lunedì 29 giugno 2009

Arte e santità

IL 29 GIUGNO 2008, NEL GIORNO DI PIETRO E PAOLO, NASCEVA QUESTO «ALMANACCO» CHE PER UN ANNO HA RIVOLTO UNO SGUARDO CRITICO SULLE MISERIE ESTETICHE DEI NOSTRI TEMPI. ~ DOPO IL LUNGO VIAGGIO AGLI INFERI, LA «GAZZETTA DELLE ARTI» PROVA AD ALZARE GLI OCCHI SU COSE PIÙ SALDE. ~ LA MOSTRA CAPITOLINA DEL BEATO ANGELICO È UN BUON PRETESTO. ~ E RICHIAMA UNA PAGINA SACROSANTA DI HERMANN BROCH, CHE OFFRIAMO QUI IN LETTURA ~
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Volge al termine la mostra in Campidoglio del Beato Angelico, «L’alba del Rinascimento», un lavoro filologico a caccia di tavolette di piccole dimensioni, spesso inedite per il grande pubblico, in modo da documentare nelle sue molte sfaccettature e sperimentazioni l’opera dell’artista domenicano. Mostra che sarebbe stata ancor più meritoria se non l’avessero confinata in una specie di soffitta dei Musei Capitolini, angusta e male areata, ma soprattutto se non la si fosse sottoposta alle mode espositive che impongno il buio intorno e luci puntate sull’opera (con conseguenti giochi di grandi ombre per ogni testa di visitatore che si accosta alle superfici pittoriche), in questo caso fari rivolti alle pitture di un impareggiabile maestro della luce. Accende comunque la voglia di un pellegrinaggio al convento fiorentino di San Marco per un più profondo incontro e alla chiesa romana di Santa Maria sopra la Minerva per un omaggio riconoscente alla tomba del pittore proclamato beato da Karol Magno oltre che protettore degli artisti (assai opportuno supplicarlo per nuove fioriture nel nostro tempo).
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Si accende anche il desiderio di accompagnare con meditazioni verbali le ‘meditazioni visive’ di fra’ Giovanni da Fiesole. Senza magari il furore warburghiano che spinge un iconologista sul catalogo a fantasticare sulle porte socchiuse, che certo dai Vangeli a Kafka appaiono misteriose soglie (ma qualsiasi costruttore di presepi sa della maggior flagranza che un solo battente aperto suscita), piuttosto con semplici osservazioni sull’Angelico pittore delle Porte del Paradiso, da dove fuoriesce la luce dorata che si fissa in tutti i suoi quadri. L’artista ha avuto il candore e la sapienza di dipingerla, proprio con i raggi che filtrano dalle mura intorno al giardino promesso (come nel Giudizio finale di San Marco) e che fanno risplendere i corpi paradisiaci – anche i serici abiti sembrano risentirne –, esemplari dell’umanità rinascimentale: a sua immagine.
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Ci sarebbero da fare anche delle considerazioni su questa lunga riscoperta del Quattrocento italiano in pittura (Antonello e Giambellino in recenti mostre romane), l’alba del Rinascimento appunto che affronta i temi religiosi, la nascita di una modernità che commuove, il fiabesco di cui si tinge l’arte senza tempo, quindi con non pochi arcaismi esibiti, colti, come si addicono al servizio della liturgia o alla meditazioni nei conventi. Ma quando si guarda alla pittura del Beato Angelico, la sua «chiarezza mentale» e la sua cultura umanistica vengono messe da parte a maggior gloria della interpretazione mistica che tanti equivoci doveva far sorgere nei teorici e nei pittori del Romanticismo. Basti pensare agli echi distorti che susciteranno le pagine biografiche di Vasari, quasi dei fioretti domenicani: « Fu fra Giovanni semplice uomo e santissimo né suoi costumi [...]. Si esercitò continuamente nella pittura, né mai volle lavorare altre cose che di santi. [...] Aveva per costume non ritoccare, né racconciare mai alcuna sua dipintura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per creder (secondo ch’egli diceva) che così fusse la volontà di Dio. Dicono alcuni che fra Giovanni non avrebbe messo mano, se prima non avesse fatto orazione…». Risuonarono tali parole nelle schiere di romantici che avevano perduto la pratica religiosa e talvolta la stessa religione ma che si esercitarono a sperimentare quella ispirazione diretta che aveva provato il frate domenicano. L’equivoco si accrebbe massimamente quando uscì il libretto di un ventenne del primo romanticismo, Wilhelm Heinrich Wackenroder: il titolo ci suona difficile per l’uso tedesco delle parole composte: Herzensergießungen eines kunstliebenden Klosterbrudes (Sfoghi del cuore di un monaco amante dell’arte). Vi si narra di un manoscritto rinvenuto da un frate molto pio quanto addentro alle questioni dell’arte – una specie di Beato Angelico germanico – che lavorando nella biblioteca del convento scopre un manoscritto che gli rivela un episodio di natura religiosa, un portentoso miracolo: fraintendendo le parole di una autentica lettera di Raffaello Sanzio, viene fuori che il nostro massimo artista avrebbe riprodotto nelle sue opere le immagini che platonicamente il Cielo gli metteva nella testa. Allora le pagine di Vasari e il libro di Wackenroder eccitarono talmente la fantasia dei primi pittori romantici tedeschi che, invece di lavorare alla tecnica (techné, arte), si misero ad aspettare l’illuminazione divina, si sentirono sempre più degli illuminati, degli ispirati, aprendo il vaso di Pandora delle ambizioni dell’artista moderno. Spuntava il sacerdote di una nuova religione, nasceva la confraternita dei Nazareni, che abitavano i conventi svuotati dei veri frati dalle truppe napoleoniche, come fossero un ordine moderno, quello artistico appunto. Heinrich von Kleist non aveva fatto in tempo a vedere la nascita del movimento dei Nazareni però ne aveva sentito nell’aria il prossimo arrivo e lo aveva combattuto con un racconto esplicito, lungo appena una pagina. Brief eines Malers an seinen Sohn narra di un pittore che scrive una lettera al figlio in procinto di seguirlo nella professione. Il pover’uomo si affanna a raccomandarsi: non basta recitare le orazioni quando ci si mette al cavalletto perché esca fuori un bel quadro (e il riferimento diretto è alle testimonianze di Vasari sull’Angelico). Il pittore di Kleist ritiene che i risultati dell’arte provengano dal lavoro umano, dall’abilità, dal talento, dalla mano. Il padre raccomanda al figlio di baciare una ragazza in una notte d’estate e mettere al mondo una creatura che «si arrampichi tra cielo e terra» perché questa è la volontà di Dio. Il giovane Werther di Goethe è invece un pittore – ma in genere chi legge il romanzo non ci fa granché caso, quasi non se ne accorge – che si consuma nei tormenti di una ascesi a misura delle sue fantasie, alla ricerca disperata di una ispirazione che al posto delle opere produce la morte dell’artista.
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Eppure, prima dell’obnubilamento romantico, prima delle esaltazioni teoriche – da Rio a von Rumohr –, prima dei Nazareni e dei Preraffaelliti, la Via pulchritudinis e la Via della santità potevano essere sentieri che talvolta s’incrociavano, non certo una medesima strada. L’arte era un mestiere (difficile) che si apprendeva nelle botteghe non nei conventi. Il Beato Angelico fu un artista che decise di entrare nei domenicani e di mettere al servizio del suo ordine la tecnica faticosamente appresa. C’è una grande e bella differenza tra un pittore cattolico e un monaco iconografo orientale. L’aureola sta intorno alle teste dei santi raffigurati, non intorno alla raffigurazione. Questa sarà sacra per contenuto, consacrata per benedizione, per miracoli magari esercitati dalla effigie, non per la qualità pittorica, non per arte. Si costruiscono dei santuari intorno a immagini rozze mentre difficilmente càpita di segnarsi riverenti davanti alla Trasfigurazione di Raffaello.
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La Chiesa cattolica ha accolto le immagini nella sua liturgia, non si è posta come arbitro della artisticità di queste immagini (niente a che vedere con lo Stato bolscevico che voleva stabilire l’autenticità dell’arte di un’opera sulla base del buffo dogma del ‘realismo socialista’). Tant’è che ha accettato nelle sue pinacoteche come nei sacri palazzi vaticani la pittura profana e spesso pagana. Di questa apprezzando soprattutto la positività verso il mondo, la contemplazione beata del creato, all’opposto dunque dell’atteggiamento di dannazione che la gnosi ha sempre mostrato verso l’opera di un preteso demiurgo malvagio.
