sabato 18 aprile 2009

minima / Visitate Zurigo
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Visitate Zurigo d’inverno dopo aver visto un buon numero di foto della città all’inizio del Novecento: senza i bianchi intonaci d’oggi, anzi abbastanza scura, puritana, con le donne calviniste in nero; andate a vedere la cattedrale zwingliana radicalmente iconoclasta, priva perfino di un crocefisso, di una croce geometrica, niente (purtroppo adesso anche la chiesa cattolica degli agostiniani è altrettanto nuda); pensate alla chiusura mentale dei montanari elvetici che avevano conosciuto solo nell’ultimo secolo la ricchezza delle banche e pensate agli anarchici e agli esiliati vari che si aggiravano con la testa piena di utopie in un ghetto di banchieri e di ingegneri del Politecnico; girate poi per le stradine gelide della parte alta, anche senza farlo apposta – il quartiere è piccolo – vi imbatterete in un angolo che espone la targa Cabaret Voltaire. Dentro, ristrutturato da qualche anno, quando lo si sottrasse a una demolizione (i seguaci dei demolitori vorrebbero per quel che li riguarda mantenere ogni traccia delle loro distruzioni), all’oblio cui lo aveva destinato un deposito o roba del genere, un locale angusto, povero, con un caminetto senza grazia, un palchetto da burlesque. Qui i disperati della terra provavano a esser ludici con il tono ironico dei moribondi che non vogliono cedere alle lacrime. Qui veniva a distrarsi dai suoi studi per conquistare il potere il russo Vladimir Ilic Ulianov detto Lenin. Così nacque la prima avanguardia storica del secolo scorso. In-fanti del da-da. I signori che provavano a fare i faceti ebbero questo humus. E allora si capisce tutto. Quando Hugo Ball passò nel Canton Ticino cattolico, lasciò da parte gli scherzi stupidi e prese ad occuparsi di meraviglie bizantine.
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Sul lago ameno che ingentilisce Zurigo, furono concepite strategie che avrebbero portato all’impresa più sanguinaria della storia (realizzata in terra russa) e alla definitiva scomparsa delle belle arti.

sabato 11 aprile 2009

Una veglia nel tempio di Giove

LA RIUNIONE NOTTURNA PER ASCOLTARE IL RACCONTO DELLA GRANDE FUGA ORGANIZZATA DA MOSÈ E BENEDETTA DA DIO, RIPARTENDO DAGLI ERRORI DI ADAMO E DI EVA, DALLA FELIX CULPA, DALLE PROMESSE AD ABRAMO, FINO AD APPRODARE ALL’ECUMENISMO CON LE GENTI PAGANE

Per parlare dei nostri temi anche con il linguaggio immediato e personale dello scambio epistolare, pubblichiamo su «Almanacco Romano» alcune emails rimaste nella memoria del computer. Questa, del 2005, è la seconda parte di una lettera inviata negli Stati Uniti per raccontare la Settimana Santa a Roma e dintorni. La prima è uscita venerdì 10 Aprile, con il titolo «Nei giorni delle immagini velate».

Visto il potere evocativo oltreatlantico della Settimana santa a Roma, concludo il ‘triduum mortis’ –com’era chiamato – con la Veglia pasquale. Pio XII modificò una secolare liturgia per riportarla a più antica coerenza: le campane non risuoneranno più la mattina del Sabato santo, i preti non benediranno più le case simultaneamente, nel pomeriggio dello stesso sabato, con le tavole già imbandite di uova e di agnelli, di salato e dolce: nel 1956, se ricordo bene l’anno, si tornava al millenario rito notturno, alla notte santa, pendant di quella natalizia, eredità della biblica notte santa per eccellenza, quella in cui l’angelo passò per le case degli ebrei e segnò col sangue lo stipite delle porte affinché i figli primogeniti dei discendenti di Abramo fossero risparmiati dal grande castigo e tutto il popolo di Israele uscisse liberato. Così la riunione notturna riprese le movenze clandestine degli ebrei in Egitto e quelle altrettanto nascoste dei primi cristiani che provavano anche loro a raccontarsi davanti a tutta la comunità la storia di Pesach, andando più indietro della grande fuga organizzata da Mosè e benedetta da Dio, ripartendo dagli errori di Adamo e di Eva, dalla felix culpa, dalle promesse ad Abramo, dai felici equivoci, dalle felici digressioni del popolo ebraico fino ad approdare all’ecumenismo con le genti pagane. Narrazione che si snoda non nell’intimità della famiglia intorno alla tavola, con i bambini che leggono la sacra scrittura e interrogano gli adulti, ma coram populo, proprio come si celebrava Pesach tra gli ebrei fino alla distruzione del Tempio di Gerusalemme.

