giovedì 31 dicembre 2009

Ricordando Berlino

~ NELLE ULTIME ORE DEL 2009, VOGLIAMO ARCHIVIARE L’ANNO DEL VENTENNALE CON UNO SCRITTO DI ALBERTO ARBASINO, UNA REQUISITORIA CONTRO I DESPOTI DEL SOCIALISMO E I LORO TANTI COMPLICI EUROPEI ~

Non siamo venditori di almanacchi, ne offriamo uno gratis, non abbiamo l’obbligo di magnificare le sorti dell’anno che verrà, anzi restiamo vagamente pessimisti. Però, proprio un ventennio fa, il 1989 riuscì bene, da meritare un Te Deum a parte: mentre si celebravano senza troppo senso critico i massacri della Rivoluzione di due secoli prima – e sui giornali progressisti italiani si accendevano insulsi dibattiti su illuminismo e bolscevismo –, il comunismo che aveva marcato il Novecento precipitava in poche settimane e spariva dall’Europa. Il 2009 cui stiamo dando l’addio in queste ore ci è sembrato scarsamente incline a ricordare il liberatorio evento. Si festeggiano anniversari d’ogni sorta, si commemora la Prima guerra mondiale, il secolo e mezzo del Risorgimento italiano, ci si ossessiona con il fascismo che appartiene a un mondo scomparso, si indaga ancora a fasi alterne sulle bombe milanesi o sull’assassinio di Kennedy, ma si evita di parlare di quella grande speranza novecentesca trasformatasi nel peggiore incubo. Da noi, nel giro di due o tre anni, l’Ottantanove fu digerito facilmente: il Male Assoluto ormai andava cercato negli ammanchi e nei profitti burocratici, ragion per cui i governanti democratici e filo-occidentali divennero i peggiori reprobi, inquisiti e insultati per sovrappiù dai comunisti con le ‘mani pulite’.

Mentre in qualche parte del mondo ancora resistono i tiranni di sinistra, a Cuba per esempio, mentre il regime di Teheran esaltato da Foucault e dai suoi emuli italiani uccide e terrorizza la popolazione, ci piace ricordare il tonfo comunista a Berlino con le parole di un eccelso letterato, Alberto Arbasino, che nella migliore tradizione civile lombarda si recò sul posto, grande inviato, per raccontare i giorni che sconvolsero il mondo. Il librino che raccoglie quegli scritti,
La caduta dei tiranni (Sellerio, 1990), non ebbe l’eco che meritava. Ne riproduciamo degli stralci per invogliare a recuperarlo e a leggerlo nella sua interezza. E per attraversare i confini temporali staccandoci dalla attualità più penosa.

«Il Popolo irrompe sulla Scena»: oggi è un titolo non più tanto da esercitazione, da Brecht direttore didattico, ma da giornale europeo ben fatto. Il regista non c’è più, un intoppo in meno. Però vedere concretamente questo irrompere, camminandoci in mezzo, a Berlino, sui marciapiedi celebrati e terribili, va superando qualunque immaginario di Fritz Lang, e discepoli o epigoni.

Nuova Oggettività? Espressionismo? Forza di uno Zeitgeist in scarpe da ginnastica?... Subito dietro quel fregio o fastigio di bandierine e jeans giovani apparsi alti e coreografici sul Muro nella televisione-spettacolo, ecco nei giorni dopo in mezzo alla strada un immenso popolo, ben più smisurato che le infinite comparse di Metropolis, uscire inverosimilmente mortificato e miserrimo da chissà quali cantine o miniere o caverne della tirannide, e invadere la ‘città’ superiore dove anche i giovinastri e le vecchiette non hanno il grigiore cinereo delle privazioni nel sottosuolo, ma il rosato-abbronzato di un’alimentazione con prosciutti e formaggi abbondanti, e delle vacanze-charter a prezzi stracciati anche per i pensionati nelle Canarie o a Creta.

