lunedì 29 giugno 2009

Arte e santità

IL 29 GIUGNO 2008, NEL GIORNO DI PIETRO E PAOLO, NASCEVA QUESTO «ALMANACCO» CHE PER UN ANNO HA RIVOLTO UNO SGUARDO CRITICO SULLE MISERIE ESTETICHE DEI NOSTRI TEMPI. ~ DOPO IL LUNGO VIAGGIO AGLI INFERI, LA «GAZZETTA DELLE ARTI» PROVA AD ALZARE GLI OCCHI SU COSE PIÙ SALDE. ~ LA MOSTRA CAPITOLINA DEL BEATO ANGELICO È UN BUON PRETESTO. ~ E RICHIAMA UNA PAGINA SACROSANTA DI HERMANN BROCH, CHE OFFRIAMO QUI IN LETTURA ~
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Volge al termine la mostra in Campidoglio del Beato Angelico, «L’alba del Rinascimento», un lavoro filologico a caccia di tavolette di piccole dimensioni, spesso inedite per il grande pubblico, in modo da documentare nelle sue molte sfaccettature e sperimentazioni l’opera dell’artista domenicano. Mostra che sarebbe stata ancor più meritoria se non l’avessero confinata in una specie di soffitta dei Musei Capitolini, angusta e male areata, ma soprattutto se non la si fosse sottoposta alle mode espositive che impongno il buio intorno e luci puntate sull’opera (con conseguenti giochi di grandi ombre per ogni testa di visitatore che si accosta alle superfici pittoriche), in questo caso fari rivolti alle pitture di un impareggiabile maestro della luce. Accende comunque la voglia di un pellegrinaggio al convento fiorentino di San Marco per un più profondo incontro e alla chiesa romana di Santa Maria sopra la Minerva per un omaggio riconoscente alla tomba del pittore proclamato beato da Karol Magno oltre che protettore degli artisti (assai opportuno supplicarlo per nuove fioriture nel nostro tempo).
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Si accende anche il desiderio di accompagnare con meditazioni verbali le ‘meditazioni visive’ di fra’ Giovanni da Fiesole. Senza magari il furore warburghiano che spinge un iconologista sul catalogo a fantasticare sulle porte socchiuse, che certo dai Vangeli a Kafka appaiono misteriose soglie (ma qualsiasi costruttore di presepi sa della maggior flagranza che un solo battente aperto suscita), piuttosto con semplici osservazioni sull’Angelico pittore delle Porte del Paradiso, da dove fuoriesce la luce dorata che si fissa in tutti i suoi quadri. L’artista ha avuto il candore e la sapienza di dipingerla, proprio con i raggi che filtrano dalle mura intorno al giardino promesso (come nel Giudizio finale di San Marco) e che fanno risplendere i corpi paradisiaci – anche i serici abiti sembrano risentirne –, esemplari dell’umanità rinascimentale: a sua immagine.
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Ci sarebbero da fare anche delle considerazioni su questa lunga riscoperta del Quattrocento italiano in pittura (Antonello e Giambellino in recenti mostre romane), l’alba del Rinascimento appunto che affronta i temi religiosi, la nascita di una modernità che commuove, il fiabesco di cui si tinge l’arte senza tempo, quindi con non pochi arcaismi esibiti, colti, come si addicono al servizio della liturgia o alla meditazioni nei conventi. Ma quando si guarda alla pittura del Beato Angelico, la sua «chiarezza mentale» e la sua cultura umanistica vengono messe da parte a maggior gloria della interpretazione mistica che tanti equivoci doveva far sorgere nei teorici e nei pittori del Romanticismo. Basti pensare agli echi distorti che susciteranno le pagine biografiche di Vasari, quasi dei fioretti domenicani: « Fu fra Giovanni semplice uomo e santissimo né suoi costumi [...]. Si esercitò continuamente nella pittura, né mai volle lavorare altre cose che di santi. [...] Aveva per costume non ritoccare, né racconciare mai alcuna sua dipintura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per creder (secondo ch’egli diceva) che così fusse la volontà di Dio. Dicono alcuni che fra Giovanni non avrebbe messo mano, se prima non avesse fatto orazione…». Risuonarono tali parole nelle schiere di romantici che avevano perduto la pratica religiosa e talvolta la stessa religione ma che si esercitarono a sperimentare quella ispirazione diretta che aveva provato il frate domenicano. L’equivoco si accrebbe massimamente quando uscì il libretto di un ventenne del