In una notte ventosa di una bassissima Pasqua marzolina, la chiesa cattedrale di Terracina si presta al ricordo di cerimonie sotterranee e segrete delle origini cristiane. Città di liberti e di divinità straniere e popolari contrapposte all’olimpo ufficiale latino, porto dell’Impero in concorrenza con Ostia, che ostenta ancor oggi – restituito dalle bombe americane – un Foro dalla perfetta pavimentazione marmorea, costeggiato dalla Via Appia che gli corre accanto con il marciapiede assolutamente integro, segnando l’esatta metà del percorso che unisce l’Urbe a Napoli, l’Occidente e l’Oriente, i Romani e i Greci, e con il Capitolium che già nella decadenza imperiale sembra fosse occupato dagli ebrei che vi istallavano i loro banchi di commercio, e l’Appia che conduceva all’imbarco per la Giudea, strada che portò gli apostolici ebrei nella capitale imperiale… Dunque, questo Foro fu attraversato sicuramente da Pietro e Paolo diretti a Roma, molto prima che Goethe lo percorresse all’incontrario, eccitato dai profumi del Sud.

Nel Foro, dove prima si innalzava un tempio forse dedicato a Giove e ad Anxur, divinità dei Volsci che i Romani fondevano con la loro (educando il cattolicesimo a quel metodo dell’et et che si contrapporrà sempre all’etica luterana e poi kierkegaardiana dell’aut aut), nell’epoca romanica si innalzò un tempio cristiano dedicato ai martiri del luogo, architettura dalle mirabilia cosmatesche e dalle testimonianze commoventi di esoterici simboli per dire la religione nuova, con incisi i segni zodiacali per magie ancora benedette e sculture che confermano le parole vibranti di Novalis sulla funzione civilizzatrice del cristianesimo in Europa.

