domenica 25 ottobre 2009

minima / The Great Swindle

Fa freddo, un ottobre così invernale non si vedeva da tempo; sembrano un ricordo le ‘ottobrate romane’ che incantavano i viaggiatori stranieri. In una pagina celebre, Stendhal raccontava di come uscisse presto di casa per non soffrire lungo la via il caldo di mezzo ottobre e, una volta raggiunto il Gianicolo, si affacciasse per contemplare la città sotto un «sole magnifico» e sentire nel corpo un «delizioso tepore», accarezzando la felicità.

A Boston la settimana scorsa nevicava, in mezzo mondo c’è un’ondata di gelo. Per carità, niente di strano, sono capricci di stagione. Sennonché su questi capricci si è costruita una impresa ecologica di miliardi di dollari che potrebbe cambiare l’economia dell’Occidente. Ma nonostante gli immensi interessi in gioco, la stampa internazionale comincia a smentire timidamente la crociata di un Nobel in catastrofismo (quello degli svedesi è ormai un vero e proprio premio al contrario). D’altronde è duro annunciare le temperature tropicali quando si tirano fuori in anticipo i cappotti dagli armadi. L’altro giorno, sotto la sferza del freddo, «Le Monde» informava a tutta pagina e con un certo candore che il
surriscaldamento progressivo della Terra «segna una pausa». Comicissimo titolo, come dire: l’Apocalisse interrompe per qualche anno i suoi lavori. Forse non mancano più novantanove mesi alla fine del mondo, così come forse non moriremo a causa della pandemia influenzale prevista per questo autunno. A lungo andare, la fede in queste simulazioni scarseggerà. Chi crederà più al «grande caldo»?E al ruolo antropico?«Post-umani», diceva il linguaggio in voga, ma poi si gonfiavano i petti, convinti di mutare il corso delle stagioni, quasi si fosse tutti dei demiurghi.

C’è aria di immiserimento in giro. Non si dice miseria, il pane non manca ma lo spettacolo dei negozi senza clienti turba il mancato acquirente, non funziona più bene il sistema del consumo. Così anche l’
arricchimento progressivo del mondo sembra rimandato. Serpeggia qualche paura nei branchi dei modaioli. Anche in questo caso, la simulazione, quella estetica, perde i suoi fedeli. L’economia della cultura in tempi di vacche magre fa la figura di un norcino in un paese di vegetariani. Mondadori arriva in ritardo e pubblica il libro di un certo Donald Thompson, divulgatore di segreti economici, che si fa forte delle iperboli e spara nel titolo Uno squalo da 12 milioni di dollari. Ma ormai l’attrazione per il mondo degli affari anni Ottanta è in declino, i banchieri sono i nuovi orchi e il pubblico sempliciotto di tali traffici si allontana disgustato. Restano manuali effimeri, scritti senza vita. Uno li guarda in libreria, dà un’occhiata al risvolto e li rimette subito nello scaffale con la mano un po’ schifata.

Dei ragazzotti pieni di droga e di soldi, i Sex Pistols, fecero un film negli anni Settanta,
The Great Rock’ n’ Roll Swindle. La trama, condita con l’autoironia dei piccoli cinici, era semplicissima: storia di un successo strepitoso arriso a una band che non sapeva suonare; di loro stessi, cioè, la fabula narrava. L’astuzia consisteva nel conquistare il pubblico denunciando le manipolazioni dell’industria del successo. Si sentivano furbissimi. Stupidi, quanta boria! Il rock’n’roll era un imbroglio di poco conto in confronto alla grande truffa planetaria. «Global warming», «Contemporary Art», secondo il latinorum da call center, sono ben più portentose invenzioni per muovere capitali. La prima usa il terrore come arma di ricatto fantascientifico, la seconda usa il terrore come arma per immobilizzare e deprimere. Il mondo sarà bruttissimo, pagate per salvarlo – così il messaggio ambientale; il mondo è bruttissimo, questa non-arte è il segno del «tempo della fine», pagate per goderne – così il messaggio estetico. Piccole crepe però si aprono in tali credenze coatte.