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Nell’epoca degli estetismi e dei disordini spirituali oltre i limiti del ridicolo, una pagina di Hermann Broch ci aiuta nelle distinzioni. Tratta dall’opera Hofmannsthal und seine Zeit, scritta nell’esilio americano raccogliendo i ricordi della Vienna splendente, riflette sulla «cultura cattolica» di Hofmannsthal, sottolineando come la magnificenza della religione romana lo abbia tenuto lontano dalle fede diffusa a quel tempo nell’arte come salvezza, nell’arte come Ecclesia, nell’arte addirittura come superamento della morte. Broch, ebreo convertitosi al cattolicesimo senza particolare entusiasmo al momento del matrimonio con un’aristocratica (ma poi approfondì gli studi religiosi, dedicandosi soprattutto ai Padri della Chiesa), racconta dello scrittore viennese Hugo von Hofmannsthal, cattolico di lontane origini ebraiche, del signore scettico che promuoveva l’ossimoro della Konservative Revolution, accenna al «cerimoniale ecclesiastico il cui fastoso rituale così ricco di simboli dovette certamente lasciare un’impronta molto profonda sul ragazzo ipersensibile e ricettivo» e all’«istruzione religiosa [che] esercitò probabilmente una sua influenza; se non altro perché attraverso la vita dei santi essa toccava i problema dell’isolamento».
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«Anche a prescindere da coloro che hanno una reale vocazione alla santità – scrive Broch – i bambini indulgono spesso ad una sorta di gioco fantastico sulla santità e non di rado queste fantasie si protraggono nell’ulteriore corso della vita acquistando una consistenza e una serietà più o meno grandi: nel primo caso portano alla professione ecclesiastica; nel secondo, come in Hofmannsthal, si limitano a provocare l’ingresso in un ordine terziario affinché un giorno il proprio cadavere possa venire seppellito con la tonaca dell’ordine. Nel caso di Hofmannsthal, non si trattava però soltanto di un gioco della fantasia. Egli sapeva bene che cosa fosse realmente la santità e questo suo ingresso in un ordine laico era anche la forma più seria che egli potesse dare al suo rifiuto di perseguirla: ‘il rito costituisce l’opera spirituale del corpo’, egli dice, e la sepoltura era l’ultimo a cui affidava il suo. La santità è segregazione monacale e contemporanea dedizione al tutto sia per l’aldiqua sia per l’aldilà; è servizio nella dedizione, una dedizione peraltro assolutamente libera nell’isolamento della contemplazione e della meditazione. La santità è una grazia difficile e il giovane Hofmannsthal deve averne riconosciuta molto presto la durezza poiché vi rinunciò e si volse alla poesia».
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Léon Bloy predicava la santità come programma minimo, a cui tutti erano chiamati; i viennesi riuscivano a complicare elegantemente l’avventura paradisiaca. Ma l’importante è che in un mondo dove il poeta si crede un sacerdote e la letteratura o la pittura vengono confuse con la santità salvifica, uno dei massimi poeti espresso dall’Occidente rifiuta questa confusione dove sguazzano i mediocri. E il fido Broch lo mette in luce egregiamente. Perfino là dove l’artista moderno si chiude in eremitaggio e tenta di passare, soprattutto agli occhi scandalizzati dei borghesi, come un santo, Broch lo smaschera con precisione: «la santità supera di gran lunga il piano puramente etico; l’arte invece può al massimo sollevarsi dal piano estetico a quello etico. Quindi […] anche quando l’artista vive come un autentico santo, egli può essere definito, nel migliore dei casi, uno pseudosanto». In altre parole, l’imitazione estetica del santo non produce alcuna garanzia paradisiaca. L’ascetismo di van Gogh o di Rilke, per esempio, è una questione prevalentemente estetica. Parlando di quest’ultimo, contrapponendolo a Hofmannsthal, Broch ci dona una bella lezione. Consapevole che l’«epoca era ormai caduta in una babilonica confusione concettuale», si chiede: «a chi poteva ancora interessare la distinzione tra santità e arte? Chi poteva ancora attribuire alla parola ‘santo’ un significato preciso?». «Il disordine linguistico risaliva al diciottesimo secolo, in cui si era già cominciato a parlare di santa bellezza, di santo fuoco dell’arte». Il Romanticismo e i suoi profeti avevano originato questo scambio, Friedrich Schlegel sembrava incerto tra la missione del poeta e quella del fondatore di nuove religioni, Novalis aveva scelto la figura del poeta-sacerdote. Broch se la prende piuttosto con Schiller, che aveva contribuito «a diffondere queste iperboli enfatiche nel linguaggio comune». Priva di una definizione precisa, la parola santità veniva inflazionata proprio mentre non era più chiara neppure la religione sottesa a un simile concetto. Si arrivava quindi alla «proclamazione grottesca e blasfema della ‘santità dell’arte’, considerata come la vera religione dell’uomo moderno. All’artista non veniva peraltro attribuita la ‘santità’, ma la ‘libertà’: un altro termine che aveva ormai perduta la sua definizione».
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A questo punto il confronto Rilke-Hofmannsthal potrebbe esser trasposto nel confronto della maggior parte dei letterati e degli artisti moderni con il poeta viennese: ne verrebbe fuori l’unicità di Hofmannsthal, quel carattere eccezionale che assunse nel Novecento e che Broch prova a riassumere nella pagina che segue. La riproduciamo anche per segnare simbolicamente il primo anno di «Almanacco Romano», annunciando anzi che nei giorni a venire proveremo una lettura della storia dell’arte otto-novecentesca alla luce di queste riflessioni.
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«Hofmannsthal si differenzia nettamente da Rilke che, nella sua poesia, cerca il sacro e solamente il sacro con uno sforzo tanto più temerario (almeno dal punto di vista cattolico), in quanto volto alla redenzione di se stesso e attuato con un mezzo chiaramente non commisurato al fine e forse persino blasfemo; giacché la poesia (d’altronde irraggiungibile per Hofmannsthal in questo modo o almeno solo in questo modo) è in fondo destinata ad urtare contro l’assoluta autonomia e radicalità del poetico in sé. È possibile che Hofmannsthal sia arrivato da ragazzo alla poesia attraverso le proprie fantasticherie religiose; ma nessuno gli potrebbe attribuire questa temerarietà del sacro. Rilke, invece, che era stato ammaestrato da una sfortunata ribellione giovanile e perciò dall’esperienza di una eresia solitaria, fondata soltanto sul proprio arbitrio, si allontanò sempre più dal cattolicesimo che con il suo patrimonio di leggende gli era servito all’inizio come accessorio estetico. Hofmannsthal fu completamente estraneo allo spirito della ribellione e dell’eresia; ubbidiente alla dottrina cattolica, egli non concedeva mai alle manifestazioni dello spirito laico, e quindi anche alla poesia, l’accesso ai problemi della fede. Ligio a questo spirito di umiltà prescritto dal cattolicesimo indipendentemente dall’estensione e dalla profondità della propria personale fede cattolica, egli respinse nettamente la pseudosantità della poesia (anche se un tempo ne era stato allettato; anzi, appunto, per questo) e non avrebbe mai ammesso che essa potesse valere come un punto di partenza per la ricerca della vera santità.
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Ma non si trattava solo di questo. Hofmannsthal era anche troppo saggio, troppo acuto, troppo scettico e prudente (e anche, sotto molti aspetti, troppo viennese) per poter considerare al pari di Rilke, la poesia come un autentico mezzo di salvazione. Eppure l’impegno con cui Rilke perseguiva la santità attraverso il fenomeno estetico era molto meno solenne della valutazione scettica e tuttavia eccessiva che Hofmannsthal tributava all’arte. Insomma, mentre Rilke considerava l’arte come strumento di conoscenza valido per la conquista della fede, Hofmannsthal la riteneva un semplice rituale della conoscenza, un mero cerimoniale estetico dal cui carattere mondano occorreva accontentarsi se non ci si voleva macchiare di una messa a nudo – in definitiva sacrilega – dell’anima e dalla più sacra intimità (‘in fondo tutto ciò che si scrive è indecente’)». (Trad. italiana di Saverio Vertone, Editori Riuniti, 1981, pp. 109-114).

