venerdì 14 agosto 2009

La musica nella eternelle cuisine

~ UNA SEDUCENTE APOLOGIA DEL RADICALISMO ESTETICO: QUANDO ADORNO, CHE ANCORA SI RICONOSCEVA NEL MATERIALISMO DIALETTICO, ERA DISPOSTO A FAR SCOPPIETTARE LA SUA PROSA DI TROVATE FELICI PUR DI SALVARE L’ARTE ‘INUTILE’ E NEGARE DALL’ORIZZONTE MODERNO LA RELIGIONE. ~ MA POI I SUOI SEGUACI PERDONO RAPIDAMENTE L’ELEGANZA CONCETTUALE E MANUALE. ~

Per parlare dei nostri temi anche con il linguaggio immediato e personale dello scambio epistolare, pubblichiamo su «Almanacco Romano» alcune emails rimaste nella memoria del computer. Questa, inviata negli Stati Uniti a una europea che lì risiedeva a quel tempo, è della primavera del 2005. Sembra una nota conclusiva alle quattro puntate sulla «Religione dell’arte».

Incantato dalle affinità tra il tuo saggio e quello prismatico di Mastro Adorno sul medesimo oggetto (aristocrazia ed ebraismo, ovvero tradizioni millenarie che si infrangono sulla modernità con maggior catastrofe dei feudalesimi europei – parvenus in confronto, con pochi secoli alle spalle –, regole rigide, etichetta come il kosher, spezzate con violenza…), ho preso in mano un altro suo libro, appena tradotto da Einaudi e immagazzinato dalla biblioteca del Goethe: Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-1965, ma il titolo originale suona semplicemente Musikalische Schriften I-III. Meno tecnico di molte sue opere giovanili sulla musica, qui addirittura si spinge «su alcune relazioni su musica e pittura», come recita il titolo del saggio che conclude la raccolta e che mi ha incuriosito. Naturalmente sulla pittura si limita a esorcizzare ogni figuratività, a dannare gli scambi (barocchi o wagneriani) tra le arti, a esaltare la simultaneità come caratteristica dei «quadri più riusciti», cioè la simultaneità come una specie di ‘specifico’ da non confondersi, si intende, con «la pittura che si atteggia a dinamica» come volevano i Futuristi, dice lui. Insomma, ancora una volta riconferma l’impressione che ricevemmo in treno, di ritorno da Vienna, leggendo il suo diario romano: il nostro pensatore sembra muoversi male tra quadri e sculture, nelle arti figurative che vorrebbe completamente aniconiche. Meglio, molto meglio, certo, quando discetta di «musique informelle», ché all’astrattezza musicale, al più noioso e penitenziale degli sperimentalismi sonori, ci si adatta con maggiore facilità che alla pittura moderna. Però, quando, ieri sera per esempio, si vede una mostra affollata e imbarazzante al Macro e la mattina seguente si leggono queste pagine adorniane, si capisce quanta responsabilità abbia avuto lui nella dissoluzione delle belle arti, senza che gli attuali dissolutori se ne rendano nemmeno più conto e soprattutto senza che i sedicenti artisti, forgiati dai filosofi tedeschi, mantengano una pur minima eleganza concettuale che ancora rendeva piacevole il discorso dei teorici quando negavano il piacere.
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A sua volta, lui faceva risalire la responsabilità (dal suo punto di vista, la gloria) dell’arte radicale al trio viennese Schoenberg, Kraus, Loos, «nemici dell’ornamento e del diletto». Al di là della bella battuta di Arbasino sulle periferie italiane prive di ornamenti e piene di delitti, andrebbe indagato meglio quella prima metà del Novecento che fece piazza pulita di ornamenti e diletti e accompagnò una simile estetica severa (i neoclassicismi totalitari) con una ideologia delle stragi: forse soltanto cittadini privi di diletto, professionisti dell’impegno totalitario, monaci dell’ascesi senza conforto religioso, potevano assegnarsi un compito tanto duro, ripulire il mondo delle sue impurità, a prescindere da ciò che dovesse intendersi per tale lavoro sporco e doloroso, noioso e plebeo, riservato a chi non conosceva le buone maniere, non badando ai fiumi di sangue, anzi inorgogliendosi grossolanamente del numero delle vittime…