Sul lucido marmo bimillenario, alle undici di notte, degli uomini sistemavano un tripode. Dall’altra parte dell’immenso spazio c’ero soltanto io. Fino a poco prima la chiesa era sbarrata, poi questi tre paesani che accendevano la legna nel braciere, senza nessuno intorno, come si fossero scordati qui della Pasqua cristiana, l’oscuro borgo appariva deserto e chiuso nel sonno, mentre nella città bassa scorrevano fiumi di auto, e ristoranti e discoteche erano in festa. Invece, in breve tempo, dagli archi ogivali avanza una piccola folla, spuntano perfino delle suore, dalla cattedrale escono chierici e sacerdoti. Intorno al fuoco il celebrante parla con una cadenza burina, quasi fosse una lingua volgare appena partorita dal latino. La liturgia approssimativa rende complicata l’accensione del cero pasquale: il fuoco, sistemato lontano dalla scalinata della chiesa e dal suo porticato, è troppo esposto ai venti che salgono dal mare, lo stoppino del simbolico candelone di pura cera d’api – che sta al posto di Gesù risorto – , non appuntito bene, continua a spegnersi. Eppure quell’affannarsi di preti ed ex contadini intorno al fuoco appena benedetto e al cero, enfatizza il carattere di cerimonia solenne quanto segreta e lontana dai fasti imperiali come dovette essere la Veglia dei primi secoli. Rito cui partecipavano i catecumeni che per la prima volta ascoltavano le letture dei libri ebraici e il racconto zoppicante della resurrezione, sentendo parlare delle promesse inaudite sulla sconfitta della morte. Lumen Christi continua a ripetere il sacerdote, ma la fiamma del cero agonizza e non permette ai fedeli di accendere a loro volta le candeline che tutti stringono in mano. I bambini si divertono del contrattempo, i grandi una volta si sarebbero spaventati per i cattivi presagi, adesso non ci fanno troppo caso. In quell’ora solenne in cui viene consacrato il fuoco e l’acqua lustrale con la quale battezzare e benedire per tutto l’anno, la tradizione contadina in Toscana e in Emilia voleva che i più piccoli si passassero sugli occhi dell’acqua santa per garantirsi la vista anche in vecchiaia o al suono delle campane sciolte dal lutto facessero i loro primi passi… Lumen Christi, e finalmente il cero accende un centinaio di fiammelle del popolo di Dio, si entra nella chiesa romanica completamente al buio e i marmi dei cosmateschi si accendono dei bagliori sommessi delle candele tremolanti nelle mani dei fedeli in processione per la navata. Il soffitto baroccheggiante, gli ornamenti settecenteschi scompaiono senza i riflettori elettrici, la luce delle candele non va oltre l’altezza romanica, ecco una visione fuori dal tempo. Un popolo di contadini e di pescatori riempie interamente l’antichissimo tempio e ascolta le letture bibliche della notte più importante dell’anno (secondo le indicazioni dei padri della Chiesa). Non c’è l’aurea corazza del latino né dunque l’intonazione tradizionale che trasformava le parole, sono anzi uomini e donne che, al posto del diacono, leggono con i loro accenti ciociari e napoletani gli episodi più avvincenti della Bibbia. E tutti ascoltano, intorno ad altari e baldacchini dei primi secoli cristiani. Una volta tanto anche il rituale modernizzato resta impigliato nei modi tradizionali di questo ambiente. Vengono alla mente le rozze statue del primo medioevo ispirate alla Genesi, gli adamo e eva di Wiligelmo, gli abramo pronti a sacrificare il figlio che ancora non hanno ricevuto il fiat divino di Nicola e Giovanni Pisano, i due pugliesi che rianimano l’arte scultorea dell’Occidente…

Penso allora (e adesso ricopio) alle parole, lette in treno, di Hans Urs von Balthasar, teologo della Bellezza, ancorato alla Bellezza nell’epoca antiestetica del Concilio Vaticano II:
«Religione è mondo che prende la direzione di Dio; cristianesimo è Dio che prende la direzione del mondo, e uomini che, credendo in lui, seguono la sua direzione. Cattolicesimo è quel cristianesimo che fa percorrere in totale serietà al Dio intero questa direzione sino all’amara e al fondo beata fine. In questo radicalismo gli altri cristianesimi finiscono col cadere nell’angoscia; si fermano, si inchiodano in qualche punto: nel religioso-sacrale (chiese orientali) o in un miscuglio di spiritualismo (che preferibilmente resta librato sulla materia) e secolarismo (che si oppone alla santificazione definitiva della materia da parte di Dio, come fanno le chiese della Riforma). Sono i malati, dice Gesù, ad aver bisogno del medico; ma ecco che se non è pudibondo il malato, capita che lo sia il medico.

Gli altri cristianesimi si vergognano per Dio, di questo Dio che si impegola così a fondo con il fango di Adamo, sporcandovisi per così dire le mani. Tante cose si lasciano come sono, le si rimette alla coscienza e alla discrezione del singolo, che deve ‘assoggettare’ se stesso ‘alla Parola’, la quale il più delle volte non si perde nel dare regolamenti particolari e concreti; avviene allora, per lo più, che la parola decisiva la dica lo Zeitgeist, il quale considera le cose dal punto di vista della secolarità. Ha davvero la chiesa il dovere di impelagarsi nelle questioni della sessualità endo- ed estramatrimoniale? […] A confronto della altre etiche cristiane, quella cattolica fa spesso la figura di essere tanto casistica e minuziosa e gretta, e la dogmatica cattolica sembra così materialistica!