sabato 27 giugno 2009

A faccia a faccia con Dio


LO SPUNTO DI UN ARTICOLO GIORNALISTICO CI RIPORTA A UN CAPITOLO IMPORTANTE DELL’OPERA DI ALAIN BESANÇON SULL'ICONOCLASMO: LA PROIBIZIONE BIBLICA DELL’IDOLATRIA E IL VERO SIGNIFICATO DELL’«IDOLO» ~ COME IL DIVINO SI PORGE ALL’ORECCHIO EBRAICO E ALL’OCCHIO CRISTIANO ~
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Un articolo di Antonio Paolucci su una mostra dedicata a San Paolo, nelle celebrazioni centenarie dell’apostolo, ripropone temi su cui ci piace tornare a riflettere. «Com’era il volto di san Paolo?» – si chiede lo storico dell’arte –. «Non lo sappiamo né possiamo saperlo. Il primo secolo dopo Cristo, almeno nella parte del mondo che l’apostolo evangelizzò, è gremito di ritratti perché l’arte greco-romana era naturalistica e illusionistica. Gli artisti erano affascinati dalla rappresentazione dei caratteri fisionomici e psicologici delle persone. E infatti centinaia, migliaia di ritratti sfilano davanti ai nostri occhi quando visitiamo le grandi collezioni di statuaria antica. Sono uomini e donne, sono imperatori e generali, sono mercanti e liberti, soldati, atleti e gladiatori, coppie di coniugi che si danno la mano sul fronte dei sarcofagi, bambini e bambine che hanno lasciato prematuramente questo mondo consegnandoci, in mestizia, le loro amate sembianze. Ma il ritratto di un ebreo non lo troverete mai. Non c’è, non può esserci. La cultura ebraica era ed è rigorosamente aniconica». Questo l’incipit dell’articolo, titolato L’ebreo senza volto e pubblicato sull’«Osservatore Romano» del 26 giugno scorso. Sull’aniconicità della cultura mosaica ci interrogheremo più avanti, ma già nelle righe che seguono c’è un piccolo colpo di scena: Paolo, figlio eletto di quella cultura, ricorre alla parola eikon per parlare di Gesù Cristo. Leggiamo:
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«Era interdetta la rappresentazione dell’immagine umana. San Paolo che era giudeo di legge e di sinagoga e che deve aver fatto molta fatica a scrivere (nella prima ai Colossesi) che Cristo è eicon (‘immagine’) del Dio vivente, avrebbe considerato con repulsione la rappresentazione del suo volto. Il problema si pose fra il terzo e il quarto secolo quando una Chiesa ormai diffusa e strutturata giocò il grande e geniale azzardo che sta alla base di tutta la nostra storia artistica. Accettò e fece proprio il mondo delle immagini e lo accettò nelle forme in cui lo aveva elaborato la tradizione stilistica e iconografica ellenistico-romana. Avvenne così che Cristo buon pastore assumesse il volto di Febo Apollo o di Orfeo, che Daniele nella fossa dei leoni avesse le sembianze di Ercole, l’atleta nudo vittorioso. Ma come rappresentare Pietro e Paolo, i principi degli apostoli, le colonne portanti della Chiesa, i fondamenti della gerarchia e della dottrina? Qualcuno ebbe una idea felice. Diede ai protoapostoli le sembianze dei protofilosofi. Così Paolo, calvo, barbato, l’aria grave e assorta dell'intellettuale, ebbe il volto di Platone (o forse di Plotino) e quello di Aristotele il pragmatico terrestre Pietro che ha il compito di guidare, nelle insidie del mondo, la Chiesa professante e combattente».
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Il direttore dei Musei vaticani, di uno dei massimi tesori artistici dell’umanità, sa bene di quel «grande e geniale azzardo» che cambiò la storia dell’occidente, oltre che della pittura. Sa che l’«idea felice» di assumere l’immaginario pagano per dar forma al racconto della salvezza cristiana, prima ancora che offrire un repertorio validissimo per altri duemila anni ai massimi artisti, servì per comunicare l’anima mundi prediletta dai nostri rinascimentali, la bellezza, l’aisthesis, quel sorriso del creato che è alla base della concezione cattolica. Ma non fu indolore la scelta a favore delle immagini, tormentata anzitutto dalla selva di significati che si confondevano nelle varie lingue in cui la parola biblica si riverberò: ebraico, aramaico, greco, latino, a dire delle principali. Per chiarire queste traduzioni, leggiamo il secondo capitolo dell’Image interdite, lo studio di Alain Besançon (Fayard, 1994) che ripercorre la «storia intellettuale dell’iconoclasmo» e che apre il paragrafo dedicato alla Torah con queste parole: «Due temi si intrecciano nell’Antico Testamento, la proibizione assoluta delle immagini e l’affermazione che esistono delle immagini di Dio».
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La proibizione risuona in molte parti della Scrittura, ma la principale è quella di Esodo, 20 (4-6), perché sta come una premessa al cosiddetto Decalogo, la legge che è data a Mosè sul Sinai: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai». Se è comprensibile il divieto a raffigurare quello che sta in cielo, il divino che non si lascia impigliare nel linguaggio limitato degli umani, più difficile risulta l’interdizione a copiare il terreno, la platonica copia della copia. E intanto, mentre Mosè scendeva a rendere nota questa legge, il suo popolo convinceva Aronne a fare una statua in oro di un vitello affinché il Dio d’Israele possedesse una forma. Al di là delle questioni storiche per cui qui si mescolerebbero tradizioni diverse, noi ci atteniamo al racconto: quando Aronne ottenne «un vitello di metallo fuso, dissero: ‘Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!’». Besançon, senza distaccarsi dalle interpretazione correnti, sottolinea come il popolo non abbia cambiato divinità, non abbia peccato di infedeltà al suo liberatore, piuttosto abbia preteso una immagine di quella divinità nascosta, non potendo accontentarsi più, nel momento della massima incertezza, dell’Arca dell’Alleanza, di un segno astratto. Del resto i biblisti spiegano che il vitello, o meglio l’immagine del toro, non sostituiva la divinità invisibile, bensì si limitava a esserne il piedistallo, proprio come lo era l’Arca. Ma la confezione di un’immagine del Dio d’Israele è agli occhi di questo medesimo «Dio geloso» già un atto di apostasia.
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Mosè torna insistentemente sull’argomento, anche nelle ‘ultime disposizioni’, accennando a una spiegazione di tale proibizione solenne: «state bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate l’imagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore Iddio ha abbandonato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Voi invece, il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro, dall’Egitto, perché foste un popolo che gli appartenesse, come oggi difatti siete» (Dt, 4, 14-20). Dunque, non soltanto l’ebreo deve evitare di fabbricarsi l’immagine di qualsiasi essere, anche mortale e animale, ma deve stare ugualmente attento a non contemplare con venerazione il sole e il cielo stellato, affinché non si formi mai neanche il desiderio fugace di un culto panteistico. L’abbozzo di spiegazione resta enigmatico: poiché siete gli eletti non dovete piegarvi alle immagini, tutti gli altri popoli invece vi si sottometteranno. Dov’è il legame tra immagine e predilezione divina?
