giovedì 26 febbraio 2009

minima / Lezioni di realismo
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Contraddittorie lezioni di realismo ci vengono impartite continuamente. In arte, per esempio, è vietato immaginare opere durature, compiute e formalmente elevate; bisogna accontentarsi di quel che passa il convento contemporaneo – cioè un fritto misto di frammenti –, piegarsi docili al dominio del presente, ducunt volentem fata, nolentem trahunt, ci dicono minacciosi e con pessimismo degno di introvabili reazionari. Invertendo il buonsenso però sembra sia lecito fantasticare tutto il possibile proprio laddove la tradizione richiamava alle dure leggi della concretezza: nel regno della politica e dell’economia. Così ci si abbandona ai sogni adolescenziali e si invoca la correttezza delle banche, la trasparenza della politica, il dialogo con i terroristi, le leggi giuste che coprono l’arco della vita dalla culla alla bara, il superamento definitivo delle guerre, la convivenza felice di popoli estranei gli uni agli altri, l’armonia fourierista dei vizi, e le altre consuete amenità del genere. Nel Paese dei Balocchi, le arti si intrecciano allora con l’etica, diventando il coronamento di simili speranze: tutti creatori gli esseri umani e, chissà, quanto prima anche gli animali, a costo di rendere questa creatività democratizzata uno sciocchezzaio condito di estetica senza forma. E senza fede né bellezza.
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Legati alla catena delle mode imperanti, non si riflette più sul maggiore evento storico cui ci è capitato di assistere: la dissoluzione della massima utopia del Novecento che, travestita da scienza, benché assai infondata, escludeva con feroce sarcasmo tutte le altre soluzioni. I più giovani forse ignorano la portata dell’avvenimento, la Google generation non può rendersene pienamente conto, nonostante la rete a disposizione, l’eco si è attutita con rapidità. Per mezzo secolo almeno, in Europa si dette per scontata la vittoria conclusiva del sistema socialista, tutti gli intellettuali del vecchio continente, salvo rari isolati, ne facevano un dogma che resisteva a ogni smentita storica. Dopo che l’Armata Rossa aveva conquistato la parte orientale d’Europa, i frequentatori dei caffé parigini come i filosofi degli atenei italiani cominciarono a celebrare i nuovi vincitori. Inutile, si diceva, perdere tempo dietro l’arte e la religione quando un giorno il sistema sovietico si sarebbe impadronito del mondo; tutto suonava frivolo, mentre i borghesi avevano i giorni contati e l’uomo prometeico veniva forgiato dal comunismo. Questo andavano farneticando i Sartre e i Merleau Ponty, contro lo spirito pratico di Raymond Aron. Questo ripetevano nella Toscana machiavellica come nell’Emilia fattiva, in barba al buonsenso: si aveva bisogno di una religione moderna. Questa era la fede di milioni e milioni di persone in Occidente. Le ‘teste d’uovo’ americane si congiungevano alla internazionale dei dotti e criticavano i governanti poco propensi alla resa. Al di là della Manica, tra gli intellettuali meno ideologici d’Europa, erano ormai non pochi coloro che davano credito al trionfo del socialismo reale, qualche insospettabile lavorava addirittura per l’intelligence con la stella rossa. Certi economisti si facevano profeti di sventura, negando un futuro all’Occidente, che pure conosceva uno sviluppo mai visto, e accreditando misteriosi successi ai piani quinquennali di Mosca (le scienze, talvolta, possono apparire più assolutiste delle fedi). Il filosofo pacifista Bertrand Russell capeggiava il corteo dei capitolardi con lo slogan «meglio rossi che morti». Chi resisteva a questo senso comune planetario? La filosofia esistenzialista si incaricava di celebrare lo scacco, la rinuncia, al punto che molti, pur lontani dall’ideologia comunista, magari con posa stoica, accettavano per pragmatismo il pensierino debolissimo che l’Occidente fosse alle soglie dell’Apocalisse. Dei severi protestanti, per esempio, preferendo il materialismo degli indigenti al consumismo, si lasciavano fuorviare sui destini del mondo. Perfino un concilio ecumenico dedicò buona parte del suo svolgimento al tentativo di venire a patti con il gigantesco nemico. Quanti teologi ripeterono per anni che la Chiesa cattolica doveva guardare in faccia il socialismo che si era affermato a Est, gli Stati atei che rappresentavano l’avvenire. Equivocando sull’annuncio angelico «agli uomini di buona volontà», si accreditavano come tali anche gli sterminatori di cristiani e di israeliti (stranamente, nessuno rimprovera i «silenzi» delle confessioni cristiane sulle stragi degli ebrei nella Russia staliniana).

Appena l’altro ieri, si smise di fare la faccia cattiva e si introdusse la melliflua parola d’ordine della ‘coesistenza pacifica’, ma neppure per un istante si abbandonò l’idea della vittoria finale. Anzi, come ripetevano i pensatori del Partito comunista italiano quando imbonivano la base in preda alle pulsioni estremistiche, la coesistenza si basava proprio sulla certezza che alla fine i sovietici avrebbero vinto la Guerra fredda e senza ricorrere all’arma atomica l’Occidente si sarebbe arreso, l’umanità avrebbe riconosciuto Mosca come capitale del mondo. Invece, i missili reaganiani puntati contro l’Urss, il realismo politico avversato da tutte le anime belle degli anni Ottanta, pose termine alla Terza guerra mondiale, quella fredda appunto, e il comunismo irreale che i maestrini di cinismo avevano predicato essere l’unica salvezza del secolo, precipitò con un contorno di ridicolo e di patetico.
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Altri arroganti maestri di realismo, forse perché delusi dai loro modelli ideologici, si riciclano oggi con l’estetica, facendo la lezione, sempre con grossi sberleffi, a chi resiste al senso unico della storia. Solo che adesso si ispirano più schiettamente al «nichilismo reale». In confronto, però, quando verrà giù il sistema commerciale delle merci selezionate chiamato 'contemporaneo', avrà nomi meno altisonanti da fare arrossire.

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