[…] Ma dietro gli abusi si nasconde spesso una buona usanza, che si distingue per un modo religiosamente rispettoso di trattare anche quella materia di cui l’uomo è plasmato e con cui ha a che fare continuamente, di trattare cioè i profondi, delicatissimi, spesso umilianti misteri della corporeità umana che tali sono per la loro inscindibilità dalla Spirito…» (da Katholisch, 1975). Il mistero della corporeità strettamente legato al mistero della resurrezione.

Con queste parole del teologo elvetico ti auguro la mia Buona Pasqua.

venerdì 10 aprile 2009

Nei giorni delle immagini velate

IN UNA LETTERA SPEDITA OLTREOCEANO, IL RACCONTO DELLA SETTIMANA SANTA A ROMA DELL’ANNO 2005, TRA RIEVOCAZIONI DELLA LITURGIA PRE-CONCILIARE E DI TELEGIORNALI DISORIENTATI

Per parlare dei nostri temi anche con il linguaggio immediato e personale dello scambio epistolare, pubblicheremo su «Almanacco Romano» alcune emails rimaste nella memoria del computer. Questa del 2005 è la prima.

Sono giorni in cui la liturgia si riaffaccia nella vita dei cristiani. Non è più il medioevale venerdì della desolazione che ancora intravidi nell’infanzia, ore dedicate alla meditazione sulla morte, con i cinematografi e i teatri sbarrati, la giovane televisione che trasmetteva documentari e cerimonie religiose – qualsiasi racconto, anche evangelico, sembrava infatti procurare diletto e perciò fuori luogo (alla mattina del Sabato santo, già meno tragica, erano riservati i film edificanti sulla vita di Gesù e dei santi), la radio che aboliva la musica leggera e ogni altra lepidezza, anche le campane ‘legate’ e silenti i campanelli agitati dai chierichetti, perfino l’organo interrompeva il suo ufficio: i piaceri uditivi andavano vessati, così come le immagini sacre andavano velate con cura dal momento che resisteva ancora a quel tempo il piacere dell’ascolto e il piacere degli occhi, convinti come si era che pure l’arte sacra conservasse una sua materialità sensuale, senza la quale non si dava arte e non si dava il sacro; umiliazione dei sensi, una tantum, per riconfermarne negli altri giorni il peso e la gloria. Le chiese, a parte il fulgore del ‘sepolcro’, apparivano orribilmente spoglie nel venerdì della morte, nello Yom kippur del cattolicesimo. Oggi, quarant’anni dopo il Concilio Vaticano II, tutti i giorni sono spoglie, spesso orribili.

Il Venerdì santo era l’unico giorno dell’anno senza Messa, senza comunione. Ma nell’ora più tragica dell’anno liturgico, la Chiesa di Roma pregava per il mondo che le stava a cuore: per il papa, i governanti e pro perfidis Judaeis. I padri conciliari del Novecento, equivocando il latino, pensarono fosse un’ingiuria, non capirono che si parlava di dirittura della fede. Nell’ora più sacra si elevavano preci solenni affinché quella mosaica fede granitica, garantita da Dio, accettasse la divinità di Cristo. Si pregava perché l’altra parte di Israele desse il suo riconoscimento, confermasse la divinità di rabbi Gesù. Un terribile giudizio di Dio mentre risuonava nelle orecchie dell’uditorio l’atroce grido del Figlio dell’uomo che sulla croce si sente abbandonato dal Padre. Tutto questo superbo incrocio dei testi vetero e neo testamentari, echi di profezie e di gesti, simbolismi nascosti che riappaiono nell’ora nona, sono adesso sostituiti da una diplomatica quanto contorta allusione ai ‘fratelli ebrei’ di cui si esalta la fedeltà all’Alleanza (e perché mai sarebbero i cristiani a dare simili voti di pagellino?), in cui si sottolinea il cammino in comune, come nei comunicati-stampa degli incontri politici. Nell’irenismo attuale manca comunque una preghiera specifica per gli islamici, altra religione del Libro: nonostante tutto, permane evidentemente la concezione medioevale per cui quella di Maometto è soltanto un’eresia.