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Grande peccato sembra essere quello dell’idolatra eppure, nota Besançon, la parola idolatria non appare che nel Nuovo Testamento e la parola latreia sta a significare sia il culto degli dèi come il culto del Dio di Israele. Allora è la parola idolo che va indagata maggiormente. Qui Besançon offre un interessante elenco di significati: «La definizione di idolo (eidolon) è meno chiara. La parola greca (dei Settanta) traduce trenta nomi ebraici diversi. Il senso letterale di questi nomi chiarisce il senso che gli ebrei davano alla cosa: 'a ven, ‘vanità’, ‘niente’, ‘menzogna’, ‘iniquità’; gillulim, interpretato sia come ‘tronchi d’albero’, sia come ‘pietre arrotondate’ e, secondo i rabbini, come ‘immondizie’ ed ‘escrementi’; hevel, ‘soffio’, ‘cosa vana’; kezavim, ‘menzogne’; to evah, ‘abominio’. Un’altra serie di nomi si richiama più che all’aspetto morale a quello derscrittivo, materiale, dell’idolo: terafim, ‘amuleti portatili’ (proibiti dalla Legge); tavnit, ‘immagini di esseri viventi’ (ugualmente proibiti) ; semel, ‘statua’, ‘oggetto scolpito’; massekah, ‘metallo fuso’. La Bibbia non accorda ad alcuno di questi oggetti una natura divina, e Isaia sottolinea che gli dèi delle nazioni non sono affatto degli dèi bensì ‘delle opere di mano dell’uomo, di legno e di pietra’. Tuttavia l’uso ha dato alla parola idolo un significato stabile e preciso: esso è l’immagine, la statua o il simbolo di una divinità falsa. Bisogna insistere sull’aggettivo ‘falso’, ché altrimenti il termine perde la sua specificità e significa semplicemente immagine. Esso sarebbe allora sinonimo di eikon, di omoioma, di semeion, di imago, di species. Nel suo vero senso, ‘idolo’ implica la rappresentazione di una divinità falsa alla quale si rende il culto riservato al vero Dio».
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Dante dice con il solito nitore: «dèi falsi e bugiardi». Geremia, che Besançon tralascia di citare, ci sembra spieghi come nessun altro la falsità delle immagini divine, rassicurando il popolo ebraico con linguaggio che pare illuminista affinché non tema la potenza delle immagini, quel magico che strega sensi e coscienza: «Non imitate la condotta delle genti e non abbiate paura dei segni del cielo, perché le genti hanno paura di essi. Poiché ciò che è il terrore dei popoli è un nulla, non è che un legno tagliato nei boschi, opera delle mani di chi lavora con l’ascia. È ornato di argento e di oro, è fissato con chiodi e con martelli, perché non si muova. Gli idoli sono come uno spauracchio in un campo di cocomeri, non sanno parlare, bisogna portarli perché non camminano. Non temeteli, perché non fanno alcun male, come non è loro potere fare il bene. Non sono come te, Signore» (10, 1-6). Tutte le superstizioni umane sono messe in fuga in queste righe, l’opera degli «artisti raffinati», come si esprimerà Geremia in un passo successivo, è contrapposta a quella del Dio vivente. I trenta nomi ebraici per la parola greca 'idolo' sembrano far la loro comparsa nel passo del profeta. Quando Walter Benjamin – che pensava «in accordo con la dottrina talmudica», come disse un giorno di sé – gioisce per la perdita dell’aura con cui l’opera d’arte si è sempre mascherata fa sicuramente riferimento a queste parole profondamente ebraiche, altro che apologia del moderno.
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L’idolatria delle genti – è l’illuminante conclusione di Geremia – significa il culto del nulla. La proibizione idolatrica sottrae Israele a questo vuoto. Eppure i filosofi pagani già distinguevano: il culto va alla divinità cui si riferisce l’immagine, non alla cosa che la rappresenta. Tesi che viene ripresa senza mutarne una virgola dai teologi dell’inconodulia cristiana. Torna allora la domanda iniziale: perché l’ebraismo è così rigido nei confronti dell’immagine, perché nonostante le distinzioni dei trenta nomi, la minaccia di confondere l’idolo con l’eikon fa un deserto tutto intorno a sé? Forse perché è durissimo resistere ai culti idolatrici ed essere l’unico popolo tra le genti a non piegarsi alla divinizzazione del mondo. La storia di Israele infatti è segnata da cadute idolatriche, dal Vello di Aronne al culto cruento di Moloch. Di qui questa «severa pedagogia divina». Besançon ritiene allora che «non è in virtù della sua natura che questo Dio sia irrappresentabile, bensì in virtù del rapporto che intende intrattenere con il suo popolo». L’Antico Testamento è infatti costellato di immagini che rinviano a una presenza nascosta (dall’arcobaleno che segna la fine del diluvio al roveto ardente). «Queste epifanie sono il segno di una presenza, non sono la Presenza stessa». Di fronte ai segni epifanici Mosè si nascondeva il volto e si apprestava ad ascoltare. «Veramente tu sei un Dio che si nasconde» esclama Isaia. Insomma, secondo Besançon, l’intimità di Israele con Dio «non passa per la vista ma per l’udito, Fides ex auditu». Non a caso, la preghiera che risuona nei momenti solenni, anche di pericolo, comincia con le parole «Ascolta, Israele».
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Il Dio che andava a casa di Abramo o che si mostrava a Giacobbe, il Dio che si presenta come un interlocutore affabile degli ebrei, non viene mai descritto, si riportano però le sue parole. «Nella stilistica biblica – nota Besançon – abbondano le metafore, le immagini e tutte le figure della retorica. La bellezza divina autorizza un suo riflesso letterario». Lo stesso non vale per la sua eco figurata. Platone arrivò a condannare la scrittura perché già frutto della supremazia della vista, preferendo la parola esoterica sussurrata all’orecchio dell’aristocratico confratello; l’ebraismo celebra i rotoli scritti ma ne ascolta il suono nelle letture pubbliche e nell’infinito studio.
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L’arte sarebbe un inganno quando anticipa la visione faccia a faccia con Dio nel tempo dell’attesa, mentre nell’islam, improntato all’eterno presente, la proibizione è implicita ma in alcuna sura del Corano, sostiene Besançon, viene espresso il divieto di farsi una immagine divina. A riassumerlo in uno schema, l’ebraismo rifiuta l’immagine per troppa intimità con Dio, l’islam per troppa distanza. Quando Paolo predica allora che «Il Figlio è l’immagine del Dio invisibile» traduce il Vangelo nel più autentico ebraismo e apre le porte a una sottile iconofilia.