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Adorno ritiene che in questa estetica ascetica (e sconsolata) rinvii in qualche modo – soprattutto nella musica di Schoenberg – alla tradizione ebraica: «nella mentalità di Mahler e di Schoenberg, maldisposta verso qualsiasi accomodamento gerarchico, si possono cogliere tracce di teologia ebraica secolarizzata». Ma quale ebraismo fu così severo verso le arti? L’aniconicità non fu forse compensata da musica impurissima, a programma ante litteram, se già David dava forma sonora con l’arpa a testi letterari, mentre la letteratura biblica poi si piegava alla volontà divina (ed extraletteraria). Quando mai l’ebraismo si perse nella spiritualità assoluta, se non nella modernità segnata dall’etica protestante-kantiana che doveva marchiare perfino il cattolicesimo…
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C’è un aneddoto, riportato nelle pagine del saggio che apre la raccolta, intitolato «Vienna» (e dedicato a una signora dall’aristocratico nome) su cui si potrebbe riflettere a lungo, soprattutto quando si visitano musei e mostre di contemporanei: «un aneddoto getta luce[…]: quando l’inesorabile Mahler fece proibire l’ingresso al palco ad un arciduca in ritardo, l’imperatore Francesco Giuseppe riconobbe sì al direttore il diritto a tale severità, ma poi chiese al primo maggiordomo Montenuovo se un’opera dovesse considerarsi una cosa così seria». Noi, educati fin dall’Ottocento da poeti ribelli e filosofi sacerdotali, ci convincemmo del diritto a tale severità, riconoscemmo come rivoluzionaria l’arte che si presentava in vesti tanto puritane, nemica acerrima delle piacevolezze feudali, della dolce vita di corte, del tintinnio dei bicchieri mentre eseguiva il piccolo Mozart, ma poi torniamo a chiederci a ogni occasione artistica se un’opera debba considerarsi una cosa così seria. Togliamo il godimento, l’erotismo che Croce bandisce (con l’esplicita approvazione di Adorno), resta il rispetto per il sacro procedimento dell’autore, per il suo lavoro spesso certosino, ma di un monaco che non si aspetta una ricompensa in Paradiso per quei suoi duri esercizi (cfr. Il gioco delle perle di vetro, del famigerato Hesse, dove, se ricordo bene, è descritta portentosamente la claustrale attività della migliore avanguardia). E neppure noi spettatori saremo premiati per avere assistito a tutte le asperità dei teatri avanguardistici, delle musiche di Darmstadt, delle installazioni di Kassel… Viene da pensare che in tale liturgia moderna appare con evidenza la sostituzione dell’arte alla religione… Allora un filosofo che ancora si riconosceva nel materialismo dialettico era disposto a far scoppiettare la sua prosa di trovate felici pur di salvare l’arte inutile e negare dall’orizzonte moderno la religione.
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Indubbiamente scintillante è la pagina seguente in cui Adorno tenta di spiegarsi l’arte radicale. Ricorre al «termine bandeln [che] non si può tradurre in un tedesco alto. Esso indica un’attività per passare il tempo, o per perderlo, che è priva di un evidente scopo razionale, ma che al contempo è assurdamente pratica; per farne un esempio: impiegare delle ore a pulire un rasoio. L’idea di fondo è un ozio occupato; ma ci vuole anche l’amorevole mania per le piccole cose che si ritrova nelle prose di Stifter. Infervorarsi per ciò che è vano e inutile è una scuola preparatoria all’arte, l’anticipazione del suo elemento tecnicamente spensierato. […] La figura del Bandler si armonizza con un modo di produzione non ancora pienamente industriale, come quello della lavorazione del cuoio…». Quante figure di Bandler nell’arte contemporanea, con sfoggio di lavorazioni di cuoio o legno o altri materiali poveri e arcaici, per costruire oggetti pienamente inutili, che si vantano di questa inutilità contrapposta al borghese mondo degli affari, alla borghese concezione del tempo come denaro, anche se poi si trasformano in manufatti di grande valore economico, autentici affari che presentano un valore aggiunto alla lavorazione artigianale che deriva proprio dalla proclamata inutilità e insensatezza dell’oggetto posto in mostra e in vendita. Adorno sorvola su un simile aspetto o lo giustifica tra parentesi: se anche gli autori dovessero arricchirsi questo non suoni condanna moralistica dell’arte moderna. Ma perché allora l’arte bella fu condannata, con furore moralistico, solo perché aristocratica, volta al passato?