Nella chiesa della Trinità dei Pellegrini, presa in prestito dalla comunità che celebra in latino per il resto dell’anno in una specie di catacomba dietro via della Scrofa, viene rispettato il rito tridentino, filologicamente ineccepibile. Numerosi fedeli stranieri, giovani donne dalle gonne lunghe fino ai piedi, con i bambini al collo, più simili a quelle della Myflower, e giovani sposi impettiti, dallo sguardo fervente, che si inginocchiano come cavalieri del Graal. Insomma, sembrano un tantino protestanti questi miei severi vicini di banco. In tutte le altre chiese della capitale, il popolo romano di Dio mantiene caratteri paganeggianti, alterna durante i sacri riti bigottismi e distrazioni, chiacchiera, guarda in giro, pensa ai fatti privati. Qui tutti si sentono eletti, ammantati di un rigore nordico, seguono la cerimonia con i messalini. Sospetto si tratti di molti neoconvertiti, cattolicesimo da Nazareni, appunto. Già, in fondo il Lukasbund era una setta protestante passata per il pietismo, come controprova basta guardare il quadro di Overbeck che raffigura la sua famiglia: moglie e figli con lo sguardo perso nel vuoto, la posizione rigida del corpo, l’espressione mesta, i colori cupi degli abiti che fasciano ogni centimetro di pelle. A Roma, nella Chiesa di Roma, cercavano una forma antica per un protestantesimo del cuore. Aggiungerei alle due definizioni storiche del luteranesimo e del pietismo una versione di certo cattolicesimo ottocentesco: Chiesa di pietra, Chiesa del cuore, Chiesa dell’arte.

Chi, come i luterani, era quasi privo di una liturgia – disseccata nella sola Parola – poteva scatenare allora la fantasia nell’inventarne di nuove ma anche attingere direttamente da quella specie di superba Antiquaria che è la Chiesa di Roma all’alba del XIX. Il gusto della liturgia fu alla base di molte conversioni romantiche. Oggi, dopo il Concilio che ha luteranizzato la Chiesa, i nuovi pietisti dove possono approdare? Nella Chiesa anglicana?

Al Pantheon, la Domenica delle palme, ben altra musica. Nel flusso chiassoso dei turisti e dei visitatori, i celebranti, rivestiti di porpora sembravano antichi sacerdoti pagani indifferenti nella loro ieraticità al caos del mondo cui peraltro risultano abituati. Fedeli e curiosi sono una sola folla, matrone pie e ragazze con l’ombellico scoperto fissano gli antichi riti, la solennità misteriosa. Per un capriccio della liturgia post-conciliare, a un certo punto i celebranti passano dall’italiano al latino, e con voce chiara e forte la lingua imperiale risuona nel massimo tempio della classicità. Emozionante sentire invocare nel trionfo dell’armonia e della perfezione l’ebreo della Galilea, il capro espiatorio che pare aver vinto davvero l’impero pagano …

Oggi, venerdì, dai greci, liturgia orientale, ripetitiva, con una struttura circolare dove niente accade – come nella pittura ornamentale: preghiere, letture dei salmi infinite incensazioni, residui della corte bizantina, ma manca l’evento. Però nel venerdì santo erompe il canto forte e un po’ selvaggio, profumo di medio oriente, intonato da seminaristi barbuti dalla voce possente … Coro sgraziato, vagamente dionisiaco, per annunciare la vittoria sulla morte. Buona novella confusa, febbricitante, come molti avvenimenti ambientati laggiù.

