisica per eccellenza perché, oltre i mutamenti illusori dell’apparenza, coglie i ‘segreti del sonno e della morte’».

In versione fiabesca appare allora l’Apocalisse dechirichiana: «Sono entrato nell’Apocalisse come in un lungo sogno d’inverno… Nel lungo sogno d’inverno, in quella grande e strana casa che è l’Apocalisse, piena di stanze buie, di doppie porte imbottite, di vecchi tappeti e di portiere affumicate, di tavolini orientali e di mobili pesanti e scolpiti, di stanze ed ancora stanze…, in quella grande e strana casa, dico, io sogno, incuriosito e felice, come il fanciullo, tra i suoi balocchi, nella notte di Natale». Disegnata in tempo di guerra, non abbassa l’opera visionaria concepita in un’isola greca alle nefandezze degli uomini moderni. Trattiene la paura nella forma mitica degli enigmi, esalta con la sua arte il giorno della trasformazione del mondo, dell’apocatastasi di gusto orientale. Promesse natalizie, invernali, di fronte alla vittoria apparente di Madama Morte, si accendono nelle stanze di Villa Borghese, vengono fuori da queste colte litografie cosparse di stelle.

(Dinanzi a tanta semplice evidenza, e alla «massima limpidezza» con cui il Maestro parla dell’«arte della matita», lo scritto di presentazione di un patron post-avanguardista che mette in fila le formule per lo più francesi degli intellettuali alla moda negli anni settanta, biascicando «progetto desiderante», «errare del desiderio», «statuto di oggettività», addirittura l’«area corporale assegnata» – tutte facezie dette con il tono oracolare dell’esistenzialismo tedesco (lo stesso che voleva superare la metafisica occidentale!), ma con la confusione della servitù che origlia – prende per via dell’accento campano un che di farsesco, scivola nell’atellana, evoca l’indimenticabile Pappagone quando ripete insensatamente le parole male intese del Commendatore. Il Pictor Optimus, sensibile alle lodi, sorride sotto i baffi di questo adulatore un po’ impresentabile.)

venerdì 23 gennaio 2009

minima / Tre domande sulla bolla contemporanea
a
Perché l’acqua deve essere privatizzata e i musei contemporanei vanno finanziati con il pubblico denaro? Perché, se la ricerca estetica attuale è all’insegna del soggettivismo sfrenato, del caso addirittura, del bluff teorizzato, si arriva a escogitare un meccanismo traballante che giustifichi gli acquisti di Stato di simili frutti del capriccio, abborracciando un metro di valutazione? È chiaro a tutti che The Road di Cormac McCarthy ha una rilevanza artistica universale (e non sottrae un centesimo agli ospedali), ma un peto della fantasia scarsa di un installatore perché pretende i soldi miei? Perché, soprattutto, invece di impinguare le social cards dei vecchi che non ce la fanno a campare – il bilancio è una coperta poco elastica – , i soldi della comunità andrebbero spesi per oggetti poco estetici i cui apologeti non fanno altro negli ultimi anni che magnificarli come investimenti strepitosi? Esclusivamente questo ripetono, infatti, che oggi costano tantissimo e che immuni dalla crisi domani renderanno ancor di più, lasciando definitivamente da parte l’ormai ipocrita argomento della cultura, della sperimentazione linguistica, della diffusione dello Zeitgeist anche tra i semplici, tutta roba di ottocentesca memoria. Somigliano spaventosamente agli entusiasmi bancari delle bolle immobiliari. Cinismo per cinismo: se sono meglio dei Bot, che se la spassino i privati con tale spazzatura di lusso. (Pro memoria per un ministro bonario, mentre si parla sempre più di committenza pubblica, assessori cioè che fanno i mecenate con i soldi degli altri, funzionari tra le scartoffie che si sentono madama Guggenheim: in tempi di crisi suona assai irritante).

mercoledì 21 gennaio 2009

minima / Piccoli gaudenti

Gli atei della pubblicità sugli autobus (v. l’«Almanacco» del 13 gennaio), quelli che annunciano «Dio non esiste», sono indignati: la concessionaria della réclame sui mezzi di trasporto genovesi ha respinto il loro messaggio mobile, reggiseni e mutande sì, questioni teologiche no. I negatori di Dio non si danno pace, gridano alla discriminazione, evidentemente a parer loro si tratta di merci simili. In effetti, nella inserzione avevano aggiunto alla «buona notizia» di esser soli nell’universo anche una raccomandazione: «Smetti di preoccuparti e goditi la vita». Promettevano cioè un godimento da confort casalingo, una felicità da Carosello, secondo gli schemi della persuasione occulta, perché respingerli? Partendo dal medesimo presupposto, il marchese de Sade proclamava invece: se Dio non esiste servono nuovi costumi. Che siano legalizzati l’incesto e l’omicidio, lo stupro e la pederastia, sosteneva con sottili ragionamenti filosofici il libertino nel libello militante, Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani. Ma gli atei allegri del XXI secolo sono ben lontani da sì tragiche scelte, non danno peso neppure alle conseguenze del vuoto divino previste da Nietzsche, né sembrano sfiorati dalle parole di un saggio contemporaneo, George Steiner: «Un ateo sincero e conseguente mi suscita immenso rispetto, purché nei destini della vita, morte e malattia, sia chiaramente conseguente con il suo ateismo. Ma ne ho incontrati pochissimi nelle mie letture e nella mia vita: forse Leopardi. Se il telefono squilla a mezzanotte e annuncia l’incidente mortale d’auto di un proprio caro, l’ateo può dire ‘mi addolora, ma la vita è una lotteria, un caso a livello statistico’». Araldi del benessere piccolo-borghese, i nostri atei inserzionisti, predicano tutt'altro vangelo. Buttano all’aria la cosmogonia per andare magari al bar con gli amici e bevendo e sghignazzando lasciarsi sfuggire una sonora bestemmia. Gli atei delle associazioni, i ‘liberi pensatori’ che si richiamano senza pudore a un personaggio vertiginosamente imponente come Giordano Bruno, sembrano sempre dei bambinoni, ingenuotti e bonari. Dei campioni di credulità. (È però preoccupante che anche persone e organizzazioni meno puerili si lascino trascinare in simili giochi e sui bus spagnoli come sui muri romani rispondano a suon di slogan alla campagna promozionale dei miscredenti. La propaganda fide può passare in ogni forma dei media, d’accordo, ma con altro argomentare).

martedì 20 gennaio 2009

L'ultimo imperatore / 2

«CHE COSA HA OTTENUTO DI MEGLIO DELLA ROMA DEI PAPI IL CONTE DI CAVOUR? È SORTO UN PICCOLO REGNO UNITO DI SECOND’ORDINE, CHE HA PERDUTO QUALSIASI PRETESA DI VALORE MONDIALE, CEDENDOLA AL PIÙ LOGORO PRINCIPIO BORGHESE, UN REGNO SODDISFATTO DELLA SUA UNITÀ, CHE NON SIGNIFICA LETTERALMENTE NULLA» COSÌ PARLAVA NEL 1877 FËDOR MICHAJLOVIČ DOSTOEVSKIJ

Dal punto di vista orientale, così ostile al mondo latino (gli zar si lavavano le mani dopo avere incontrato gli ambasciatori occidentali che incarnavano la corruzione del mondo), è chiara la posta in gioco. Nel gennaio 1877, sul primo numero del suo «Diario», con il titolo Tre idee, Dostoevskij formula i tre cristianesimi che si contendono la terra in una battaglia campale. Dietro due di loro ci sono l’impero slavo e il Reich prussiano, alle spalle del cattolicesimo, invece, un’idea storica, il ricordo dell’Impero romano. Ma lo scrittore russo intravede nell’ex figlia prediletta della Chiesa, nella Francia, l’erede di quella forza politica che accompagna il cattolicesimo. Così i tre rami del cristianesimo sono ancora una tripartizione politica a cui si legano i destini dell’umanità della nuova epoca.