sabato 20 giugno 2009

minima / La tirannia dei valori
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La Newsletter di Exibart, un divulgatore ben fatto del contemporaneo, riporta in un bollettino della crisi economica, datato 19 giugno, queste illuminanti parole: «Se il mito del mercato dell’arte è da sempre la traduzione del valore culturale in valore economico, l’arte contemporanea transitata dalla speculazione alla crisi […] scopre oggi come il suo valore sia pressoché totalmente ascrivibile ad un contesto economico. E che il suo valore culturale sia per lo più illusorio e poco solido, nella migliore delle ipotesi sopravvalutato». Come rappresentare meglio, al di là del gergo da giornalismo economico, questa tirannia dei valori, secondo le parole di Carl Schmitt, che valuta e rende merci anche l’arte e Dio? Ecco finalmente qualcosa di scandaloso, una spiegazione che ridicolizza le chiacchiere tortuose di critici e curators: trattasi di una faccenda economica, un’arte per far soldi, dove l’aspetto culturale è illusorio. È quello che l’«Almanacco» ripete ogni qual volta affronta l’argomento, ma sentirlo confermato dai propugnatori del fenomeno fa un certo effetto.
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Travolti dalla crisi economica, si pongono quindi una domanda sensata, in tutta la sua grossolana concretezza («che cosa ci si ritrova per le mani?»), cui nessun teorico di questi prodotti estetici saprebbe rispondere senza suscitare sonore risate: «Sarà ma tra noti capolavori invenduti e aggiudicazioni a prezzi di due terzi inferiori all’anno scorso alzi la mano chi è in grado di stabilire almeno con approssimazione quanto valga realmente un’opera d’arte contemporanea oggi. Qual è il prezzo giusto? Al di là delle reazioni del mercato alla crisi resta questo il vero nodo da sciogliere, capire cosa ci si ritrova per le mani».

martedì 16 giugno 2009

minima / L’invasione dei Verdurin
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«La pubblica opinione, quest’eterna portinaia!»
KARL KRAUS

Povero Walter Benjamin, era convinto che soltanto il fascismo perseguisse la estetizzazione della politica – mentre il comunismo avrebbe politicizzato l’arte –, adesso quel che resta della sinistra italiana sembra confutare la sua teoria Nell’epoca della riproducibilità digitale si sono confuse le carte: la politica come 'scienza pratica’, quel «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti», come voleva l’agitatore di Treviri, si è trasformata in un cicalio salottiero (senza salotti, piuttosto saloni da barbiere) dove stabilire ciò che è più o meno elegante, in capricciosi tornei che già nel Settecento sarebbero apparsi sommamente futili. E in mancanza di grandi dame, uno stuolo di vezzosi, un Terzo stato di modaioli, discettano sulla finezza dei leaders, eccitati dalle gazzette progressiste che indossano la maschera della «morale» per tagliare e cucire sulla beltà interiore del politico. Esteti e decadenti di un teatrino grottesco dove un giornalista televisivo che gesticola come un cafone d’altri tempi affronta il problema dello «stile di questa maggioranza», un questurino che offende la lingua italiana ha l’impudenza di salire continuamente in cattedra per indicarci quando nella maggioranza viene a mancare l’esprit de finesse, dei comici grossolani dal gergo trucidissimo calcolano il tasso di signorilità dei governanti, un gruppo editoriale che ricopre il ruolo corruttore che fu della «Neue Freie Presse» (e ci vorrebbe la ferocia krausiana per trattare di questa «stampa mezzana») appoggia in nome delle buone maniere ricattatori con migliaia di scatti rubati, gli intellettuali cinici adusi a sopportare le peggiori esibizioni di arroganza dei tiranni a loro graditi – dal golpista venezuelano che mastica coca in pubblico agli sfacciati raìs levantini – si mettono a sindacare come tante principessine su gaffes e gaffeurs nostrani; c’è perfino un rapper che, stanco di riprodurre il turpiloquio da ghetto, si finge Irene Brin per esprimere la sua sensibilità offesa dal cattivo gusto del presidente. È in corso un’invasione dei Verdurin. Proprio come quei personaggi di Proust, ostentano crudeltà, gelosia, invidia sociale. Ma peggiori, se possibile, dei fedeli della «piccola tribù» parigina, sono tanto burini da prendere per oro tutto quello che viene dall’estero, a cominciare dagli articoli giornalistici di colore, i consueti «mafia & spaghetti» in tutte le varie declinazioni, che dovrebbero umiliare chi li scrive. Lo snobismo di massa, con il suo carico di ingenuità, non si rende conto che non c’è nulla di più volgare che ripetere i ritornelli sulla volgarità politica, e che sproloquiare di cultura è già una ferita mortale per la cultura (Adorno).
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Quanto alla
politicizzazione dell’arte, per carità, non se ne parla neppure. Art pour l’art è ormai un tabù su cui tacere rigorosamente: tutti proni di fronte a ogni autentica trivialità purché si ammanti di quell’antico nome.