mercoledì 21 ottobre 2009

minima / Quelle finestre su un’altra vita
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Sconfitto dal corso della storia, battuto dalle armi nemiche, il protagonista del romanzo di Roger Nimier, Les Épées (1948), raccontava di una sua evasione: «Mi sono visto di colpo nel grande museo deserto, davanti all’Angelo triste di Filippino Lippi. Il ragazzino senza età, coi capelli che gli cadono sul capo, la fronte sciupata, l’aria d’aver sprecato tutto dall’inizio, la sua grande fedeltà alla sventura, la nobiltà degli angeli vinti, tanti segni che mi hanno preso alla gola. Mi è sembrato di non poter vivere senza quelle amicizie segrete, e gli sguardi che ti aspettano dietro quelle finestre che si chiamano quadri – finestre su un’altra vita dove l’aria stessa è colorata, dove i bambini diventano di colpo angeli di Botticelli, con le narici frementi, le labbra cariche di un bacio che non scocca mai… Unico mondo carnale, mondo della nobiltà – e del dolore che non grida – mondo in cui io respiro». Per contenere il dolore che si fa fisico, che «prende alla gola», strozza le viscere, paralizza le gambe, c’è bisogno di un mondo carnale nell’arte; le astrazioni, gli estetismi essendo un prurito snervante intorno alla piaga.
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Per sopportare il dolore dell’esistenza c’è bisogno della luce dell’altra vita intravista da
quelle finestre. Altrettanto fisica. Giorni fa, su un supplemento letterario, Gianfranco Ravasi – càpita all’«Almanacco» di citarlo in due scrittarelli consecutivi – commentava la cosiddetta «Terza lettera ai Corinzi» e aggiungeva una preziosa sentenza di Verlaine che faceva poi risplendere di sostanza teologica. Ne riportiamo un passo.
«… Sulla scia della dottrina dell’incarnazione (‘il Logos divenne sarx, carne’ secondo Giovanni 1,14), per il cristianesimo potremmo ripetere – naturalmente con le varianti interpretative del caso – la celebre proclamazione di Verlaine in Jadis et naguère (Allora e ora): La chair est sainte! Il faut qu’on la vénère. La carne è santificata dall’incarnazione di Cristo, dev’essere venerata e ha come destino non la dissoluzione ma la redenzione in una creazione nuova».
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Due scrittori maledetti, Nimier e Verlaine, riecheggiano le promesse cattoliche.