primo romanticismo, Wilhelm Heinrich Wackenroder: il titolo ci suona difficile per l’uso tedesco delle parole composte: Herzensergießungen eines kunstliebenden Klosterbrudes (Sfoghi del cuore di un monaco amante dell’arte). Vi si narra di un manoscritto rinvenuto da un frate molto pio quanto addentro alle questioni dell’arte – una specie di Beato Angelico germanico – che lavorando nella biblioteca del convento scopre un manoscritto che gli rivela un episodio di natura religiosa, un portentoso miracolo: fraintendendo le parole di una autentica lettera di Raffaello Sanzio, viene fuori che il nostro massimo artista avrebbe riprodotto nelle sue opere le immagini che platonicamente il Cielo gli metteva nella testa. Allora le pagine di Vasari e il libro di Wackenroder eccitarono talmente la fantasia dei primi pittori romantici tedeschi che, invece di lavorare alla tecnica (techné, arte), si misero ad aspettare l’illuminazione divina, si sentirono sempre più degli illuminati, degli ispirati, aprendo il vaso di Pandora delle ambizioni dell’artista moderno. Spuntava il sacerdote di una nuova religione, nasceva la confraternita dei Nazareni, che abitavano i conventi svuotati dei veri frati dalle truppe napoleoniche, come fossero un ordine moderno, quello artistico appunto. Heinrich von Kleist non aveva fatto in tempo a vedere la nascita del movimento dei Nazareni però ne aveva sentito nell’aria il prossimo arrivo e lo aveva combattuto con un racconto esplicito, lungo appena una pagina. Brief eines Malers an seinen Sohn narra di un pittore che scrive una lettera al figlio in procinto di seguirlo nella professione. Il pover’uomo si affanna a raccomandarsi: non basta recitare le orazioni quando ci si mette al cavalletto perché esca fuori un bel quadro (e il riferimento diretto è alle testimonianze di Vasari sull’Angelico). Il pittore di Kleist ritiene che i risultati dell’arte provengano dal lavoro umano, dall’abilità, dal talento, dalla mano. Il padre raccomanda al figlio di baciare una ragazza in una notte d’estate e mettere al mondo una creatura che «si arrampichi tra cielo e terra» perché questa è la volontà di Dio. Il giovane Werther di Goethe è invece un pittore – ma in genere chi legge il romanzo non ci fa granché caso, quasi non se ne accorge – che si consuma nei tormenti di una ascesi a misura delle sue fantasie, alla ricerca disperata di una ispirazione che al posto delle opere produce la morte dell’artista.
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Eppure, prima dell’obnubilamento romantico, prima delle esaltazioni teoriche – da Rio a von Rumohr –, prima dei Nazareni e dei Preraffaelliti, la Via pulchritudinis e la Via della santità potevano essere sentieri che talvolta s’incrociavano, non certo una medesima strada. L’arte era un mestiere (difficile) che si apprendeva nelle botteghe non nei conventi. Il Beato Angelico fu un artista che decise di entrare nei domenicani e di mettere al servizio del suo ordine la tecnica faticosamente appresa. C’è una grande e bella differenza tra un pittore cattolico e un monaco iconografo orientale. L’aureola sta intorno alle teste dei santi raffigurati, non intorno alla raffigurazione. Questa sarà sacra per contenuto, consacrata per benedizione, per miracoli magari esercitati dalla effigie, non per la qualità pittorica, non per arte. Si costruiscono dei santuari intorno a immagini rozze mentre difficilmente càpita di segnarsi riverenti davanti alla Trasfigurazione di Raffaello.
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La Chiesa cattolica ha accolto le immagini nella sua liturgia, non si è posta come arbitro della artisticità di queste immagini (niente a che vedere con lo Stato bolscevico che voleva stabilire l’autenticità dell’arte di un’opera sulla base del buffo dogma del ‘realismo socialista’). Tant’è che ha accettato nelle sue pinacoteche come nei sacri palazzi vaticani la pittura profana e spesso pagana. Di questa apprezzando soprattutto la positività verso il mondo, la contemplazione beata del creato, all’opposto dunque dell’atteggiamento di dannazione che la gnosi ha sempre mostrato verso l’opera di un preteso demiurgo malvagio.