«Tre idee si presentano al mondo e, a quanto pare trovano una formulazione definitiva. Da una parte – al margine dell’Europa – l’idea cattolica, condannata, in attesa, in grandi sofferenze e dubbi, di sapere se debba essere o non essere, se debba continuare a vivere o se non sia arrivata la sua fine. Io non parlo solo della religione cattolica, ma di tutta l’idea cattolica, del destino delle nazioni che si sono formate secondo questa idea nel corso di un millennio e ne sono permeate. In questo senso la Francia, per esempio, sarebbe la più piena incarnazione dell’idea cattolica, nel corso di secoli, alla testa di questa idea, ereditata, s’intende, dai romani e secondo il loro spirito. Questa Francia, che adesso ha perfino perduto, quasi tutta, qualsiasi religione (gesuiti e atei sono qui la stessa cosa), che ha chiuso più di una volta le sue chiese ed ha piegato una volta alla votazione di una assemblea perfino Dio, questa Francia che ha sviluppato dalle idee del 1789 un suo proprio socialismo, cioè l’acquietamento e l’organizzazione della società senza Cristo e fuori di Cristo, come voleva, ma non seppe, organizzarla in Cristo il cattolicesimo, questa stessa Francia anche nei rivoluzionari della Convenzione e nei suoi atei, e nei suoi socialisti, e nei suoi attuali comunardi, è ancora e continua a essere al massimo grado una nazione cattolica in tutto e per tutto, contagiata dallo spirito e dalla lettera cattolici, e proclama con le labbra dei suoi più duri atei: Liberté, Égalité, Fraternité ou la mort, cioè proprio ciò che proclamerebbe il papa, se fosse costretto a formulare una liberté, égalité, fraternité cattolica, col suo stile, il suo spirito, l’autentico stile e spirito del papato dei secoli di mezzo. Lo stesso attuale socialismo francese – a quanto pare, ardente e fatale protesta contro l’idea cattolica di tutti gli uomini e di tutte le nazioni tormentati e soffocati, desiderosi di vivere e continuare vivere a qualunque costo senza il cattolicesimo e i suoi dèi, questa stessa protesta, cominciata di fatto dalla fine del secolo scorso (ma in sostanza molto prima) – non è altro che la più fedele e costante continuazione dell’idea cattolica, il suo più pieno e definitivo compimento, la sua conseguenza fatale, elaboratasi nei secoli. Perché il socialismo francese non è altro che l’unione forzata dell’umanità: un’idea che deriva dall’antica Roma e si è conservata interamente nel cattolicesimo. In tal modo l’idea della liberazione dello spirito umano dal cattolicesimo si è rivestita proprio delle più strette forme cattoliche prese in prestito nel cuore stesso del suo spirito, nella sua lettera, nel suo materialismo, nel suo despotismo, nella sua moralità». (Fëdor M. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, Firenze, 1963; gennaio 1877, pp.723-724).

Questa dunque la parte cattolica e il suo referente politico, comunque camuffato da laico. Va notato almeno che Dostoevskij chiama senza mezzi termini materialista la dottrina cattolica e allude al fatto che la sua morale discende dal dispotismo classico, opposto dunque al cristianesimo degli slavi. Di quale altra religione si dice che è materialista? Neppure per le forme più carnali del paradiso coranico si arriva a tanto, neppure per gli antichi paganesimi che hanno il culto degli dèi bugiardi. Soltanto per l’ebraismo, per l’ebraismo moderno, ‘talmudico’ (come si dice da parte cristiana per contrapporlo a quello mosaico, biblico) si ricorre alla medesima, dura, condanna: materialista (forse un simile atteggiamento diffuso deriva anche dalla critica di Jacobi e Fichte a Spinoza...). Ci sarà poi, lo si vedrà più avanti nella terza puntata, chi mette assieme queste due religioni, attribuendo il filo rosso del materialismo al cristianesimo ebraico contrapposto a quello paolino. Dalla parte di Paolo, naturalmente, ci sarebbe la spiritualità ‘germanica’, già prima di Lutero. Sarà un Leitmotiv della nuova ideologia ‘ariana’, il cristianesimo che si identifica con un popolo, anzi con una razza, come in qualche modo sembra accadere anche nell’ortodossia slava. I due spiritualismi che vogliono la rivincita contro l’oppressione ‘materialista cattolica’ che ha conculcato la libera immaginazione dei Giordano Bruno, che ha inquisito la fantasia scatenata degli artisti, che ha legato l’anima al corpo.

«Insorge il vecchio protestantesimo, che protesta contro Roma già da diciannove secoli, contro la sua idea universale di dominare l’uomo su tutta la terra, e moralmente e materialmente, contro la sua civiltà, fin dai tempi di Arminio e della Foresta di Teutoburgo. È questo il Germano, il quale crede ciecamente che solo in lui sia il rinnovamento dell’umanità e non nella civilizzazione cattolica. [...] adesso, con la disfatta della Francia, della più avanzata, importante e cristiana nazione cattolica, avvenuta cinque anni fa, il Germano è sicuro del suo trionfo totale e del fatto che nessuno può stare invece di lui alla testa del mondo e della sua rinascita. Egli crede in ciò superbamente e fermamente, crede che non vi sia null’altro al mondo più alto dello spirito e del verbo tedesco e che soltanto la Germania può pronunciarlo» (p.724). Si riferisce probabilmente a Hegel ma le ultime battute andrebbero bene anche per alcuni filosofi del Novecento. Come già nelle sorprendenti Note invernali su impressioni estive, Dostoevskij dimostra una rara bravura nell’intuire le caratteristiche e i destini dell’Europa moderna.

C’è infine l’idea slava, il cristianesmo che è la speranza di Dostoevskij: «L’idea slava il Germano la disprezza come disprezza quella cattolica, con la differenza soltanto che quest’ultima egli la valutò sempre come un nemico forte e potente, ma l’idea slava non soltanto non l’ha apprezzata, ma non l’ha riconosciuta mai fino all’ultimo momento. Da qualche tempo però egli comincia a guardar di sbieco molto sospettosamente gli slavi [...] Effettivamente ad Oriente s’è accesa e brilla di una luce inaudita e mai vista la terza idea mondiale, l’idea slava, un’idea sempre crescente, forse la terza futura possibilità di decidere i destini umani e dell’Europa» (pp.725-726).

Nella crisi cattolica della modernità si affacciano i nuovi pretendenti mondiali, le pretese di salvezza orientali (e occidentali) moltiplicano senza sosta i loro annunci. Nel corso del Novecento, il cattolicesimo sembrerà abbandonare i suoi temi dell’universalismo, delle chiavi dei regni terrestri e celeste, per accettare il terreno di scontro protestante dell’etica. Ma nel XIX secolo è ancora in corso il duello per l’universalismo. Subito dopo, una volta sottratta Roma al papa, ci si chiederà da più parti se è giunta l’ora della religione germanica o slava. Una storia quasi eterna sembra abolita da un ridicolo episodio: la nascita dello statarello sabaudo.

Fuori dalla mischia, alla periferia europea, Dostoevskij non si lascia abbindolare: pur eccitato dalle utopie nazionali – nella fattispecie quella russo-slava – distingue tra le grandi missioni nazionalistiche e le meschine avventure dei piccoli regni. Parlando un po’ romanticamente della miseria della diplomazia, accenna a Cavour: «Io prendo lui come esempio perché ne è già riconosciuta la genialità e inoltre perché già morto. Ma che cosa non ha fatto, guardate un po’; oh sì, ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato? per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale alla fine si era logorata, stremata ed esaurita (ma era proprio così), ma che cosa è venuto al suo posto, perché possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio il conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio al tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine» (pp. 925-926).

Ecco allora che mentre nel piccolo regno degli indebitati si spendono i resti di una già vecchia ideologia anticlericale e scientista e l’Italiettta si agghinda per vendersi sul mercato internazionale dell’archeologia e del turismo, in Europa si combatte una battaglia decisiva per il XX secolo. Tale battaglia viene trasformata da noi in una commedia degli equivoci: i garibadini rappresentano il futuro e l’Europa, la Chiesa cattolica il localismo sorpassato dagli avvenimenti. È in tale cornice che Pio IX diventa una figura ostile (anzi di traditore) delle magnifiche sorti italiane. Pochi decenni basteranno per svilire la fede in quella ‘meccanica unità’, ma un secolo e mezzo quasi non è sufficiente per celebrare Pio IX come defensor universalitatis, che l’ottica provinciale dei ‘piemontesi’ non riesce a mettere a fuoco. Ci aiuta allora il periodico russo. Nel numero di maggio-giugno 1877 del «Diario di uno scrittore», al capitolo intitolato Il problema mondiale germanico, Dostoevskij affronta la questione cattolica. Sa lo scrittore che qualcuno si stupirà di discorsi che affrontano la ‘politica mondiale’ con categorie ‘medievali’ come quelle religiose, ma «io prendo solo l’idea fondamentale cominciata già duemila anni fa e che da allora non è mai morta, sebbene gradualmente si sia incarnata in aspetti e formule diverse. Adesso appunto tutto questo estremo mondo europeo occidentale che ha ricevuto l’eredità romana, soffre i dolori di un parto di una reincarnazione, di questa antica idea ereditata; e ciò, per chi sa guardare, è tanto evidente che non ha bisogno di spiegazioni» (p. 398). Oggi invece è così poco evidente, nascosto dalle maschere della modernità, che bisogna ricorrere a uno scrittore dell’epoca per rinvenire quel passaggio.

«L’antica Roma per la prima generò l’idea dell’unione universale degli uomini e per la prima pensò (e fermamente credette) di realizzarla praticamente nella forma di una monarchia universale. Ma questa formula cadde di fronte al cristianesimo; la formula, non l’idea. Perché questa idea è l’idea dell’umanità europea, da essa si è formata la sua civiltà, per essa soltanto essa vive. Cadde soltanto l’idea della monarchia universale romana e fu sostituita dal nuovo ideale dell’unione universale in Cristo. Questo nuovo ideale si scisse in due, l’orientale, l’ideale cioè di un’unione di uomini del tutto spirituale, e l’europeo-occidentale, il cattolico-romano, il papale, del tutto contrario all’orientale. Questa incarnazione occidentale cattolico-romana dell’idea si compì a modo suo, avendo perduto però il suo principio spirituale cristiano, condividendolo con l’eredità di Roma antica» (p. 938).