mercoledì 14 ottobre 2009

minima / L’arte con l’aura
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«Poc’anzi, mentre attraversavo il boulevard in gran fretta, e saltellavo nella mota, in mezzo a questo mobile caos, dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti, la mia aureola, a un movimento brusco che ho fatto, m’è scivolata giù dalla testa nel fango del selciato. Non ho avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno sgradevole il perdere la mia insegna che non farmi fracassare le ossa. (…) E poi penso con gioia che qualche poetastro la raccatterà e se la metterà in testa impudentemente». Così parlò Baudelaire del poeta – di se stesso – che aveva abbandonato l’aureola nella metropoli moderna. Un colpo tirato alla «religione dell’arte» e ai suoi massimi rappresentanti. La misteriosa luce diffusa dietro al volto tornava a essere una esclusiva delle creature celesti.
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C’è sì una affinità tra santi e artisti, ma non nel senso della vulgata ricorrente, che striscia genuflessa davanti a chiunque traffichi con l’estetico e lo consacra; è l’ascesi piuttosto che accomuna chi è salito alla gloria degli altari e chi pena negli ateliers: una parola greca,
àskesis, che non significa ‘rinuncia’ ma ‘esercizio’, ‘pratica’. Gianfranco Ravasi ne ricorda l’etimologia nel catalogo di una mostra romana sui santi, appena inaugurata a Palazzo Venezia.
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Si intitola «Il Potere e la Grazia» e narra di due forze contrapposte. Avevamo accennato alla Croce che tempera la libertà sfrenata del Potere («Almanacco» del 26 novembre 2008): il simbolo della vittima diventa il limite per eccellenza alle possibilità dell’egoismo umano. Anche i santi sono un baluardo con il quale la Chiesa cerca di frenare l’autonomia del politico. Lo Stato, i Regni, i Poteri laici furono cristianizzati,
battezzati, attraverso queste figure di mediatori con il Cielo e con i sudditi, i sofferenti, i bisognosi. Talvolta la Grazia restò ferita atrocemente dal Potere, e si ebbero i martiri; talaltra il Potere quasi coincise con la Grazia, e fu l’epoca dei sovrani santi.
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Agiografia europea. Dopo il tentativo di unificazione carolingia, andata presto in frantumi, per secoli cadde l’oblio sull’idea di Europa, salvo tra i poeti e i pittori colti di mitologie che la tennero viva, preda di Zeus. Allora fu il termine ‘cristianità’ a coprire quell’immenso territorio dall’Atlantico agli Urali. «La cultura europea – si interrogava anni fa il cardinal Ratzinger – è la civiltà della tecnica e del commercio diffusa vittoriosamente per il mondo intero? O non è questa forse piuttosto nata in maniera post-europea dalla fine delle antiche culture europee?». Le antiche culture si nutrivano tutte della santità, la mostra va dunque al cuore dell’Europa, ci salva da quella comunità del burro e dell’acciaio, delle ‘quote latte’ e della ‘sessualità senza peccato’, che è una pacchianeria burocratica eretta a patria.
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Per fare i santi c’è bisogno della grazia, del dono divino. Sull’Europa, nonostante i costumi barbari e le stragi, si diffuse copiosamente il dono della santità. Anche il talento artistico è un dono del Cielo e sul Vecchio Continente discese come la manna; a dire il vero, soprattutto sul versante occidentale, nel mondo slavo imponendosi il pregiudizio iconoclasta bizantino che lasciò un forte segno negativo nella storia dell’arte, fino a oggi.
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Il curatore della mostra, un sacerdote, spiega con il tono omiletico del buon parroco i suoi intenti: il visitatore può