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Nell’epoca degli estetismi e dei disordini spirituali oltre i limiti del ridicolo, una pagina di Hermann Broch ci aiuta nelle distinzioni. Tratta dall’opera Hofmannsthal und seine Zeit, scritta nell’esilio americano raccogliendo i ricordi della Vienna splendente, riflette sulla «cultura cattolica» di Hofmannsthal, sottolineando come la magnificenza della religione romana lo abbia tenuto lontano dalle fede diffusa a quel tempo nell’arte come salvezza, nell’arte come Ecclesia, nell’arte addirittura come superamento della morte. Broch, ebreo convertitosi al cattolicesimo senza particolare entusiasmo al momento del matrimonio con un’aristocratica (ma poi approfondì gli studi religiosi, dedicandosi soprattutto ai Padri della Chiesa), racconta dello scrittore viennese Hugo von Hofmannsthal, cattolico di lontane origini ebraiche, del signore scettico che promuoveva l’ossimoro della Konservative Revolution, accenna al «cerimoniale ecclesiastico il cui fastoso rituale così ricco di simboli dovette certamente lasciare un’impronta molto profonda sul ragazzo ipersensibile e ricettivo» e all’«istruzione religiosa [che] esercitò probabilmente una sua influenza; se non altro perché attraverso la vita dei santi essa toccava i problema dell’isolamento».
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«Anche a prescindere da coloro che hanno una reale vocazione alla santità – scrive Broch – i bambini indulgono spesso ad una sorta di gioco fantastico sulla santità e non di rado queste fantasie si protraggono nell’ulteriore corso della vita acquistando una consistenza e una serietà più o meno grandi: nel primo caso portano alla professione ecclesiastica; nel secondo, come in Hofmannsthal, si limitano a provocare l’ingresso in un ordine terziario affinché un giorno il proprio cadavere possa venire seppellito con la tonaca dell’ordine. Nel caso di Hofmannsthal, non si trattava però soltanto di un gioco della fantasia. Egli sapeva bene che cosa fosse realmente la santità e questo suo ingresso in un ordine laico era anche la forma più seria che egli potesse dare al suo rifiuto di perseguirla: ‘il rito costituisce l’opera spirituale del corpo’, egli dice, e la sepoltura era l’ultimo a cui affidava il suo. La santità è segregazione monacale e contemporanea dedizione al tutto sia per l’aldiqua sia per l’aldilà; è servizio nella dedizione, una dedizione peraltro assolutamente libera nell’isolamento della contemplazione e della meditazione. La santità è una grazia difficile e il giovane Hofmannsthal deve averne riconosciuta molto presto la durezza poiché vi rinunciò e si volse alla poesia».
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Léon Bloy predicava la santità come programma minimo, a cui tutti erano chiamati; i viennesi riuscivano a complicare elegantemente l’avventura paradisiaca. Ma l’importante è che in un mondo dove il poeta si crede un sacerdote e la letteratura o la pittura vengono confuse con la santità salvifica, uno dei massimi poeti espresso dall’Occidente rifiuta questa confusione dove sguazzano i mediocri. E il fido Broch lo mette in luce egregiamente. Perfino là dove l’artista moderno si chiude in eremitaggio e tenta di passare, soprattutto agli occhi scandalizzati dei borghesi, come un santo, Broch lo smaschera con precisione: «la santità supera di gran lunga il piano puramente etico; l’arte invece può al massimo sollevarsi dal piano estetico a quello etico. Quindi […] anche quando l’artista vive come un autentico santo, egli può essere definito, nel migliore dei casi, uno pseudosanto». In altre parole, l’imitazione estetica del santo non produce alcuna garanzia paradisiaca. L’ascetismo di van Gogh o di Rilke, per esempio, è una questione prevalentemente estetica. Parlando di quest’ultimo, contrapponendolo a Hofmannsthal, Broch ci dona una bella lezione. Consapevole che l’«epoca era ormai caduta in una babilonica confusione concettuale», si chiede: «a chi poteva ancora interessare la distinzione tra santità e arte? Chi poteva ancora attribuire alla parola ‘santo’ un significato preciso?». «Il disordine linguistico risaliva al diciottesimo secolo, in cui si era già cominciato a parlare di santa bellezza, di santo fuoco dell’arte». Il Romanticismo e i suoi profeti avevano originato questo scambio, Friedrich Schlegel sembrava incerto tra la missione del poeta e quella del fondatore di nuove religioni, Novalis aveva scelto la figura del poeta-sacerdote. Broch se la prende piuttosto con Schiller, che aveva contribuito «a diffondere queste iperboli enfatiche nel linguaggio comune». Priva di una definizione precisa, la parola santità veniva inflazionata proprio mentre non era più chiara neppure la religione sottesa a un simile concetto. Si arrivava quindi alla «proclamazione grottesca e blasfema della ‘santità dell’arte’, considerata come la vera religione dell’uomo moderno. All’artista non veniva peraltro attribuita la ‘santità’, ma la ‘libertà’: un altro termine che aveva ormai perduta la sua definizione».