Non è certo nuova l’affermazione che il cattolicesimo perde l’ispirazione cristiana, quasi che questo «principio spirituale» fosse già stato del tutto elaborato, a prescindere dagli apporti dell’universalismo ellenistico, e in special modo di quello romano, appunto, producendo uno contrasto perfino tra gli apostoli, tra Pietro e Paolo. Naturalmente l’ortodosso Dostoevskij occulta l’apporto ebraico. Più spregiudicatamente, i teorici ‘germanici’ sottolineeranno proprio questo apporto, contrapponendo il cristianesimo ‘ebraico’ di Pietro a quello paolino più ‘spirituale’.

Ma torniamo alle parole di Dostoevskij: «Il papato romano proclamò che il cristianesimo e la sua idea senza il dominio mondiale di tutte le terre e di tutti i popoli – dominio non spirituale, ma statale – in altre parole, senza la realizzazione sulla terra di una monarchia romana universale, alla cui testa sia non l’imperatore romano, ma il papa, non può essere realizzabile. E così cominciò di nuovo il tentativo di una Monarchia universale secondo lo spirito del mondo romano, ma già in un’altra forma. In tal modo, nell’ideale orientale da principio è l’unità spirituale dell’umanità in Cristo, e poi in forza di questa unione spirituale di tutto in Cristo, anche la giusta unione statale e sociale che indubbiamente ne deriva, mentre secondo l’interpretazione romana si avrebbe il contrario: da principio la garanzia di una solida unione statale nella figura di una monarchia universale e poi forse anche l’unione spirituale sotto il governo del papa, come sovrano di tutto il mondo» (pp. 938-939).

«Da allora questo tentativo del mondo romano precedette mutandosi continuamente. Con lo sviluppo di questo tentativo la parte più essenziale del principio cristiano andò quasi del tutto perduta. Avendo respinto il cristianesimo spiritualmente, gli eredi dell’antico mondo respinsero anche il papato. Scoppiò la terribile rivoluzione francese che nella sua sostanza non fu nulla più che l’ultima trasformazione e reincarnazione della formula dell’antica Roma dell’unione universale. Ma la nuova formula si dimostrò insufficiente, la nuova idea non si realizzò» (p. 939). Sembrava, anche nello stile neo-classico, una parodia dell’idea romana. Ma i più attenti, non a caso, si richiamarono agli ideali della repubblica contro l’impero, eredi di Bruto per pugnalare l’universalità. Quelli che plaudirono alla ‘moralità’ delle virtù laiche, ai soldati napoleonici che inneggiavano sulla scalinata del Campidoglio all’assassino di Cesare, non si accorsero che si stava celebrando il ricordo della Roma della razza, delle famiglie indigene scandalizzate dalla novità cosmopolita dell’impero, che era un regno slegato dalla terra tribale.

«Vi fu perfino un momento in cui in tutte le nazioni, che avevano ereditata la vocazione dell’antica Roma, subentrò la disperazione. naturalmente quella parte della società che aveva acquistato, dopo il 1789, l’eguaglianza politica, cioè la borghesia, trionfò e dichiarò che non era necessario andare più avanti. Ma in compenso tutte le menti, che per le leggi plurisecolari della natura sono destinate un’eterna mondiale agitazione e a cercare nuove formule dell’ideale e della parola nuova, necessarie per lo sviluppo dell’organismo sociale, si rivolsero a tutti gli umiliati e diseredati, a tutti coloro che non avevano avuto alcuna parte nella nuova formula dell’unione universale proclamata dalla rivoluzione francese del 1789. Essi proclamarono la loro nuova parola, la necessità cioè dell’unione universale degli uomini non in vista della spartizione dell’uguaglianza e dei diritti della vita tra un solo quarto dell’umanità, lasciando gli altri soltanto come materiale grezzo e mezzo di sfruttamento per la felicità di questo quarto dell’umanità, ma al contrario in vista dell’unione universale degli uomini sulla base dell’eguaglianza universale, con la partecipazione di tutti e di ognuno all’uso dei beni di questo mondo, qualunque essi possano risultare. Essi stabilirono di attuare questa decisione con qualsiasi mezzo, cioè non con i mezzi della civiltà cristiana, ma senza arrestarsi davanti a nulla» (p. 939). Al tramonto del potere papale, che controllava anzitutto i mezzi, sorgevano movimenti disperati per l’uguaglianza mondiale.

«Il protestantesimo di Lutero aveva già superato il suo tempo, l’idea del libero esame da un pezzo era stata accettata dalla scienza di tutto il mondo. L’enorme organismo della Germania sentì più di qualsiasi altro di non avere, per così dire, carne e forma per la propria espressione. Nacque così allora in esso l’incalzante necessità di incarnarsi, sia pure soltanto esteriormente, in un unico organismo armonico, in previsione delle nuove future fasi della sua eterna lotta con l’Estremo Occidente del mondo europeo. Occorre rilevare qui una curiosa coincidenza: tutti e due i campi, eternamente nemici, tutti e due gli avversari della Vecchia Europa per la priorità in essa, nello stesso (o quasi nello stesso) tempo si applicano a risolvere quasi il medesimo compito. la nuova, quasi fantastica, futura formula dell’Estremo Occidente, il rinnovamento cioè della società umana su nuovi princìpi sociali, questa formula, proclamata per quasi tutto il nostro secolo soltanto dai sognatori, dai suoi rappresentanti scientifici e da ogni specie di idealisti, a un tratto negli ultimi anni muta il suo aspetto e il corso del suo sviluppo e decide di lasciare per il momento l’enunciazione teorica e la realizzazione del suo compito e di procedere direttamente, prima di ogni fantasia, alla parte pratica del compito stesso, di cominciare cioè senz’altro la lotta: dando, a questo scopo, inizio alla riunione di un unico organismo di tutti i futuri lottatori per la nuova idea, cioè quel quarto stato trascurato dalla rivoluzione del 1789 e comprendente tutti i non abbienti, tutti gli operai, tutti i pezzenti e, raggiunta questa unione, alzare la bandiera di una nuova e ancora inaudita rivoluzione mondiale. E così comparvero l’Internazionale, i rapporti internazionali tra tutti i poveri di questo mondo, i comizi, i congressi, nuovi regolamenti e leggi, in una parola fu messa in tutta la vecchia Europa occidentale la base per un nuovo status in statu, che sarebbe venuto per inghiottire in sé il vecchio ordine di cose dominante nell’Estremo Occidente dell’Europa. E così, mentre ciò avveniva presso l’avversario, il genio della Germania comprese che era anche compito della Germania, prima di qualsiasi inizio di qualsiasi cosa, prima di qualsiasi tentativo di una Parola Nuova contro l’idea dell’avversario, nella quale s’era reincarnata l’idea dell’antico cattolicesimo, portare a termine la propria unione politica, completare la ricostruzione del proprio organismo politico e, soltanto dopo averlo ricostruito, affrontare il plurisecolare nemico: compiuta la sua unione, la Germania si buttò sull’avversario ed entrò in un nuovo periodo di lotta con lui, col ferro e col sangue» (pp. 940-942).

I poveri apostoli dell’Italietta si preoccupavano di rincorrere rivoluzioni già superate e trascuravano leggendarie battaglie culturali, epocali schieramenti, universali rivolgimenti. Tutti presi dall’astio per i vecchi curati, ebbri di sfottò per le beghine, finivano per schierarsi con il Germano in nome dei risorgimenti dei popoli, delle giovani nazionalità, dei conti da regolare con l’impero austro-ungarico. Ma non avvedendosi che la nazione tedesca stava portando a termine un secolare progetto contro Roma. Soltanto il papa, il vecchissimo papa morente, ne era pienamente consapevole.

«Le truppe tedesche non avevano ancora fatto in tempo a lasciare la Francia, che [il principe di Bismarck] vide che troppo poco era stato fatto ‘col sangue e col ferro’, e che occorreva, avendo davanti a sé uno scopo di tali proporzioni, fare per lo meno due volte tanto, approfittando dell’occasione. [...] L’attuale generazione dei tedeschi per di più è stata sedotta dai successi, ubriacata dalla superbia ed è tenuta ferma dalla mano ferrea dei capi. Ma forse in un futuro non molto lontano, quando questi capi andranno all’altro mondo e lasceranno il posto ad altri, verranno fuori problemi e istinti per il momento soffocati» (pp. 943-944). Già, gli istinti ‘tedeschi’, protestanti, nazionali, antiuniversalisti, soffocati per secoli dal potere cattolico (comunque incarnato), una volta perduta la mano ferrea dei capi prussiani, si scateneranno nella prima parte del XX secolo. È storia abbastanza recente la guerra degli hitleriani contro la Roma di Pio XII.