vedere i martiri, gli asceti, i mistici, i santi re e le sante regine… Non a caso abbiamo scritto che questa esposizione «narra», si propone come una epopea. Insomma, vi si chiede di fissare lo sguardo sul ‘contenuto’ dei quadri, di lasciare da parte le schede tecniche. A furia di scartabellare i pedanti cataloghi delle mostre, ci si è disabituati a vedere quello che raffigura la tela o la tavola, distratti dai problemi della forma. Il buio pesto escogitato dagli allestitori, una volta tanto, potrebbe avere una giustificazione: seguiamo un racconto oscuro che si snoda nei millenni, segnato da improvvise apparizioni luminose.
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La mostra raccoglie i santi protettori degli Stati europei, ritratti dai grandi pittori europei. Una breve storia della cultura cattolica, con testimoni prestigiosi,
endorsements, quali Caravaggio, van Dyck, van Eyck, El Greco, Guercino, Holbein, Ambrogio Lorenzetti, Mantegna, Memling, Murillo, Tiepolo, Velàzquez (tra gli eccelsi, nessuno menziona negli articoli e nei comunicati Pietro da Cortona, qui con il suo strepitoso San Michele). Soltanto il cattolicesimo può mobilitare una così eletta schiera e vantare la diffusione – attraverso la propria teologia – di una cultura delle immagini che non ha confronti sulla terra.
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Su questo stuolo di aureolati si abbatté la repressione luterana e poi calvinista, cancellazione dell’idea di santità, cancellazione dei santi dal calendario, cancellazione delle reliquie dalle chiese, cancellazioni delle immagini dei santi da ogni dove. Eppure, la storia della santità continua nonostante le censure protestanti. A cinque secoli di distanza dalla rivolta di Lutero, san Pio da Pietrelcina richiama le folle del nostro tempo. Altra questione è perché le stigmate di Francesco furono cantate dai massimi artisti, Dante e Giotto in primis, e quelle del frate del Gargano sono affidate ai pittori naïfs e al folclore.
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Una mega-mostra sui nostri mallevadori per trasformare le fantasie degli eurocrati e nutrire quelle dei popoli avrebbe richiesto maggiore audacia, dimensioni più imponenti, contributi più corali (si sono dati da fare solo gli italiani), in modo da realizzare un evento miracoloso con la collaborazione di tutti i musei, di tutti gli specialisti, di tutti i governi anche. Ci sarebbe piaciuto seguire il
santorale di Jacopo da Varagine, con centinaia di nomi che prendono forma nelle immagini dimenticate, e magari la ostensione di tutti i 1400 codici manoscritti che riecheggiarono nei secoli la Legenda Aurea, straordinario successo librario della storia antica. Con i santi chiamati a raccolta nella città santa per antonomasia, luogo della terra che rispecchia la gloria paradisiaca – questo il sogno degli artisti barocchi – con il racconto dei prodigi compiuti, delle intercessioni dall’alto e delle avventure quaggiù, delle battaglie con i diavoli, delle persecuzioni feroci, degli eroismi sublimi, dei portenti fiabeschi.
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La luce elettronica di film agiografici, su schermi collocati davanti alle tele dei pittori, fa l’effetto di una forchetta che graffia un piatto. Se proprio si volevano inserire questi documenti, per gusto smodato dei mix o per celebrare la transmedialità, c’era spazio in sale limitrofe. Quando mai una accorta padrona di casa collocherebbe sulla stessa tavola dei bicchieri di cristallo e delle posate di plastica sia pure ben disegnate? Però, nell’insieme, una bella idea. Che si formino le file di visitatori profani, che si mettano in processione.