venerdì 5 giugno 2009

La Biennale dei vinti

«ARGOMENTO INSOLITO, ONOREVOLI COLLEGHI…», COSÌ ESORDIVA NELLA SUA INTERPELLANZA DEL 1949 L’ARCHITETTO FLORESTANO DI FAUSTO, DENUNCIANDO IN PARLAMENTO LA PRIMA BIENNALE VENEZIANA DEL DOPOGUERRA, QUANDO ANCHE L’ITALIA ABBANDONAVA LA SUA TRADIZIONE E SI ALLINEAVA ALLE MODE DEL NULLA
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Si inaugura a Venezia un’altra Biennale senza arte, con affollamenti di ‘artisti’ programmaticamente senza arte, benché si alternino come selezionatori funzionari di sinistra e di destra, a seconda dei governi in carica. Labili confini, giochino delle parti, la sostanza nichilista resta. E così, mentre l’ex presidente della Camera nonché rifondatore del comunismo ci informa in un libro che lui stesso è preso ormai dal terrore che la sinistra abbia perso qualsiasi senso all’alba del Terzo millennio, chi sta a destra soggiace alla egemonia culturale della parte avversa, ne rispetta i riti e i miti, al massimo li italianizza (contrapponendo i futuristi ai dadaisti, le avanguardie tricolori a quelle cosmopolite, non accorgendosi che son tutti morti, feticci di un altro mondo), crede comunque alla superstizione progressista che le immagini siano alfine superate dai segni. Il culto conformista dell’insensato è infatti ormai comune ai due schieramenti (lo scontro è confinato ai pettegolezzi servili). Due Biennali fa, un povero ministro cattolico, già sbeffeggiato nel Parlamento europeo perché non abbastanza à la page in materia di etica, dovette visitare istituzionalmente questo bordello per frigidi, passare in rassegna festoni di assorbenti, fellationes in video, papi collocati in scene di sodomia, wc bizzarri, (barzellette cioè ancora più sconfortanti di quelle raccontate dal giulivo presidente), «discettando della bassa qualità estetica» piuttosto che rifiutare la logica di simili feste pagate dall’erario. Nessuno insomma ha il coraggio di dire che «il re è nudo». Anzi, di fronte alla nuova paura, quella della crisi che avvinghia anche simili futilità estetiche, ci si conforta l’un l’altro. E ai corvi che allarmano le dame patronesse dicendo che nulla tornerà come prima, si reagisce da sinistra e da destra con magre consolazioni: siccome girano meno soldi in questo mondo, la qualità potrebbe salire... Perché mai, di grazia? Trattandosi di faccenda di marketing, con minori consumi si avranno peggiori prodotti. Del resto, finora il Contemporaneo si è affermato impressionando il pubblico con i discorsi degli imbonitori che a ogni riga ricordavano il valore monetario (si potrebbe scommettere anzi che non sia mai stato pubblicato un pezzo divulgativo senza menzionare quotazioni e milioni). Una credenza è stata installata nell’animo di ciascuno: che la bellezza del denaro sia l’unica categoria estetica valida. Ragion per cui, le ville patinate dei tycoons sarebbero i veri musei. E, nonostante la contrapposizione dei valori, tanto in voga in questi giorni, l’Anarchico etico lombardo e il massimo Creatore estetico a questo punto coinciderebbero.
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Un’amica ci ha donato una copia di un librino di un’altra èra, stampato dalla Tipografia della Camera, titolato Il decadimento spirituale e la crisi dell’arte contemporanea: si tratta di una insolita interpellanza parlamentare del 23 febbraio 1949 sulla prima Biennale del dopoguerra, quella che rinnegava ogni tradizione e cedeva genuflessa agli echi delle avanguardie già invecchiate, anche per imposizione dei vincitori anglo-americani, che oltre ad addestrarci alla democrazia politica sembravano prescriverci una impossibile democrazia nel bello e nel gusto (l’anno successivo non sarà un oscuro parlamentare, bensì Giorgio de Chirico, il maestro acclamato di tradizionalisti e avanguardisti, a organizzare nella sede della Società Canottieri Bucintoro un’Antibiennale). Documento curioso – sia per il livello della pubblica orazione, improbabile negli atti parlamentari del nostro tempo, sia per quello che denunciava – , è ormai del tutto scomparso dalla memoria; ci sembra perciò interessante riprodurlo su «Almanacco» come testimonianza di una stagione lontana, mentre si ripetono sempre uguali le cronache veneziane di scandaletti: siamo «nel tempo della minor originalità e della maggior caccia all’originalità» (Weininger).
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L’interpellante era Florestano di Fausto (1890-1965), architetto fecondissimo nella prima metà del Novecento, che operò nella basilica di Santa Croce a Roma (sua la Cappella delle Reliquie) e in tante città italiane, ma che dovette la fama ai principali edifici della Rodi del XX secolo, come alle chiese e alle scuole coraniche di Tripoli. Nel dopoguerra, Florestano di Fausto fu padre costituente e deputato nella I Legislatura, iscritto al gruppo della Democrazia Cristiana.
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Il suo discorso testimonia dello choc che una persona colta poteva ancora provare di fronte allo sgretolamento delle belle arti. Per lui non era scontato che la pittura dovesse esser messa da parte in un’Apocalisse senza figure. Aveva capito comunque quello che i patiti di tutte le perversioni estetiche attuali, i frequentatori di ogni mostra e i possessori di massicci cataloghi non hanno affatto chiaro: la radicale diversità dell’oggettistica contemporanea dalla pratica artistica.
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[Il testo è ripreso senza tagli, salvo nelle conclusioni, legate a propositi più effimeri.]
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Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa mia interpellanza del novembre scorso trae spunto dall’organizzazione e dalle conclusioni della Biennale veneziana. Peraltro essa investe un più vasto campo e un più grande argomento: il decadimento spirituale del nostro tempo, decadimento che trova la sua più evidente manifestazione nella crisi dell’arte contemporanea. Argomento insolito, onorevoli colleghi, ma non per questo ozioso, argomento che meriterebbe anzi un profondo esame dal duplice punto di vista: quello storico letterario, il quale spazierebbe troppo oltre i limiti di interesse di questa Assemblea, quello politico, che più profondamente attiene a questa sede per competenza di giudizio. Non si può comunque non lumeggiare il primo per una adeguata comprensione del secondo.
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Iniziando io debbo domandarmi: forse che nella sfera del sensibile, l’uomo di oggi, ha toccato i limiti estremi della sua capacità pensante se nella rapida disamina che andiamo a fare delle manifestazioni dell’arte contemporanea dobbiamo muovere dalla grave constatazione dell’abbandono del mondo del pensiero? Altro segno oscuro dei tempi questo inclinarsi della nostra civiltà a cedere sotto il peso della sua gloria e della sua storia, mentre l’opera di erudizione che il secolo XIX aveva suscitato dal passato avrebbe dovuto potenziare la difesa dei principi fondamentali e l’apporto delle mirabili scoperte scientifiche avrebbe dovuto largamente appagare l’aspirazione dell’uomo. Nulla di tutto questo. L’approfondirsi dell’indagine scientifica non ha giovato al consolidamento del pensiero in quanto «scienza e sapere accresciuti non si sono tradotti in civiltà».
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Alla base si invece assediato un febbrile ed insano desiderio del nuovo, e nella fretta e nel tormento che tiranneggiano il mondo, la vita non è più conquistata nei suoi misteri ora per ora, stagione per stagione, la vita non è più spesa come frutto di lenta e sapiente conquista, la vita è tristemente dissipata e distrutta senza domani e senza speranza proprio come di un dono non meritato o di un bene malamente acquisito. Ogni legame nello spazio e nel tempo è scomparso perché infranta è la saldatura tra il creato e l’uomo.
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I grandi spiriti e i grandi valori sono ormai lontani nell’esilio. L’umanità sembra veramente dannata alla sadica distruzione della sua gloria ed alla strage incontrollata di sé medesima.
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Nelle arti si è piegato a qualunque tendenza che fosse sovvertitrice del principio naturale di rappresentazione. Da ciò lo stato di profonda inquietudine nel dominio dello spirito, rivelatore per altro dell’assenza d’ogni sicuro potere creativo. Così in questa prima metà del secolo, fatta eccezione per l’architettura – la quale non può sconfinare nell’assurdo, dominata com’è dalle leggi della statica e della gravitazione – le altre arti hanno degenerato in eccessi sollecitati dal facile, quanto effimero successo e da quello stato di insensibilità cui conducono fatalmente gli artifici del cerebralismo e dello snobismo.
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Afferma Huizinga: «quando in un’unica civiltà che nel corso dei secoli si è innalzata a chiarezza e a nitidezza di pensiero e di concetto,il magico ed il fantastico vengono su oscurando la ragione tra fumo di istinti in ebollizione, quando il mito scaccia il logos e ne prende il posto, siamo alla soglia della barbarie».
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Mai, infatti, ora fu più propizia alle imprese equivoche e alle false teorie. La poesia, avulsa dal mondo del pensiero, si è risolta col surrealismo e l’ermetismo in uno sterile balbettio primordiale che spesso si affida a nostalgici accostamenti ritmici. La filosofia, dal relativismo sconfina ora nell’amara disperazione dell’esistenzialismo. La musica, dominata come è ancora dappertutto dai grandi geni del Settecento e dell’Ottocento non sente scosse le colonne del suo tempio, ma qualcosa già serpeggia nel profondo.
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Nelle arti figurative, l’indissolubile eterno rapporto con la natura fu intaccato dagli impressionisti che tentarono la prima evasione dal ciclo classico, decomponendo gli oggetti nella esasperazione della luce. I moderni, sviluppando quelle lontane premesse hanno continuato l’indagine spingendola a soluzione estreme materialistiche e geometrico-meccanicistiche, sempre tendenti alla violenta dissoluzione della integrità oggettiva.
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E così, gradualmente, in processo disgregativo, dall’assetto spirituale del mondo eccoci discesi alla soglia del disfacimento del mondo quale è agognato dall’Astrattismo.