Ma torniamo al 1877, quando il principe di Bismarck non si accontenta delle vittorie militari, sa che «in Occidente si riprenderà del tutto dal colpo ricevuto il terribile nemico, il quale già adesso non dorme e non sonnecchia» (p. 945). «Perché [il principe di Bismarck] ha odiato tanto proprio il cattolicesimo, perché ha tanto perseguitato ciò che derivava da Roma (cioè dal papa), e per tanti e tanti anni? Perché con tanta lungimiranza si è preoccupato di assicurarsi l’alleanza (ci si può esprimere così) italiana, se non per schiacciare con l’aiuto del governo italiano il principio papale nel mondo, quando verrà il momento di eleggere il nuovo papa? Egli non ha perseguitato la fede cattolica, ma il principio romano di questa fede. [...] Il fatto è che il politico geniale seppe valutare, forse solo nel mondo dei politici, come fosse ancora forte il principio romano di per sé e in mezzo ai nemici della Germania e quale terribile cemento sarebbe stato nel futuro per l’unione di tutti questi nemici insieme. Egli seppe indovinare che forse soltanto nella idea romana si sarebbe potuto trovare il vessillo capace di unire nel momento fatale (e agli occhi di Bismarck inevitabile) tutti i nemici della Germania schiacciati in un terribile insieme. E la sua geniale congettura si è realizzata: tutti i partiti nella Francia vinta, fra quelli che potevano cominciare a muoversi contro la Germania, tutti questi partiti sono stati schiacciati, nessuno di essi ha potuto trionfare e prendere il potere in Francia. Essi in nessun modo potevano riunirsi perché ognuno aveva il suo scopo e tutti questi scopi sono in contraddizione tra loro; ed ecco che il vessillo del papa e dei gesuiti riunisce tutti. Il nemico è insorto, ma questo nemico non è la Francia, sebbene il papa. È il papa che, alla testa di tutti coloro che hanno ereditato l’idea romana, si scaglia contro la Germania. [...] Il papa sta morendo. Morirà presto. Tutto il cattolicesimo che accetta Cristo nella figura dell’idea romana è già da tempo in terribile agitazione. Si avvicina il momento fatale. Non bisogna lasciarsi abbattere, perché sarebbe la morte dell’idea. Può appunto succedere che il nuovo papa, sotto la pressione dei governi di tutta Europa venga eletto ‘non liberamente’ e che dopo la proclamazione acconsenta a rinunziare per sempre e in linea di principio al potere temporale, alla dignità di sovrano terreno alla quale non rinunziò Pio IX (il quale, al contrario, nel più fatale momento, quando gli tolsero Roma e l’ultimo pezzetto di terra, lasciandogli in proprietà soltanto il Vaticano, come a dispetto, proclamò la propria infallibilità e insieme la tesi che senza il dominio temporale il cristianesimo non può mantenersi sulla terra, proclamandosi cioè in sostanza sovrano del mondo e ponendo al cattolicesimo, già in forma dogmatica, lo scopo diretto della monarchia universale [...]» (pp. 946-947).

In un altro passo del «Diario di uno scrittore», Dostoevskij sembra avvertire il valore simbolico del possesso di Roma: «il papa per molti secoli ha dato a vedere di essere contento del suo minuscolo possedimento, lo Stato della sua Chiesa, ma tutto questo unicamente per allegoria: il più importante è che in questa allegoria era celato sempre il germe dell’idea principale, per cui il papato ha sempre e fermamente sperato che il germe si sarebbe sviluppato nel futuro in un magnifico albero che avrebbe protetto con la sua ombra la terra. Ed ecco, proprio nel momento estremo, in cui gli hanno tolto l’ultimo metro del suo possedimento terreno, il sovrano del cattolicesimo, vedendo la propria morte, si solleva all’improvviso e proclama a tutto il mondo la sua verità su se stesso: ‘Voi avete pensato che io mi sarei contentato soltanto del titolo di sovrano dello Stato della Chiesa? Sappiate, dunque, che io mi sono considerato sempre sovrano di tutto il mondo e di tutti i re terrestri, e non soltanto sovrano spirituale, ma anche temporale, il loro vero signore, arbitro e imperatore. Sono io, il re dei re e il signore dei dominatori e a me solo appartengono i destini, i tempi e i termini sulla terra; ed ecco io lo proclamo a tutto il mondo nel dogma della mia infallibilità’. No qui c’è forza; questo è maestoso e non ridicolo; è la resurrezione dell’antica idea romana della sovranità e unione universale mai morta nel cattolicesimo romano; è la Roma di Giuliano l’Apostata, ma non vinto, sibbene vincitore di Cristo nella nuova e ultima battaglia. Ecco come è stato venduto il vero Cristo per i regni terreni. E nel cattolicesimo romano ciò sarà compiuto e coronato anche di fatto. Ripeto, questo terribile esercito ha gli occhi troppo acuti per non vedere, finalmente dove è adesso la vera forza su cui appoggiarsi. Perduta l’alleanza dei re, il cattolicesimo si butterà verso il demos. Esso ha diecine di migliaia di seduttori, saggi, abili, conoscitori del cuore umano, psicologi, dialettici e confessori [...] tutti questi conoscitori del cuore umano e psicologi si getteranno sul popolo e gli porteranno il Cristo nuovo, già d’accordo in tutto, il Cristo annunciato all’ultimo empio concilio di Roma [...]» (marzo 1876, pp.335-337). Nonostante l’orrore ortodosso per la concezione romana, il grande scrittore russo sa comprendere la maestà di un gesto.

Bisogna superare le barriere del proprio tempo, come Bismarck e Dostevskij, per accorgersi di quanto imponente è ancora l’idea cattolica. Oggi anche a noi, col cannocchiale rovesciato della distanza temporale, ci appaiono particolarmente ridicoli molti politici dell’ottocento. Allora era il papato a suscitare il loro sorriso progressista. «Non è forse vero che ai politici e ai diplomatici di quasi tutta l’Europa tutto ciò sembrerà molto comico e insignificante? Il papa, buttato giù come sovrano e rinchiuso nel Vaticano, rappresentava negli ultimi anni ai loro occhi, una tale nullità, occuparsi della quale era addirittura una vergogna. Così ragionavano moltissimi progressisti d’Europa, specialmente gli uomini di spirito e i liberali. Il papa che pubblicava Allocuzioni e Sillabi, che riceveva pellegrini, che malediva e moriva, era ai loro occhi simile a un buffone per il loro spasso. Il pensiero che la più grande idea del mondo, un’idea uscita dalla testa del diavolo al tempo della tentazione di Cristo nel deserto, un’idea che aveva vissuto organicamente nel mondo già duemila anni, così, senz’altro, potesse morire in un minuto, questo pensiero era accettato come indiscutibile» (pp. 947-948). Adesso Dostoevskij, come uno zar che ha paura di sporcarsi le mani con la corruzione latina, collega l’idea cattolica con la tentazione di Cristo. Il cristiano ortodosso finisce spesso nell’eresia docetista e perfino il narratore per eccellenza del dolore umano arriva a considerare l’aspetto terreno, mondano della vita come una tentazione diabolica. Ma in ogni caso si rende pienamente conto della posta in gioco: «la più grande idea del mondo» non si abolisce perchè un dinastia delle valli alpine si impadronisce del Quirinale. Anzi, né l’Internazionale né l’attuale globalismo commerciale sembrano saperne reggere il peso immane.

«L’errore [dei liberali], naturalmente, era qui nel significato religioso di questa idea, nel fatto che due significati erano mescolati assieme: ‘Poiché sono ben pochi coloro che nel mondo credono in Dio, specialmente secondo l’interpretazione romana [...] quale forza possono avere nel nostro secolo colto il papa e il mondo cattolico?’ ecco quello di cui sono convinti anche adesso gli uomini di spirito. Ma l’idea religiosa e l’idea papale in sostanza sono diverse. Proprio questa idea papale a un tratto, ai nostri giorni, soltanto due mesi fa, di colpo ha rivelato una tale vitalità, una tale forza da produrre in Francia il più radicale dei rivolgimenti politici [...]» (p. 948).

Ovvero, cattolici e socialisti minano la repubblica e lo spirito repubblicano sorto dall’Ottantanove. Dostoevskij offre un gustoso schizzo di quella Francia liberale. Parla dei politici repubblicani: «si tratta di gente astratta e di idealisti. È gente che ha fatto il suo tempo, impotente. Sono vecchietti liberali, coi capelli grigi, che credono però di essere ancora giovani. Si sono fermati alle idee della prima rivoluzione francese, cioè al trionfo del terzo stato [...]» (p. 948). Il fatto è che «non appena veniva proclamata la repubblica, tutti cominciavano a sentirsi come in un interregno e per quanto ragionevolmente potessero governare i repubblicani, la borghesia sempre sotto di essi era convinta che, prima o poi, sarebbe scoppiata una rivolta rossa o sarebbe ricomparsa una qualsiasi monarchia [...] Per i loro princìpi, per i socialisti è indifferente la repubblica o la monarchia, indifferente se saranno francesi o diventeranno tedeschi e addirittura, se per una qualche ragione facesse loro comodo il papa, proclamerebbero anche il papa. Essi prima di tutto cercano il proprio vantaggio, cioè il trionfo del quarto stato [...]. È rilevante il fatto che il principe di Bismarck odia il socialismo non meno che il papato e che il governo tedesco, specialmente negli ultimi tempi, ha cominciato in un certo qual modo ad avere una eccessiva paura della propaganda socialista. Senza dubbio questo avviene perché il socialismo toglie ogni personalità al principio nazionale e rode la nazionalità nelle sue stesse radici e il principio di nazionalità è l’idea fondamentale, principale dell’unità tedesca. [...] Ma è anche possibile che il principe di Bismarck veda ancora più a fondo, cioè che il socialismo sia la forza futura di tutta l’Europa occidentale e che il papato, se a un certo momento sarà abbattuto dai governi di questo mondo, si butti nelle braccia del socialismo e formi tutt’uno con esso. Il papa andrà a piedi e scalzo dai poveri e dirà che tutto ciò che essi predicano e vogliono c’è già da tempo nel Vangelo, che finora non era ancora venuto il momento per loro di saperlo, ma che questo momento è arrivato e che egli, il papa, cede loro Cristo e crede nel formicaio» (pp. 949-950). Sì, sembra una profezia della Chiesa post-conciliare, ma va detto che l’abbraccio con il socialismo avverrà anche nel mondo protestante, soprattutto europeo.