A sera, tra il Colosseo e il tempio di Venere processiona la via Crucis con il commento scritto da Ratzinger che dialoga con la folla e con Dio: la tua Chiesa ci appare brutta e infangata… Appena rientrato, mentre parlo al telefono, ascolto distratto le voci che vengono dalla televisione accesa. Dopo pochi istanti, ci si accorge che i testi letti (male) da attori italiani, sono insoliti. Li vado a ritrovare sul sito ufficiale del Vaticano.

Signore, abbiamo la sensazione che la navicella di Pietro stia affondando… Parole forti sulla crisi del cattolicesimo nonostante i successi mediatici del papa regnante, che già nella notte i telegiornali amplificano disorientati. Nessun cardinale ha mai detto in una pubblica cerimonia, in un rito liturgico, con altrettanta chiarezza, la violenza della Modernità sul cattolicesimo, senza per questo trattare la resa e cercare di conciliare tale nichilismo con la Chiesa di Roma.

Il porporato bavarese ripete nel linguaggio dell’omelia i suoi temi prediletti. Sul diritto piegato all’opinione pubblica: «Ma in quel momento [i giudici del sinedrio] subiscono l’influenza della folla. Urlano perché urlano gli altri e come urlano gli altri. E così, la giustizia viene calpestata per vigliaccheria, per pusillanimità, per paura del diktat della mentalità dominante. La sottile voce della coscienza viene soffocata dalle urla della folla».