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Questa più recente tendenza per l’insidia insita nell’ideologia (che gli hanno prestato per ragioni non precisamente etiche i suoi teorici) per la potenza della sua organizzazione di fazione e di setta, rappresenta con le altre manifestazioni di putredine, il Relativismo e l’Esistenzialismo, la più grave minaccia per la sorte stessa della civiltà e dell’arte.
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Per la prima volta – nella storia – un movimento insospettabile per la parvenza della sua natura artistica, in associazione con le sue più oscure e torbide forze negatrici, si leva a minacciare il Creato attraverso le sue manifestazioni!
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Alla Natura – che offre all’artista con le rivelazioni dei suoi chiusi misteri la libertà tutta propria al potere creativo – ed al Creato, del quale l’artista è come nessun altro partecipe diretto – viene lanciata la sfida blasfema. Si vuole infranta l’unità di concezione artistica nella quale figura e forma sono indissolubilmente associate. Si vuole piegare la figura alla forma fino alla distruzione di quella. Si vuole annientare insomma il mondo visibile per affacciarsi sull’invisibile, nella tragica solitudine del nulla: proposito folle che porta alle più allucinanti aberrazioni.
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Assai a proposito è stata ricordata la sedizione iconoclasta di Leone Isaurico, ed opportunamente si è fatto richiamo a quel Concilio di Nicea che dodici secoli or sono riaffermò solennemente il culto della Immagine. Ai Padri della Chiesa non poteva sfuggire il pericolo della mostruosa eresia nella quale sarebbe sconfinata necessariamente la immaginazione umana fuori del limite e del riferimento alla natura. Poiché solo nel rapporto fra la natura e l’uomo risiede la condizione essenziale alla gestazione del fatto artistico.
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Questo è il clima nel quale con oculata premeditazione, è nata la massima manifestazione internazionale, prima delle vicende belliche – la Biennale veneziana – la quale non poteva non risolversi nel più grave tradimento fatto all’arte in genere ed all’arte italiana in specie. Tanto io posso affermare con sicura coscienza, per la lunga tradizione e per la familiarità di vita col mondo dell’arte, e con gli artisti, nei quali l’umiliazione e lo sdegno rivelano, però, che non tutto è perduto.
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Mi scrive uno dei maggiori pittori italiani viventi: «È tutto un sistema di losco commercio, di tirannide del pensiero e del gusto, nelle mani di pochi collezionisti che formano un vasto trust, il quale ha propaggini in tutto il mondo con una schiera perfettamente organizzata di insigni scrittori di arte, di direttori di gallerie, ecc. .E noi in quest’Italia dove anche la casa colonica antica porta i segni di una logica millenaria e si fonde nell’architettura della terra e della legge umana e divina, accettiamo come nostro il canto triste del deserto».
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Taluno ha voluto adombrare il fattore politico della questione. Non sono d’accordo con costoro.la tendenza cerebrale snobistica ed il carattere antipopolare di queste manifestazioni hanno provocato sconfessione aperta dei partiti estremi e l’abbandono della setta stessa da parte di uomini di sicura coscienza eloquente davvero questa unanimità del mondo politico – nella riprovazione – tanto più eloquente se una parola ci venisse oggi dal Governo che smentisca certi suoi atteggiamenti al riguardo. Comunque, io mi riporto al fenomeno artistico, il quale, o è tale realmente (ed allora assorbe tutti gli altri fattori) o tale non è (ed allora il fattore politico non conta). Che poi i nostri innovatori abbiano fatto o continuino a fare il doppio giuoco, questa è cosa che riguarda loro solamente e gli incauti sovventori.
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È stato sottolineato anche il carattere internazionale a vasto raggio del fenomeno. E si spiega. Contro la unità cristiana (che compendia e conclude le grandi civiltà antiche) anche questa più recente sedizione chiama a raccolta i dissidenti. È anche naturale che le nazioni giovani, senza tradizione, lontane ed estranee alla grande storia e al clima mediterraneo cerchino – in affrettata ansia – una qualunque facile conquista nel campo intellettuale. Ma che l’Italia accolga, incoraggi ed alimenti tendenze che mirano soprattutto all’annientamento della sua tradizione millenaria – sua sola e vera ricchezza anche concreta – è quanto di più assurdo, di più impolitico, di più suicida si possa fare in un momento in cui tutto concorre – e in tutti i settori – ai danni dell’Italia e del suo primato spirituale!
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Una politica dell’Arte dunque? Nel senso letterale e volgare della parola – no – assolutamente. Toppo alto è il dominio dell’arte e troppo misteriose le sue vie e così vasto il suo ciclo in confronto di quello dei regimi politici, che nessun parallelismo e nessuna interdipendenza può essere stabilita. Chiediamo però con il rispetto che si deve alle supreme manifestazioni dell’intelletto, la necessaria tutela perché il mistero artistico sia veramente intangibile nella sua libera espressione, esigendo dalla democrazia, e da quella cristiana particolarmente, che non si realizzi come invece avviene, alla sua ombra, ed a spese di tutti, una politica faziosa contro l’arte, attraverso sovvenzioni e premi governativi che consacrano, tra l’altro, un riconoscimento ufficiale.
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Non farò nomi ma le elucubrazioni abortive – grottesca e crudele espressione dei nostri tempi – incoronate dai grandi premi a Venezia, indicono ad umilianti conclusioni.
Debbo anche un cenno a quella specie di baraccone dei fenomeni che a Venezia accoglieva la collezione di una eccentrica signora americana – sconcia raccolta – che, per essere esibita in questa massima fra le assise dell’arte, è stata imballata, assicurata e spedita «via aerea» a spese di questa povera Italia che deve assistere al decadimento dei suoi mirabili affreschi e delle sue gallerie per insufficienza di mezzi.
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Onorevoli colleghi! Benché l’arte si estrinsechi in modi innumerevoli la via della bellezza – come quella della verità – è una solamente: o è quella tracciata da secoli di civiltà, inconfondibile; o è quella additata dalle più recenti follie che, dagli equivoci caffé di Montparnasse sono dislocate col malcostume in Italia, dilagando in inconcludenti polemiche letterarie che presumono di sostituire la «parola» all’«opera», riflettendo la tragica carenza spirituale di questi tempi manifesta già nel concludersi negativo di troppe effimere esperienze artistiche che il moto dissolvente della guerra ha accelerato. Concludersi negativo, senza appello, come indicava la logica, quando con la formula della «evasione» gli intellettuali senza pace e gli artisti senza fantasia avevano creduto di sottrarci agevolmente dal concetto di limite per giungere al dissolvimento della personalità e della individualità, in quanto essenziali alla creazione artistica. Nella collettività anonima sarà agevolata l’impostazione tirannica dell’assurdo e del crimine.
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È proprio il clima nel quale si può impunemente affermare che «non è positivo creare ma positivo è distruggere», asserzione sanguinante ed inaudita dopo la esperienza di dolore e di pianto sofferta. È il clima nel quale – alludendo alle grandi epoche – si parla di «superamento di una screditata nozione per una più certa e vivente realtà» da ricercare coi metodi di queste scellerate ideologie nichiliste, le quali esasperano già il movimento dissolvitore di quella civiltà, nella quale l’uomo è al centro del Creato, immagine riflessa del Creatore.
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Ma intanto? Nella babele si levano voci di soccorso e di luce. Un gruppo di artisti triestini mi scrive: «in una riunione di amore verso l’Italia abbiamo commentato il tormentoso vagare dell’artista nella ricerca del vero»; e chiede «che una parola sgorga e si divulghi dal massimo consesso d’Italia e che sia fonte di sano sviluppo dell’arte». Da questo massimo consesso noi dovremmo onestamente ammonire che una nuova, più perniciosa ideologia è entrata – per le insospettate vie dell’arte – ad alimentare la già aspra lotta delle opposte ideologie politiche, che straziano il Paese, sbarrando il cammino alla ricostruzione.
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La responsabilità di questo stato di anarchia, nel dominio dell’arte, si perdono nel labirinto burocratico, per quella deprecata mancanza di un organismo unitario, coordinatore e graduatore dei vari interessi, al quale ho fatto cenno troppe volte, per tornare inutilmente sull’argomento.
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Intanto, con le arti figurative, vanno anche alla deriva il teatro, la musica, il cinema ed il turismo. Gravi, quindi, le responsabilità di governo per le mancate riforme strutturali che imponevano anche l’eccezionale situazione del dopo guerra.
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E mi avvio a concludere […]. Gli aspetti costruttivi e sereni della vita umana nelle manifestazioni del lavoro, della gioia e del dolore, gli aspetti mutevoli e festevoli della natura si riveleranno nuovamente ancora all’artista attraverso alla riconquistata gioia del colore e della forma – forse, chissà, in un nuovo grande «umanesimo cristiano e sociale». Riaffermata insomma la ferma fedeltà alle nostre origini, alla nostra tradizione ed alla nostra civiltà, noi avremo riavviata fra la terra e il cielo quella operante comunione nella quale l’umano e il divino si integrano in prodigiosa armonia.
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E l’arte, rientrata nella grande via solare mediterranea che passa per Atene e per Roma, riprenderà la sua sacra ed eterna missione, quella di rispondere, come essa solamente può, alla angosciosa ed insopprimibile istanza dell’uomo! (Applausi).