Fulminato da Bismarck, Dostoevskij si scopre stratega politico, addirittura machiavellico, smaschera gli inganni in cui cadono i «vecchietti liberali» ma non il dispotico principe prussiano: «Al cattolicesimo romano (è più che chiaro) non occorre Cristo, ma la dominazione del mondo: ‘A voi [ai socialisti] occorre l’unione contro il nemico: riunitevi sotto il mio dominio, perché io sono il solo universale di tutti i dominii e di tutti i dominatori del mondo, e andremo insieme’. Ecco il quadro che forse prevede il principe di Bismarck, perché egli solo fra tutti i diplomatici ha avuto uno sguardo così acuto da prevedere la vitalità dell’idea romana e l’energia con la quale essa è pronta a difendersi, non preoccupandosi i scegliere questo o quel mezzo. Essa ha un’infernale voglia di vivere ed è difficile ucciderla, è una serpe! – ecco quel che capisce in tutta la sua forza il principe di Bismarck, il principale nemico del papato e dell’idea romana» (p. 950). Ecco quel che non hanno capito i romani dell’Otto-Novecento che in nome della laicità sono passati nelle retrovie tedesche.
(2. continua)

sabato 17 gennaio 2009

minima / Marinetti, dal cielo

Si legge sulla vecchia carta del «Figaro», datato 20 febbraio 1909, nell’inserzione a pagamento del miliardario Filippo Tommaso Marinetti: «Les plus âgés d’entre nous ont trente ans… i più anziani fra noi hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili – Noi lo desideriamo… Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche…». Ma nelle catacombe delle biblioteche, alcuni custodi eccitati dalle antiche parole futuriste organizzano delle feste della putrefazione. Un festival lungo l’intero 2009 è previsto. Per carità, non raccontate a quei burocrati pacifisti, che espongono alle finestre le bandiere con i colori della teosofa Madame Blavatsky, che si emozionano per la pelle del nuovo e messianico presidente americano, che «l’arte non può essere che violenza, crudeltà e ingiustizia». Non sottolineate queste parole nel celebre Manifesto, rovinereste loro le celebrazioni del Futurismo appena inaugurate.

Più onesto degli altri avanguardisti, più divertito, più incredulo, Marinetti metteva un limite alla ricreazione del mondo. I noiosissimi suoi colleghi nelle confraternite neofile, forse perché meno dotati economicamente, cercavano di cavarne una ragione sociale; Mondrian, seguace dello spiritismo, credeva trattarsi addirittura di uno sforzo etico piuttosto che di talento. A distanza di un secolo, enorme lasso di tempo nel velocismo futurista, dei paradossali discepoli la fanno lunga, officiano quel culto dell’istante come fosse una religione eterna, agitano le pagine ingiallite del «Figaro» e le lettere e i disegnini d’occasione come reliquie, trasformano gli studi e le case di quegli allegri agitatori in santuari, portano le scolaresche a venerarle, erudiscono i vecchi sulle provocazioni di cento anni fa quasi fosse materia della scuola dell’obbligo.

Lui declamò in quel remotissimo 1909: «Noi vogliamo liberare l’Italia dai musei che la ricoprono tutta». Oggi l’intera Europa è tutto un museo, questo anzi il suo spettacolo più terrificante, soltanto che il museo, nella versione contemporanea, oltre a mantenere i caratteri tombali e quelli burocratici di catalogazione, datazione, schede, restauri, acquisti, eredità, impiegati con i timbri in mano, signore con due cognomi e poca fantasia in ruoli dirigenti, convegni, tavole rotonde e altri fastidi del genere, manca adesso proprio del contenuto che gli dava senso: l’arte bella, le forme decisive; si limita perciò a conservare dell’effimero in naftalina, dei feti e teschi senza il rispetto che ancora li avvolgeva nei gabinetti anatomici, delle barzellette informi, dei risolini plastici. Un cimitero che sghignazza sottovoce, horror da B-movie. E una piccola folla di becchini, gente che non saprebbe pronunciare una battuta marinettiana ma che si muove felpata come funzionari ministeriali intorno a dementi che escogitano scope ritte dal suolo o rane crocefisse, con codazzo di gazzettieri devoti, a pronunciare tiritere accademiche in tono più grossolano, mafiette poco estetiche insomma nonostante la pretesa artistica, senza neppure lo stile nerboruto e popolaresco di quelle originarie prodotte da Cosa Nostra. Marinetti, al solo pensiero di esserne in parte responsabile, inventerà dal cielo – ne siamo certi – un’arma letale per disintegrare queste pubbliche istituzioni di robivecchi.

venerdì 16 gennaio 2009

minima / Le due mezze culture

Gli autobus romani inalberano le scritte del Festival delle scienze e annunciano «conferenze, aperitivi scientifici, mostre, spettacoli, concerti e lectio magistralis». Sic. Le lectiones magistrales (abusatissimo titolo per ogni dissertazione di docenti che spesso mancano di qualsivoglia carattere di maestro) non conoscono plurale in questo annuncio ufficiale di sarabanda culturale a spese del pubblico o, meglio, gli scienziati che organizzano non sembrano conoscere il latino elementare, secondo lo schema delle «due culture». Unicuique suum, a ciascuno il suo. Agli umanisti parrucconi il latinorum, agli scienziati i luoghi comuni su Giordano Bruno e le fiamme del rogo. Nel circo dell’Auditorium, tra le piste di pattinaggio e le fiere paesane, si alternano così i mediocri d’ogni specialismo, lontani sideralmente dai personaggi della tradizione che signoreggiavano i saperi incrociati.

martedì 13 gennaio 2009

minima / Libero mercato in libero Stato

«Dio non esiste», sulle fiancate degli autobus di Genova apparirà questa scritta, una inserzione a pagamento della Unione degli atei o qualcosa di simile. Pare che la moda provenga da Londra e Barcellona. Probabilmente arriverà anche a Roma. Gli atei intruppati in una associazione hanno fede nella réclame, la più falsa delle comunicazioni umane. Lo slogan pubblicitario è il loro credo. Il mondo delle merci aveva bisogno di una garanzia metafisica.

sabato 10 gennaio 2009

L'ultimo imperatore / 1

PIO IX, IL SOVRANO NON RICONCILIATO, NELLO SPECCHIO DI TRE AVVERSARI OTTOCENTESCHI. OVVERO L’UNIVERSALISMO CATTOLICO SOTTO I COLPI DEL MODERNO, QUANDO IRROMPONO I NAZIONALISMI E IN NOME DEL SANGUE SI SPREZZANO GLI ULTIMI ZUAVI CON L’EPITETO DI MERCENARI

Si quis dixit: Romanus Pontifex
potest ac debet cum progressu,
cum liberalismo et cum recenti
civilitate [idest: la modernità]
se reconciliare et componere:
anathema sit.
Sillabo, paragrafo conclusivo

Nelle folcloristiche ricostruzioni della Roma ottocentesca, la differenza che la città eterna mantiene rispetto alle altre capitali europee viene rappresentata come un’arcaica resistenza alla ventata moderna: il borgo delle rovine confrontato alle nuove metropoli, un presepio buffo umiliato da Londra e Parigi che si liberano del passato. Roma è la sede della più antica sovranità, quindi la più anacronistica. Ma per sconfiggere le sue ultime seduzioni estetiche, che ancora agivano, tra l’altro, sugli animi incerti dei romantici, si ricorre all’arma del ridicolo, parlando, per esempio, di staterello pontificio: confini ristretti per il trono che aveva visto coincidere il suo potere cattolico con l’intero orbe terrestre. Oppure, di cittadella dei preti: quante armate avranno mai i pacifici monsignori?, è la domanda che si fanno, sorridenti, i pragmatici per oltre un secolo, fino al recente despota dello scomparso Stato sovietico, esorcizzando con le loro cattive fedi nazionalistiche l’incarnazione di un potere universale. ‘Papa re’, si finisce tutti col dire, in una parodia della politica cattolica. Il papa sarebbe un reuccio tra i tanti sovrani della bella Penisola?