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Irritato da quasi un secolo di esperimenti che non condussero a nulla, imbarazzato dalla degradazione rapidissima del gesto avanguardistico che negli epigoni si presenta decisamente e consapevolmente banale, resto tuttavia ancora oggi sedotto dalle argomentazioni con le quali Adorno fa l’apologia dell’arte radicale (e ben capisco così della attrazione giovanile per le sue parole e per le opere che a quelle si ispiravano). Nella eccitata arringa arriva addirittura a teorizzare il piacere del fare ascetico, del gusto livido, della musica antimelodica, della rappresentazione apocalittica senza figure; sull’orlo del masochismo nascosto. Se il libro mi appartenesse avrei particolarmente ornato con segni a matita le frasi che riporto: «La più paradossale di queste relazioni [con il valzer di Johann Strauss] è forse che nello stesso Schoenberg l’elemento anticulinario, ciò che si oppone al bel suono, ritrova una delle sue condizioni nella sensuale cultura viennese, in un cibo dal sapore intenso. C’è affinità tra un succulento lussureggiare della sensibilità armonica, un lasciare che i suoni si sciolgano in bocca, e il piacere della dissonanza. L’accordo viene sentito tanto più corporalmente quanto più appare profondo in sé, tridimensionale; esso incanta attraverso la sua rifrazione dissonante. Il bel suono e la dissonanza non sono semplicemente opposti uno all’altra, ma reciprocamente mediati, così come il gusto del gourmet per le leccornie giunge al limite del disgusto. Un elemento regressivo – come confermerebbe la psicoanalisi – si associa a ogni raffinatezza; il fare schizzinoso della scuola di Vienna, la sua allergia verso il banale e il logoro non è riconducibile soltanto alla categoria della ricercatezza, ideale dello Jugendstil e della Secessione, sua successiva variante viennese, ma anche a quello strato molto più antico che non è stato estirpato dai tabù della razionalità musical borghese». Diavolo di un dialettico! Niente a che vedere con i suoi allievi bigotti. D’altra parte, raramente ho letto frasi adorniane che svelano come queste un interesse ‘corporale’, con uso di avverbi che da un tale termine derivano, e curiosità da gourmets, e il procedimento hegeliano applicato all’eternelle cuisine…
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Un intelligente confondere le contrapposizioni lineari con cui vale la pena misurarsi. Come per esempio in questo splendido incipit del saggio dedicato a «Richard Strauss»: «Se Richard Strauss non ci fosse stato, da un bel pezzo la musica contemporanea non potrebbe chiamarsi nuova. Sul piano concettuale la sua opera monopolizza il termine ‘modernità’, non in senso cronologico, ma qualitativo: l’arcinoto in quanto nuovo. La sua è una musica che si alza in volo, rimanendo però non molto distante da terra; come succedeva ai tempi dei primi viaggi in mongolfiera, sa incantare la borghesia facendole credere d’essere qualcosa di più e di diverso da ciò che è». Quanto all’ultima battuta, anche a lui si potrebbe rimproverare di incantare i giovanotti senza talento dell’antiarte, facendo credere loro d’essere qualcosa di più di un artista, finché manigoldi coadiuvati più o meno da droghe si sentono autorizzati a travestirsi in maestri di etica, attraverso effimere trovate d’accatto…

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