martedì 10 febbraio 2009

minima / L’accento del nulla
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Raccontava Jean Paulhan in un saggio sul terrorismo letterario: «Nel monastero di Assisi c’era un frate con un accento terribile che si trascinava dalla sua Calabria. I confratelli lo prendevano in giro, egli si offese e non aprì più bocca se non per comunicare un qualche guaio, una disgrazia, un fatto talmente grave da lasciar passare inosservato il suo accento. Ma siccome gli piaceva parlare, cominciò ad annunciare catastrofi. E dal momento che era sincero si spinse fino a provocarle.

Ugualmente la nostra letteratura non richiederebbe con tanta cura il sensazionale, l’eccessivo e l’eccentrico se non volesse farci dimenticare che essa è letteratura, che usa parole e frasi. Poiché non si tratta di altro nel suo segreto: le parole le sembrano pericolose e il suo accento odioso». (
I fiori di Tarbes, 1941).

Sottile obnubilazione di un neoclassico potrebbe essere il titolo di questo aneddoto, ché più tardi i toni forti avrebbero smesso di sorprendere. Nelle avanguardie espressioniste, il più bravo di loro, Gottfried Benn, si spinse a riverberare in rima Strophe e Katastrophe, la poesia e il disastro. Adesso, in tutte le arti, contenuti ricercati per la degradazione fanno dimenticare che la forma è inesistente. E nella nostra vita quotidiana rimbomba perennemente il nulla sia pure nella versione minimalistica di una inezia, con l’accento burino di una pinzillacchera.

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