Eppure chi porta da secoli le tre corone è casomai re dei re, imperator, successore di Augusto, reggitore dell’Orbis romanus, nel segno dell’universalità, dell’universalità cristiana, successore del Pontifex Maximus della Roma pagana, e successore di Pietro. Ora il grande avversario della modernità, colui che proprio per il suo ruolo di pontefice scomunica chi pretende di essere in un tempo tanto radicalmente nuovo da spezzare per sempre la tradizione, viene giudicato per oltre un secolo con i parametri moderni di patriota o non patriota. Moderni e ristretti questi metri di giudizio, confinati nelle ideologie nazionaliste dei vari risorgimenti, non applicabili a colui che siede sul trono ecumenico. Agli occhi dei patrioti risorgimentali, tutti presi dal loro problema di abolire le frontiere doganali e di unificare il mercato per misurarsi con la concorrenza europea, il papa Pio IX tradisce le loro aspettative o illusioni. E perché mai il capo della cattolicità avrebbe dovuto tradire i suoi figli austriaci o francesi? Soprattutto perché mai avrebbe dovuto piegarsi dinanzi a questo piccolo e ridicolo idolo del patriottismo?

Nel mondo ridotto soltanto all’aspetto economico, non conta più il fatto di organizzare saldamente la spiritualità nelle maglie del diritto canonico, di derivazione romana, affinché non evapori nei misticismi individuali, in un’imitazione degli angeli che tralascia la fisicità umana; non basta essere l’erede, e il custode, di quanto di meglio abbia fatto l’Occidente nella sua storia, dal discorso razionale alle immagini rinascimentali; né viene più apprezzato quel ruolo di controllo della ferinità umana, esercitato con saggezza per millenni. Si scateni la furia dei nuovi predoni, avanzino le orde dei guerrrieri biondi contro quelle dei guerrieri neri, si proceda alla distruzione delle immagini, del logos, dell’umano. Si affermano così sogni e incubi dell’antiarte, domini spirituali senza territori, anime senza corpi, fantasmi insomma. Uno vero spettro avanza per il mondo.

Se il papato non avesse mantenuto il potere terreno sarebbe finito in servitù, un profeta disarmato in balia di re e principi, e invece di predicare la parola di Gesù e di tentare di instaurare una civiltà cristiana, il pontefice avrebbe controllato, per conto della autorità politiche, le anime dei sudditi.

Il cristianesimo, la religione dell’incarnazione di Dio, non può che incarnarsi nella storia, ma autonoma dalla potenze mondane, contrapposta a esse. E l’autonomia dev’essere perciò anche politica. Ecco perché la battaglia di Pio IX non è un passatismo, superato ormai nell’ottocento, ma lo scontro decisivo con la civiltà borghese. Soltanto nel terzo millennio può tornare evidente quel conflitto che si mascherò con altri nomi.

In Italia, in particolare, molto è stato occultato per ovvie ragioni. Bisogna ricorrere allo sguardo di chi da lontano, e non da posizioni cattoliche, assistette al conflitto. Stanno lì da secoli, questi testi, basta aprire i libri e leggerli. Nessuna scoperta, molti anzi li rileggiamo spesso (per es., Dostoevskij) ma non facciamo più caso alle parole che riguardano Roma. Qui si prova soltanto a ripeterle a voce alta.

L’OMAGGIO DI UN LUTERANO.
LEOPOLD VAN RANKE DESCRIVE LA BATTAGLIA

Il liberale protestante Thomas Babington Macaulay non aveva dubbi recensendo la storia dei Römischen Päpste in den letzen vier Jahrhunderten di Leopold van Ranke (1834-1843): va svelato il mistero di questa potenza umana che si vuole divina, proprio quando sembra risorgere ancora una volta dalle ceneri della storia. Ranke, da parte sua, tentava di spiegare ai suoi correligionari luterani il trionfo della Chiesa di Roma dopo un primo disorientamento seguìto all’attacco del frate agostiniano. E lo scrittore prussiano, contro Hegel, non voleva fare storia delle idee. Frequentò quindi gli archivi con raro spirito di erudizione per disporre la storia dei papi. Ma quando congedò l’opera si disse convinto che «al giorno d’oggi [...] l’autorità papale non esercita più alcuna essenziale influenza; né può esserci un sentimento di timore: sono passati i tempi nei quali avevamo qualche ragione di temere [...]» (Leopold von Ranke, Storia dei papi, Sansoni, 1965, p. 9), i luterani ora hanno uno Stato potente come la Prussia che li protegge. Anni dopo, ai tempi della battaglia anticattolica di Bismarck, Ranke torna sui suoi passi e afferma: «la lotta è di nuovo divampata...»: il Kulturkampft riapre la secolare guerra tra l’universalismo latino e i nazionalismi del Nord Europa.

Lo storico tedesco lo spiega così: «Come cambiò tutto quando si levò la potenza di Roma! Vediamo tutte le autonomie che riempivano il mondo chinarsi e scomparire una dopo l’altra: come improvvisamente la terra rimase deserta di popoli liberi! [...] Malgrado la viva partecipazione che noi proviamo di fronte al tramonto di tanti stati liberi, non possiamo negare che dalla loro rovina sorse direttamente una nuova vita. Quando la libertà cadde, caddero insieme i confini delle nazionalità particolari. Le nazioni vennero sconfitte, ed insieme conquistate, ma proprio per questo unificate, fuse. Poiché il territorio dell’impero era chiamato orbis, gli abitanti di esso si sentirono di una sola stirpe, di una stirpe omogenea. Il genere umano cominciò a rendersi conto della comune natura di tutti gli uomini.
In questo momento della evoluzione del mondo nacque Gesù Cristo. [...]
Anche se i culti nazionali avevano racchiuso ciascuno in sé un elemento di autentica religione, questo era, già allora, del tutto oscurato; [...] di fronte ad essi, nel Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio si manifestò nella sua forma eterna ed universale, il rapporto di Dio col mondo, dell’uomo con Dio.
Cristo era nato in una nazione che si distingueva con la massima energia da tutte le altre per un rigido corpo di norme rituali che valevano solo per lei, ma che aveva il grandissmo merito di essersi mantenuta immutabilmente ferma nel monoteismo [...] Cristo sciolse la legge compiendola [...]. Fu annunziato il Dio universale, il quale, come predicò San Paolo agli ateniesi, le stirpi di tutti gli uomini abitavano la terra discendendo da un solo sangue. [...] (il) culto di Cesare e la dottrina di Cristo avevano in un certo senso un atteggiamento comune rispetto alle religioni locali: ma insieme stavano in una opposizione che non si poteva immaginare più netta. [...] Ci si stupisce talvolta che proprio un edificio pagano destinato a scopi mondani, come la basilica, si sia trasformato in luogo di culto cristiano. Pure questo fatto ha in sé qualche cosa di molto indicativo. L’abside della basilica conteneva un augusteo, le immagini appunto di quei Cesari ai quali si tributavano onori divini. E al posto di essi si pose, come vediamo ancora oggi in tante basiliche, l’immagine di Cristo e degli apostoli; al posto dei signori del mondo che erano stati guardati come dei, si pose il Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio. Le divinità locali si ritirarono, scomparvero. Sulle strade maestre, sulle erte vette dei monti, nei passi attraverso gli scoscendimenti delle valli, sui tetti delle case, sul mosaico dei pavimenti, si vide la croce. Come nelle monete di Costantino si vide il labaro col monogramma di Cristo alto sul dragone sconfitto, così si levarono sul paganesimo caduto il culto ed il nome di Cristo.
Anche considerata da questo lato, come infinitamente grande è l’importanza dell’impero romano! [...] E l’impero romano dette del resto il proprio aspetto esteriore a questa religione. Gli incarichi sacerdotali pagani erano conferiti come cariche civili; nel giudaismo una tribù aveva il compito di occuparsi delle cose religiose; nel cristianesimo le cose stanno altrimenti: un particolare ceto, composto da persone che erano liberamente scelte per esso, consacrate con l’imposizione delle mani, allontanate da ogni attività terrena, doveva dedicarsi ‘agli affari spirituali e di Dio’.[...] Contemporaneamente però il ceto sacerdotale fu portato a conformare il proprio ordinamento al modello dell’impero. In corrispondenza della scala dell’amministrazione civile si levò la gerarchia dei vescovi, metropoliti, patriarchi.. Non durò però a lungo, ed i vescovi di Roma assunsero il primo posto. È vano affermare che ad essi nei primi secoli, anzi sempre, sia stato riconosciuto da oriente ad occidente un primato universale; ma certo ottennero ben presto un prestigio che li rese eminenti su tutte le altre autorità ecclesiastiche [...] Se ci fosse stato un solo imperatore il primato universale avrebbe potuto affermarsi: a ciò si oppose la divisione dell’impero» (pp. 13-20).

Anche il luterano tedesco accetta il sostanziale primato storico di Roma, sia pure ipotizzando una parentesi in cui il potere religioso era separato da quello politico, un intervallo che coincide con il periodo clandestino delle persecuzioni. Non solo, Ranke si spinge a credere che se non ci fosse stata la divisione politica dell’impero l’universalità romana si sarebbe realizzata in tutta la terra. Dunque, è politica la divisione della cristianità, prima incarnata dall’imperatore di Bisanzio e poi dall’imperatore franco, dal conflitto con i germani. Nonostante l’attacco politico portato da più parti, Roma resse per millenni, il papato risorse ripetutamente: dopo le invasioni barbare, dopo i confltti con l’impero d’Oriente e del Nord Europa, dopo l’attacco della potenza francese e l’esilio avignonese, dopo la spregiudicatezza intellettuale degli umanisti che seppellivano le credenze medioevali, dopo il violento attacco di Lutero. Lo stesso Ranke ammette: «Si può arditamente dire che quanto di più bello è stato prodotto nell’età moderna in tema di architettura, scultura e pittura è stato prodotto in questo periodo» (p.54), ovvero sotto il pontificato di Leone X, nel pieno del potere dei papi. E sarà forse un caso che il grado più alto della civiltà umana sia stato toccato sotto quella sovranità?