sabato 3 ottobre 2009

minima / Caravaggio ignora Bacon. E viceversa
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Francis Bacon, prima decoratore e arredatore, folgorato poi dalla pittura di Velàzquez e di altri grandi della tradizione, pittore a sua volta, ultimo sigillo insieme a Lucien Freud della breve storia dell’arte britannica moderna inaugurata da Hogarth, ma già pencolante nella postmodernità, l’unico ancora accettato dai cultori del «contemporaneo» che ne fanno anzi un santo patrono degli «Young British Artists», Bacon – dicevamo – nelle numerose interviste concesse si lasciò andare a compilazioni di lunghe liste di artisti che lo stimolarono, magari solo in riproduzione fotografica (visto che, pur passando per Roma, mai volle entrare alla Pamphilj per osservare de visu il suo eccelso ispiratore spagnolo), ma tra i tanti citati si guardò bene dal pronunciare il nome di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio; a quei tempi del resto non era ancora un personaggio mediatico di fama mondiale, le apologie di Longhi restando magnificamente intraducibili.
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Forse ispirata dal dialogo organizzato al Metropolitan di New York tra un quadro di Bacon e il pescecane di Hirst (l’originalità difetta sempre tra i passionisti dell’originalità), la direttrice della Galleria Borghese ha collocato nelle auree stanze dei principi e dei porporati romani i quadri del desolato inglese, accompagnandoli con dei capolavori di Caravaggio che abbondano nel museo e nelle chiese di Roma, spogliate per l’occasione mondana. Il sospetto è che quello passava il suo convento e per inventarsi una mostra, per
animare il museo, ovvero per far cassa, bisognava associarlo a una star di oggi, anche se la star in questione non aveva mai mostrato il benché minimo interesse per il partner fornitogli post mortem dalla signora. Del resto vanno assai di moda le sacre conversazioni imbarazzate tra i maestri della tradizione e i caricaturisti del «contemporaneo», ma non è questo il caso, non si tratta di ludi sacrileghi, di baffetti alle gioconde di turno, bensì di una flagrante estraneità. Si voleva un accoppiamento strano e invece, perfino nei ritratti schierati sulla medesima parete, ciascuno se ne sta casto, chiuso in sé, in intransitabili frontiere.
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Nella sala dove il berniniano Enea trascina il vecchio Anchise accendendo cerebralisssime spirali nell’aria ferma, delle grandi macchie violente di una tela di Bacon sembrano turbare l’atmosfera senza tempo, ma le statue altere guardano altrove, sprezzando simili esperimenti moderni per dire con pochi e patetici mezzi della umana angoscia. Altrettanto fa la Paulette di Canova che torce il volto insensibile alle miserie estetiche britanniche. Accanto all’iconoclasta feroce, al «boia della sua stessa immagine», Caravaggio appare un nostalgico quattrocentesco – come diceva malignamente di lui Berenson –, evocando addirittura giorgionesche composizioni. Sì, c’è l’interesse ossessivo per il corpo umano, comune ai due, ma benché emergente da «un confuso abisso di tenebre», sosteneva ancora il Lituano, la figura caravaggesca risulta «cristallina come nel Mantegna». Nonostante le dure accuse di Bellori, la sua pittura risplende della migliore tradizione, conserva erotico velo alle verità della Controriforma. Bacon visse in un’epoca dei capricci elevati a dogma, di individualismi selvaggiamente disperati; nei suoi molti discorsi che accompagnavano le opere tornava insistente l’assunto, mai dimostrato, dell’uomo come assoluta futilità. Pur amandolo, Anthony Burgess parlava a questo proposito di «agonia individuale e collettiva». Subito dopo, l’autore
dell’Arancia meccanica era preso dal dubbio: «Forse non è vera arte quella che ci rinvia l’orrore dell’esistenza: molti critici sostengono che l’arte è compiuta realizzazione di una bellezza statica in forme adeguate. Invece i quadri di Bacon ci aggrediscono come manifesti di propaganda…». Il visitatore della mostra romana ne ricava pertanto una lezione sulla faglia che si è ormai aperta tra antichi e moderni. I gialli squillanti di Bacon però violentano lo sguardo, al punto che tutti i quadri stanziali della Galleria sembrano spegnersi nei loro timbri aulici, anche l’Amor sacro e Amor profano si ombra, quasi si nascondesse a occhi malati.
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Ma dove è l’intuizione acclamata nelle chiacchiere dell’inaugurazione, dove l’affinità elettiva tra i due protagonisti? Nel Lombardo scorrono languidi giovinetti e bambinelli divini, qui mancando per lo più il getto di luce che caratterizza gli altri suoi quadri, si espongono dunque corpi incerti ma erotici, frutta e fiori, delizie del creato: questa soprattutto la carnalità di cui si parla nella mostra. In quell’altro raccogliamo crittografie del dolore, tenebre e luce a neon, crocefissi anonimi battuti da flagellazioni surrealiste: con Grünewald dovrebbero confrontarsi. A meno di non volerli far confluire in un ‘barocco’ che nei due casi è aggettivo scontato quanto inconcludente, temiamo che le magiche corrispondenze si riducano al picaresco, a fenomeni secondari cioè, a letteratura scadente; a furia di emotività sparsa dappertutto si arriva al melodramma, addirittura ai segreti o ai sospetti della sessualità degli autori: associare due pittori con il cartiglio dell’omofilia è cosa cheap. Ma oggi la vita privata sembra suscitare il massimo interesse in ogni campo, ecco il frutto avvelentato di un mezzo secolo di politicizzazione forzata, di oblio dell’intimità.
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Proust fa morire beato il suo Bergotte al cospetto di un’opera di Vermeer; da ogni parete della Galleria romana, anche dai quadri più noiosi e mediocri, viene un accenno di consolazione, ma chi mai vorrebbe esalare l’ultimo respiro davanti agli scaltri contorcimenti del dandy inglese? La consapevolezza propagata dalle sue opere di essere in quanto umano una futilità metafisica non conforta granché. E a vederli in fila i feti di Bacon mostrano anzi una ‘maniera’ che tradisce l'immediatezza dell’‘urlo’, che rinvia alla serialità e alle assonanze che questa comporta con la produzione delle merci. Quei bitorzoli per esempio che caratterizzano tutti i volti ritratti, come segno di una malattia che si contagia, rivelano una certa affettazione fastidiosa. Maschere mostruosette che dovrebbero nascondere un’anima negata in partenza.
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Il quartetto cosiddetto delle dissonanze di Mozart e un quartetto di Schoenberg che fa a meno della tonalità possono essere intrecciati soltanto dai filologi in cerca di un prima e un dopo nella storia. Negli esiti restano immensamente distanti, radicalmente diversi, estranei l’uno all’altro. Così delle opere di due violenti pittori.