Sull’umanesimo ateo, ha parlato da buon tedesco devoto a Dostoevskij: «L’uomo è caduto e cade sempre di nuovo: quante volte egli diventa la caricatura di se stesso, non più immagine di Dio, ma qualcosa che mette in ridicolo il Creatore. Colui che, scendendo da Gerusalemme a Gerico, incappò nei briganti che lo spogliarono lasciandolo mezzo morto, sanguinante al bordo della strada, non è forse l’immagine per eccellenza dell’uomo? La caduta di Gesù sotto la croce non è soltanto la caduta dell’uomo Gesù già sfinito dalla flagellazione. Qui emerge qualcosa di più profondo, come Paolo dice nella lettera ai Filippesi: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-8). Nella caduta di Gesù sotto il peso della croce appare l’intero suo percorso: il suo volontario abbassamento per sollevarci dal nostro orgoglio. E nello stesso tempo emerge la natura del nostro orgoglio: la superbia con cui vogliamo emanciparci da Dio non essendo nient’altro che noi stessi, con cui crediamo di non aver bisogno dell’amore eterno, ma vogliamo dar forma alla nostra vita da soli. In questa ribellione contro la verità, in questo tentativo di essere noi stessi dio, di essere creatori e giudici di noi stessi, precipitiamo e finiamo per autodistruggerci. L’abbassamento di Gesù è il superamento della nostra superbia: con il suo abbassamento ci fa rialzare. Lasciamo che ci rialzi. Spogliamoci della nostra autosufficienza, della nostra errata smania di autonomia e impariamo invece da lui, da colui che si è abbassato, a trovare la nostra vera grandezza, abbassandoci e volgendoci a Dio e ai fratelli calpestati».
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Seguace di Dostoevskij e diffidente verso la interpretazione cattolica rinascimentale italiana che ha sempre calcato la mano sull'uomo fatto 'a immagine di Dio'. Per lui, come per tutta la cristianità nordica – artisti e letterati compresi – quella somiglianza divina si perse con l’uscita dal giardino del Paradiso: «La tradizione della triplice caduta di Gesù e del peso della croce richiama la caduta di Adamo – il nostro essere umani caduti – e il mistero della partecipazione di Gesù alla nostra caduta. Nella storia, la caduta dell’uomo assume forme sempre nuove. Nella sua prima lettera, san Giovanni parla di una triplice caduta dell’uomo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. È così che egli, sullo sfondo dei vizi del suo tempo, con tutti i suoi eccessi e perversioni, interpreta la caduta dell’uomo e dell’umanità. Ma possiamo pensare, nella storia più recente, anche a come la cristianità, stancatasi della fede, abbia abbandonato il Signore: le grandi ideologie, come la banalizzazione dell’uomo che non crede più a nulla e si lascia semplicemente andare, hanno costruito un nuovo paganesimo, un paganesimo peggiore, che volendo accantonare definitivamente Dio, è finito per sbarazzarsi dell’uomo. L’uomo giace così nella polvere. Il Signore porta questo peso e cade e cade, per poter venire a noi; egli ci guarda perché in noi il cuore si risvegli; cade per rialzarci».
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Sul cristianesimo imperante, neppure più progressista, semplicemente stucchevole, da fraticelli stolti, da pacifisti infingardi, il cardinale tedesco medita: «Sentire Gesù, mentre rimprovera le donne di Gerusalemme che lo seguono e piangono su di lui, ci fa riflettere. Come intenderlo? Non è forse un rimprovero rivolto ad una pietà puramente sentimentale, che non diventa conversione e fede vissuta? Non serve compiangere a parole, e sentimentalmente, le sofferenze di questo mondo, mentre la nostra vita continua come sempre. Per questo il Signore ci avverte del pericolo in cui noi stessi siamo. Ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio. Non siamo forse, nonostante tutte le nostre parole di sgomento di fronte al male e alle sofferenze degli innocenti, troppo inclini a banalizzare il mistero del male? Dell’immagine di Dio e di Gesù, alla fine, non ammettiamo forse soltanto l’aspetto dolce e amorevole, mentre abbiamo tranquillamente cancellato l’aspetto del giudizio? Come potrà Dio fare un dramma della nostra debolezza? – pensiamo. Siamo pur sempre solo degli uomini! Ma guardando alle sofferenze del Figlio vediamo tutta la serietà del peccato, vediamo come debba essere espiato fino alla fine per poter essere superato. Il male non può continuare a essere banalizzato…».
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Il cardinale responsabile del Sant’Uffizio grida: «Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!».
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Domani ti racconterò del Sabato santo…

domenica 5 aprile 2009

minima / Due preti
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Sull’autobus, due preti chiacchieravano fra loro in un italiano preso in prestito. Una istantanea del cattolicesimo odierno. Ambedue giovani, uno esprimeva entusiasmo per gli studi che stava facendo, voleva addirittura organizzare una tavola rotonda sull’etica di non si capiva che cosa; l’altro, più disincantato, soppesava la parola etica e con la mimica dello scocciato dalle mode le toglieva l’alone magico. Aggiungeva: «io non ne posso più di studiare». Era impegnato in una parrocchia. Quello tutto studi e morale in voga raccontava di non possedere più un telefonino, «meglio così, una scelta meno consumistica», scandiva sorridendo. Il più pratico ricordava allora che con il mestiere di parroco non si può fare a meno di comunicare tutti i giorni e con tutti. «E bisogna lasciarlo acceso anche di notte, se c’è qualcuno che muore… ».
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I medici, anche psichiatri, staccano il collegamento con i loro pazienti. Ma c’è chi nel sonno si tiene pronto a uscire dal letto per accorrere nella casa del moribondo. Non deve arrivare con un medicinale o con un apparecchio meccanico per constatare la disfunzione fisica in cambio di una parcella, bensì aiutare a morire. Un’espressione che recentemente ha cominciato a prendere tutt’altro significato. Ma il parroco viene a dare forza con la presenza, le parole di speranza, il sacramento. Pronto ad ascoltare i peccati di una vita di chi magari si è deciso a vuotare il sacco negli ultimi istanti, e guai a lasciarlo con il rimorso per un lieve ritardo. Assistere gli umani nell’ora suprema, accompagnandoli alla soglia del trapasso misterioso fin dove è possibile, rappresenta una singolare esperienza. Nei consueti elenchi giornalistici sui personaggi della notte, dai poliziotti alle prostitute, questi speciali assistenti, queste figure davvero eccentriche, non vengono mai menzionati. Ricordiamocene quando busseranno per la benedizione pasquale, sfidando i sorrisini ironici di molti che richiudono subito la porta.