Ma, nonostante le molteplici resurrezioni, arriva un giorno nella sua storia quasi bimillenaria che il potere cattolico sembra avviato al tramonto. Il papa finisce in catene (non è la prima volta), il mondo viene rovesciato. La rivoluzione dell’Ottantanove e le sue conseguenze napoleoniche sembrano affossare la Chiesa di Roma. Ranke ammette che anche da questo esilio temporale il papato cattolico viene fuori. E ne ripercorre i passaggi drammatici, già nei decenni precedenti la Rivoluzione francese, quando due regni cattolici come Austria e Francia si combattono tra loro e la politica dei papi resta schiacciata in questo scontro: «Gli stati cominciarono ad assumere un atteggiamento indipendente: si liberarono da ogni rispetto per la politica del papato; rivendicarono, per i loro affari interni, un autonomia che concedeva alla curia una influenza sempre minore, anche nelle questioni ecclesiastiche. [...] In tutti gli stati italiani si stava affermando il principio di attribuire le dignità ecclesiastiche solo a oriundi del luogo» (pp. 930-943).

I vescovi che un tempo erano come i proconsoli romani, longa manus del potere papale in tutta la cristianità, relativamente autonomi da localismi e men che mai da nazionalismi, adesso diventano espressione della politica loci, contrapposti a Roma. «Non soltanto in Italia, nell’Europa meridionale, ma nella situazione politica generale si era verificato un grandissimo mutamento. Dove erano ormai i tempi nei quali il papato poteva sperare, e non senza fondamento, di conquistare di nuovo l’Italia e l’Europa? Tra le cinque grandi potenze che, già verso la metà del XVIII secolo, determinavano la storia del mondo, tre non erano cattoliche. Abbiamo accennato ai tentativi fatti dai papi in epoche precedenti, per imporsi sulla Russia e sulla Prussia per mezzo della Polonia, e sull’Inghilterra per mezzo della Francia e della Spagna. Ma erano proprio quelle potenze che ora partecipavano al dominio del mondo; anzi si può esattamente dire che esse, in quel periodo, erano più forti della metà cattolica d’Europa» (p. 945).

Anche negli Stati cattolici, dei ministri riformatori scatenavano una battaglia culturale per ridimensionare il potere ecclesiastico. Perfino la gloriosa Compagnia di Gesù fu atterrata in questo scontro, e il papa costretto a sciogliere il suo ordine fedelisimo. «Invano il papa ammonì, pregò e suplicò» (p.955). Clemente XIII morì di crepacuore ed evitò così di firmare l’atto decisivo. Ma nella curia romana c’era un partito ‘regalista’: la salvezza della Chiesa imponeva un grosso compromesso, al limite dell’arrendevolezza, con il potere laico. Il mite Clemente XIV mandò a casa i gesuiti. «Fu, questo, un gesto di portata incalcolabile. Prima di tutto rispetto ai protestanti. L’ordine era stato inizialmente costruito per lottare contro di essi, ed a questo si ispirava tutta la sua organizzazione – persino la forma della sua dogmatica era fondata soprattutto sull’opposizione a Calvino [...]. La prima reazione però si ebbe nei paesi cattolici. I gesuiti erano stati attaccati e soppressi soprattutto perché essi sostenevano, in tutto il suo rigore, il principio della somma autorità del pontefice romano» (pp. 958-959). Cadevano i princìpi, crollava l’organizzazione. Sembrava trionfare l’antico movimento della riforma luterana. Il mondo borghese si prendeva la sua rivincita. In Francia scoppiò la rivoluzione: «Tutte le diocesi venero modificate, gli ordini sciolti, i voti soppressi, rotti i rapporti con Roma» (p. 962).

Le forze rivoluzionarie «dal proposito di sottrarsi all’autorità del papato erano già arrivate all’idea di distruggerla. Il direttorio ritenne che il governo dei preti in Italia fosse incompatibile con l’esistenza della repubblica francese. Alla prima occasione, che fu offerta da un tumulto della popolazione romana, si marciò su Roma e si occupò il Vaticano. Pio VI pregò i suoi nemici di lasciarlo morire qui ove era vissuto; aveva già più di 80 anni. Gli si rispose che poteva morire dappertutto; si saccheggiò sotto i suoi occhi la sua camera; gli si tolsero anche i mezzi per soddisfare ai suoi più minuti bisogni; gli si levò dal dito l’anello che portava; infine lo si deportò in Francia, ove morì nell’agosto 1799. In realtà poteva sembrare che l’autorità del pontefice fosse per sempre distrutta» (p. 964).

Anche il lettore contemporaneo fa fatica a collegare simili persecuzioni della Chiesa – che perfino i barbari non avevano osato, e che scandalizzano lo storico luterano – con il nuovo trionfo della Chiesa in alcuni decenni del XIX secolo e poi nel XX. «Si realizzò davvero ciò che poco prima nessuno si sarebbe aspettato, cioè il ristabilimento del cattolicesimo in Francia e una nuova sudditanza di questo paese all’autorità del clero» (p. 966). Ma Napoleone voleva fare del papa un suo dipendente. Provvidenziale fu l’eretica Inghilterra che sconfisse le armate rivoluzionarie e i nazionalismi francesi che volevano assoggettare la Chiesa secondo antichi sogni gallicani. Restaurazione significò anche il papa di nuovo a Roma che celebra messa all’altare di Sant’Ignazio al Gesù e ristabilisce la Compagnia. Adesso anche gli Stati non cattolici si pentivano dell’ostilità verso i gesuiti e il papato che avevano portato all’esplosione violentissima dell’Ottantanove e allo strascico sanguinoso dei successivi quindici anni. Il cattolicesimo era visto come un elemento di ordine. La Chiesa raccoglieva nuovi successi politici in Inghilterra come in Olanda, in Prussia e in Belgio. Ma altre prove attendevano il papato, non solo contrasti politici con i nuovi regimi che rivolte e rivoluzioni collocavano alla testa dei paesi europei, anche a Roma le idee francesi trovano accoglienza. L’assemblea del 5 febbraio 1849 dichiarò che il papato era decaduto. Pio IX fuggì a Gaeta, ma il papato sopravvisse, la Repubblica romana fu un aneddoto storico, intriso di folclore.

Negli anni Settanta dell’Ottocento, Ranke poteva così concludere: «Indubbiamente il papato dispone dell’organizzazione più centralizzata e più omogenea che ci sia oggi nel mondo; ed ogni giorno essa si allarga di più sulla terra. A fianco delle chiese dell’America del Sud, nelle quali sopravvivono le idee religiose di Filippo II, si eleva un nuovo edificio gerarchico nella democratica America del Nord; in pochi anni vi sono stati fondati due nuovi arcivescovadi e venti vescovadi. L’organizzazione ecclesiastica segue lo sviluppo delle comunicazioni e delle emigrazioni verso la California, verso le isole australiane. Inoltre non si trascurò di mantenere legate a Roma le istituzioni ecclesiastiche fondate in un’epoca precedente sulle coste africane e nelle Indie orientali. Nell’Asia centrale sono stati fondati sei nuovi vescovati di rito armeno-cattolico, e in tutto il mondo, fino al polo artico, sono stati istituiti, in gran numero, prefetture e vicariati apostolici.
Il papa pretende anche di essere considerato il padre ed il maestro di tutti i cristiani, il capo di tutta la Chiesa: ma se non sono mancate le conversioni individuali – infatti l’idea di una comunità e dell’infallibilità corrisponde a un’esigenza religiosa del cuore umano, e coloro che professano la loro fede sono pieni di ardore propagandistico – sono però falliti i suoi tentativi di fronte alle diverse forme delle altre grandi comunità religiose.
‘Ascoltate la mia voce – egli esclama – voi tutti in Oriente, che vi inorgoglite del nome di cristiani, ma che non siete membri della Chiesa romana!’. Li supplica, per la salute delle loro anime, a lasciar cadere i motivi di dissenso [...].
In occidente il papa ha cercato di organizzare i cattolici di paesi di vecchia tradizione protestante, sia in Olanda che in Inghilterra, in speciali province ecclesiastiche. In Inghilterra Pio IX ‘per ridare slancio alla causa cattolica in un regno così fiorente’ ha istituito, senza alcun preventivo scambio di vedute col governo, un arcivescovado e dodici vescovadi suffraganei, che, tutti, prendono nome da località inglesi (l’arcivescovato da Westminster); il nuovo arcivescovo era insieme cardinale della Chiesa romana; egli ha affermato che d’ora in poi l’attività dei cattolici inglesi si muoverà intorno al centro dell’unità ecclesiastica.
Si intrecciano così i contatti nella Chiesa e nello stato, nelle nazioni e nel mondo, nella scienza e nella società, e tutti contribuiscono a mantenere gli animi continuamente tesi di fronte al papato, che è sempre uno dei punti focali più importanti. [...] È caratteristico che la lotta si svolga con continui richiami a quelle vicende passate che sono ancora vive nella memoria; tutte le controversie che abbiano mai agitato il mondo sono tornate ad esplodere apertamente: la lotta tra i concili e gli antichi eretici, tra la potenza medievale degli imperatori e quella dei papi, tra e idee di riforma e l’inquisizione, tra giansenismo e gesuiti, tra religione e filosofia. Intorno a questi temi si agita la nostra epoca, sensibile e disordinata, violentemente divisa nel suo slancio verso fini sconosciuti, fiduciosa in se stessa, ma eternamente insoddisfatta e piena di fermenti» (pp. 990-993).