mercoledì 3 giugno 2009

minima / Modesta proposta alle autorità cittadine
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Rainer Maria Rilke, pur non amando Roma particolarmente, scriveva in una lettera del 1903: «Acque infinitamente piene di vita entrano per gli antichi acquedotti nella grande città e danzano nelle molte piazze su bianche tazze di pietra e si spandono in ampi bacini e scrosciano il giorno e alzano il loro scroscio la notte, che qui è grande e stellata e tenera di venti».
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Nella città delle fontane, quella misera vaschetta costruita da Meyer accanto alla teca dell’Ara Pacis è una vera provocazione, indegna del più oscuro villaggio Usa. Dal momento che in questi giorni, nelle discussioni mediatiche seguite agli scarabocchi sull’intonaco dell’ecomostro di piazza Augusto Imperatore – con tanto di polizia scientifica che mai si mobilitò per gli scempi di facciate rinascimentali e barocche – si è capito come l’idea di demolirlo sia lontana e troppo costosa, proviamo ad avanzare alle autorità cittadine questa modesta proposta: blocchino il flusso idrico in quella penosa fontanella, cancellino gli zampilletti mosci buoni per il pediluvio en plein air di turisti accaldati, trasformino quel quadrato marmorizzato in un chiosco per informazioni o in un parcheggio di motorini ma, anche per rispetto del Valadier di fronte, non lo accreditino più come architettura delle acque. Sarebbe una demolizione che eliminerebbe una bruttura strepitosa, e senza richiedere un euro.