giovedì 2 aprile 2009

minima / Protettori senza porpora
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Si è aperta a Villa Medici una mostra di opere di François Marius Granet (1777-1849), decine di immagini di Roma rifratte in altrettanto luminosi olî su carta – frutto di studi quotidiani e rigorosi – che a loro volta risultavano specchi della caotica situazione delle nubi nel cielo marzolino del giorno di inaugurazione, con improvvisi passaggi verso trasparenze sorprendenti. Questo amico e sodale di Ingres si ingegnò soprattutto a carpire la luce della città e dei suoi dintorni quando si posava sulle chiese e sui resti della civiltà classica, una luce che aveva perduto il nitore celebrato da Winckelmann, come la messa a fuoco dell’illuminismo, per tingersi di auree tonalità metafisiche. Granet, lontano dagli strascichi culturali della Rivoluzione, considerava una vera fortuna il soggiorno nella capitale pontificia durato un quarto di secolo. Insomma, un programma di lavoro lungo una vita. Nel frattempo, faceva i suoi quadri di genere ‘storico’ che gli procuravano pane e fama. Ebbe almeno un cardinale come protettore, un committente che gli acquistò le opere solenni, mentre molte delle sue istantanee, che oggi più stimiamo (e che meritano una visita), non uscivano dall’atelier, costituivano un diario pittorico, oggetti personali dell’autore. Quasi sempre così è andata nella storia dell’arte, tante opere minori rimaste nell’ombra e fuori del mercato, che saranno apprezzate dai posteri.
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Ben due fiere del contemporaneo si aprono in queste ore a Roma, una invade addirittura il centro storico e viola la gravità dei luoghi di dolore, penetrando nel Santo Spirito (v. «Almanacco»,
Ospedali trasformati in museo). Sagre affollate di venditori, compratori, mediatori, committenti, e soprattutto critici, imbonitori, commentatori, collezionisti, divulgatori, e magari saltimbanchi, ladri e prostitute, come si conviene a simili kermesse di medioevale gusto. Mancano naturalmente le opere d’arte. Perfino nell’accezione minimalista che si dà oramai a questo termine, sono molti quelli dello staff e pochi gli oggetti. Ciascuno di essi è stato costruito con intenti commerciali, preparato apposta per essere collocato sul mercato. Niente di nuovo sotto il sole, già negli anni Venti Carl Schmitt diceva con sarcasmo: «a chiunque si avvicinasse all’arte era assicurata una fondazione o una dissertazione seminariale». Però il progresso di tali procedimenti assai grami è impressionante: tutte le stitiche operine che escono dalla fantasia dei loro autori sono messe in mostra con «un senso del risparmio tirato a lucido», quel po’ di estetico che riescono a ricavare serve solo a far denaro; nessuna scoperta riservata ai figli dei figli, semmai si interessassero alla faccenda. «Poche epoche – scriveva Jean Clair – hanno conosciuto come la nostra un tale divorzio fra la povertà delle opere prodotte e l’inflazione dei commenti che anche la più insignificante di esse riesce a suscitare». Un fracasso che, per esempio, fu risparmiato ai piccoli capolavori di Granet, sfiorati appena dallo sguardo elegante di un porporato. Ma con l’inflazione (da crisi weimeriana) di committenti e di commenti, la moneta (l’arte) perde ogni residuo valore. Ovvero, l’oro diventa denaro, biglietti di carta.