Ma nella piccola ottica dei politici sardo-piemontesi Pio IX è un ostacolo, l’idea universale che i papi mantengono in vita senza soluzione di continuità con l’impero di Augusto è antitetica al regno montanaro dei Savoia. Ben più obiettivo è il prussiano Ranke, seguace di Lutero: Napoleone III «pensava che fosse ancora possibile un accordo tra Roma e il nuovo regno d’Italia, che avrebbe dovuto consistere in una moderazione, da parte del papa, dei princìpi che egli stesso aveva affermati; e questo avrebbe dato i più fruttuosi risultati nell’intero mondo cattolico; il papa avrebbe riconosciuto le idee liberali, che erano a base della maggior parte degli stati, ed avrebbe così dimostrato ai fedeli che la religione sapeva riconoscere e appoggiare il progresso del genere umano. Significava chiedere davvero troppo al papa nel momento in cui le idee che egli doveva approvare minacciavano la sua esistenza. Come avrebbe potuto ammettere la sovranità popolare, che lo aveva dichiarato deposto, o l’unità d’Italia, che minacciava di strappargli il suo stato?
A tutte le richieste che gli venivano avanzate a proposito dello stato della Chiesa, il papa contrappose continuamente l’idea dell’unità della Chiesa e del suo dovere di pontefice: ‘Il diritto del soglio pontificio non può essere trasmesso come quello di una dinastia terrena; appartiene a tutti i cattolici; se vi rinunziasse egli offenderebbe il corpo dei fedeli, violerebbe il giuramento che lo vincola, ed insieme legittimerebbe dei princìpi che sarebbero certo nefasti per tutti i princìpi’. Così ha scritto una volta all’imperatore francese. Non esitò pronunziare contro i ribelli e gli usurpatori delle province staccatesi dallo stato della Chiesa la scomunica maggiore, con sonore parole delle antiche formule, richiamandosi espressamente ai canoni del concilio tridentino; nel breve che la conteneva egli sostiene che, dati i divergenti interessi dei principi, una delle più savie istituzioni della provvidenza era stata l’attribuzione al papa di Roma di uno stato in terra, e quindi della libertà politica; perché la Chiesa cattolica non doveva essere in condizione di temere che la gestione delle questioni di sua spettanza fosse sottomessa ad influenze estranee e terrene; in conformità di questa sua missione anche il governo dello stato della Chiesa romana, doveva, con tutta la cura per il benessere dei sudditi, essere affidato agli ecclesiastici.
Di tempo in tempo avevano luogo a Roma cerimonie nelle quali prendeva corpo ancora una volta la mistica, che unisce il cielo e la terra, del pontificato di un tempo» (pp.997-998).

Pio IX, caricaturizzato dagli ideologi del regno italiano, ha una grandezza impressionante sulla scena moderna: «Quando Pio disse che avrebbe affrontato la morte piuttosto che desistere dalla difesa della sua causa, che era la causa di Dio, della giustizia e della Chiesa, [i vescovi] dichiararono di essere pronti a dividere con lui la prigionia e la morte» (p. 999). Con il Sillabo si elencavano le idee nefande della modernità, «si mirava soprattutto a ciò che era accaduto ad opera dei piemontesi: ma da questo prendeva spunto l’affermazione di princìpi più ampi contro l’onnipotenza dello stato [...] Pio IX, respingendo queste idee, è il continuatore della tradizione dei suoi predecessori che hanno sempre rivendicato per la Chiesa una benefica autorità su nazioni e principi [...]. Ricercando le cause del generale disordine, le individua nell’idea che la ragione sia superiore alla rivelazione, e che la legge sovrana consista nella manifestazione della volontà popolare [...] Contro la marea della politica e dell’opinione il papato prese posizione, con senso orgoglioso della propria missione che aveva sempre avuto; e l’esito di questa lotta, se il papato avrebbe ceduto o resistito, divenne uno dei grandi problemi del secolo» (pp. 999-1001).

In fondo, se non fossero stati accecati dai loro fumi ideologici, i liberali italiani avrebbero potuto vantare una vittoria su una figura imponente come Pio IX, sull’erede di un potere millenario. Ma forse erano consapevoli di funzionare da strumento di forze più grandi di loro, nient’altro che un sassolino che suscita una valanga apocalittica che seppellisce una civiltà.

Il papa non si era limitato a condannare i princìpi liberali: ricordando come nella battaglia contro Lutero alle bolle era seguito un Concilio come quello di Trento, che aveva invertito la marcia e garantito un nuovo trionfo alla Chiesa di Roma, anche stavolta, per battere le teorie moderne più perniciose, fu convocato un Concilio a Roma. «Si fraintenderebbe l’atteggiamento del papa – spiega Ranke contro tutte le interpretazioni anticlericali – se si pensasse che il fine del concilio fosse soltanto la salvezza del potere terreno. Certo, il conflitto, nei suoi termini essenziali, era italiano, dato che si svolgeva tra le aspirazioni unitarie del nuovo regno e l’esistenza indipendente di uno stato della Chiesa; ma acquistò un carattere universale perché la monarchia italiana intese e accettò le idee moderne con tutte le loro conseguenze, mentre il papa pensò di riaffermare e di sanzionare, in tutta la loro portata, le teorie ecclesiastiche avverse alle prime [...]. C’è qualche cosa di grandioso nel fatto che il papa, nel momento in cui una potenza politica e la spinta delle idee ostili, nemiche della Chiesa, minacciavano di strappargli ciò che restava del suo stato, prendesse la decisione di far sanzionare ancora una volta da un concilio ecumenico le dottrine sulle quali si è sempre fondato il papato, ed anche il suo stato in terra, tanto più che esse sono in aperta contraddizione con la posizione che oggi hanno assunto gli altri potentati terreni. La Chiesa doveva condurre un’energica opposizione non soltanto contro il regno d’Italia, e in genere contro la politica europea, che non interveniva in favore dello stato della Chiesa, ma contro il sistema delle idee moderne che hanno trasformato gli stessi stati. [...] E se ora veniva convocato un concilio era perché la Chiesa prendesse la difesa delle dottrine e degli interessi del papato e condannasse quelli opposti, per diffusi che fossero. Era un gesto di isolamento, ed insieme di ostilità; la teoria sulla quale si fonda lo stato moderno, più o meno permeato dalla rivoluzione, doveva essere scossa, e lo stato, almeno nella coscienza dei fedeli, doveva perdere le sue basi dottrinali. Nessuno doveva dire che il soglio pontificio fosse impotente. La sua potenza è smisurata, finché ha dalla sua parte la Chiesa docente, che guida centinaia di milioni di uomini vivi e pensanti» (pp. 1004-1005).

Nella discussione tra vescovi e papa, Ranke sembra addirittura schierato con il pontefice, sottolinea il suo nobile progetto, mostra la mediocrità degli interessi politici di alcuni vescovi e laici. «Che totale contrasto c’era tra le intenzioni del papa, che pensava soltanto a consolidare il suo altissimo potere conformemente alla tradizione ed a darne una nuova definizione, e quelle di un certo numero di vescovi, e dell’ambiente del laicato interessato ai problemi della Chiesa, che si proponevano di trasformare l’organizzazione ecclesiastica secondo le esigenze del secolo!»(p.1009).

È impressionante considerare che Ranke scriveva con tale rispetto delle decisioni papali quando ancora era a ridosso degli avvenimenti e mentre nella sua Prussia si scatenava una battaglia ‘di civiltà’ contro il pontefice romano. Bisognava proprio essere uno storico rigoroso per non lasciarsi impigliare nelle meschine polemiche del giorno e osservare da un punto di vista ben più distante le drammatiche vicissitudini del papato, le disavventure dell’idea universalistica, la maestosa solitudine di Pio IX.

Molti vescovi si batterono per impedire la proclamazione dell’infallibilità ex cathedra del pontefice. Le loro argomentazioni si richiamavano a motivi pratici: negli Stati Uniti solo una Chiesa liberale avrebbe fatto progressi, e poi non bisognava offendere i protestanti, gli ortodossi, le minoranze, i progressisti, gli scienziati, i politici, i moderni. Il papa non temette di turbare le cocienze moderne, si richiamò allo Spirito Santo, alle promesse fatte da Gesù in persona a Pietro, primo vescovo di Roma. Il concilio approvò, «e ciò avvenne tra i tuoni e i lampi di un temporale che si era scatenato sul Vaticano. Gli zelanti sostenitori del papato non si peritarono di rievocare il ricordo dell’annunzio della legge mosaica sul Sinai» (p.1023).
(1. continua)