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A questo punto il confronto Rilke-Hofmannsthal potrebbe esser trasposto nel confronto della maggior parte dei letterati e degli artisti moderni con il poeta viennese: ne verrebbe fuori l’unicità di Hofmannsthal, quel carattere eccezionale che assunse nel Novecento e che Broch prova a riassumere nella pagina che segue. La riproduciamo anche per segnare simbolicamente il primo anno di «Almanacco Romano», annunciando anzi che nei giorni a venire proveremo una lettura della storia dell’arte otto-novecentesca alla luce di queste riflessioni.
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«Hofmannsthal si differenzia nettamente da Rilke che, nella sua poesia, cerca il sacro e solamente il sacro con uno sforzo tanto più temerario (almeno dal punto di vista cattolico), in quanto volto alla redenzione di se stesso e attuato con un mezzo chiaramente non commisurato al fine e forse persino blasfemo; giacché la poesia (d’altronde irraggiungibile per Hofmannsthal in questo modo o almeno solo in questo modo) è in fondo destinata ad urtare contro l’assoluta autonomia e radicalità del poetico in sé. È possibile che Hofmannsthal sia arrivato da ragazzo alla poesia attraverso le proprie fantasticherie religiose; ma nessuno gli potrebbe attribuire questa temerarietà del sacro. Rilke, invece, che era stato ammaestrato da una sfortunata ribellione giovanile e perciò dall’esperienza di una eresia solitaria, fondata soltanto sul proprio arbitrio, si allontanò sempre più dal cattolicesimo che con il suo patrimonio di leggende gli era servito all’inizio come accessorio estetico. Hofmannsthal fu completamente estraneo allo spirito della ribellione e dell’eresia; ubbidiente alla dottrina cattolica, egli non concedeva mai alle manifestazioni dello spirito laico, e quindi anche alla poesia, l’accesso ai problemi della fede. Ligio a questo spirito di umiltà prescritto dal cattolicesimo indipendentemente dall’estensione e dalla profondità della propria personale fede cattolica, egli respinse nettamente la pseudosantità della poesia (anche se un tempo ne era stato allettato; anzi, appunto, per questo) e non avrebbe mai ammesso che essa potesse valere come un punto di partenza per la ricerca della vera santità.
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Ma non si trattava solo di questo. Hofmannsthal era anche troppo saggio, troppo acuto, troppo scettico e prudente (e anche, sotto molti aspetti, troppo viennese) per poter considerare al pari di Rilke, la poesia come un autentico mezzo di salvazione. Eppure l’impegno con cui Rilke perseguiva la santità attraverso il fenomeno estetico era molto meno solenne della valutazione scettica e tuttavia eccessiva che Hofmannsthal tributava all’arte. Insomma, mentre Rilke considerava l’arte come strumento di conoscenza valido per la conquista della fede, Hofmannsthal la riteneva un semplice rituale della conoscenza, un mero cerimoniale estetico dal cui carattere mondano occorreva accontentarsi se non ci si voleva macchiare di una messa a nudo – in definitiva sacrilega – dell’anima e dalla più sacra intimità (‘in fondo tutto ciò che si scrive è indecente’)». (Trad. italiana di Saverio Vertone, Editori Riuniti, 1981, pp. 109-114).

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