I tedeschi occidentali anche biondi e lustri nel consumismo villano contro la protesta maoista o castrista e paleo-vietnamita e pro-immigrati turchi dei vecchi studenti «di piombo» non sono certamente mai stati il massimo del bell’incarnato e del benvestito; e il loro sciamare prussiano o slesiano o sassone in centro non è davvero una festa per gli occhi come un sabato italiano, fiera così colorata e peciona e allegra della vanità giovanile narcisa, anche senza shopping coatto. Ma soprattutto qui oggi sui marciapiedi berlinesi impressiona e sgomenta questa drammatica differenza di colore e di nutrizione e di ‘texture’ nella pelle e nei corpi, oltre che nell’indumento desolato e derelitto.

Questo popolo sotterraneo ‘orientale’ oppresso dai decenni del dispotismo e ridotto a «nazione inferiore» appare sbattuto e attonito ai varchi del Muro abbattuto o sui treni della metropolitana tra Friedrichstrasse (Est) e Zoo (Ovest) – pochi minuti di tragitto, molte ore ancora per controllare i fagotti e le carte – in corpi e abiti senza forma e senza colori, come negli squallori grigiastri del neorealismo strappalacrime circa gli sfollati in carri-bestiame e i sinistrati in cerca di cibo ma privi di gioia anche portando un po’ di farina a casa. […]

Altro che Nuova Oggettività. Altro che Espressionismo Rivisitato. Altro che straniamento epico, alienazione didattica, collage di protesta e denuncia. Questo lividore allibito e derelitto e non contento da rifugio antiaereo perenne, questa rassegnazione ancora avvilita di una gente resa schiava e sottoposta rispetto ai vicini di Muro – e con ingenti promesse ideologiche e pratiche non per l’al di là ma per l’al di qua, poi – con queste uscite in massa ancora passiva dalla mortificazione delle penurie si presentano come Pellizza da Volpedo nel weekend piuttosto sbigottito del Kurfürstendamm. Fiumane d’altri tempi...
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E ci riempiono magari di vergogne che dovrebbero colpire ben altri – mentre sediamo esterrefatti e inorriditi alla terrasse del Kempinski guardando l’enorme strada – come certi bambini ottocenteschi alle prese con la cioccolata innocente davanti agli spazzacamini e alle orfanelle tormentate dalla megera. Anche se i veri colpevoli sono i loro gerarchi, despoti e aguzzini e ladri ora cacciati in galera come nemici del popolo tra rivelazioni di infamie, ma a suo tempo così visitati e riveriti dalla nostra sinistra opportunista, che per quarant’anni non ha mai visto né capito niente oltre i vetri fumés delle limousines della tirannide oppure se ne fotteva proprio delle sofferenze del popolo, che sono davanti agli occhi di tutto, e non sono Cuore, sono qui.

(Aggrappati ogni sera alla televisione Ddr, la rivolta del popolo oppresso contro anche le ‘mangerie’ dei gerarchi comunisti appare anche più sensazionale che le revulsioni del 25 luglio e del 25 aprile, vissute traumaticamente nella peggiore età formativa. E le tavole rotonde – costituenti di popolo non presentazioni di libri di ministri – sembrano piuttosto assemblee di fabbriche e brigate stravolte per giusto rancore e giusta collera).

Ma che scarsa allegria, nell’avidità per gli indumenti e i cibi ammucchiati a prezzi infimi sui marciapiedi (nei negozi, non osano entrare), stralunati fra i menestrelli e ciarlatani che esibiscono i soliti giocattolini ‘d’animazione’ da Piazza Navona; e che curiosità incredula per i vetero-studenti borghesi d’altri mesi che vanno ancora lì come streghine maligne in occhialini tondi e paltò nero a contestare con accuse di consumismo i contadini e i vecchietti che contemplano con tanto desiderio e senza soldi non i testi trotzkisti predisposti per loro sui banchetti dottrinari davanti alla Freie Universität ma le arance e i jeans scartati dagli italiani, portati dagli abusivi, buttati per terra. E tanto, non arrivano a comprarli. […]

E all’ultimo piano del Ka-De-We, il vertiginoso assortimento di insaccati, affumicati, affettati, tagli di carni, dolci, coloniali, formaggi, e il foie gras fresco di Bocuse di qua e le decine di tè e caffè di Dallmayr e i dolci di Fauchon fra cui «si aggirano con avidità da drogate» le amiche miliardarie di Enzensberger che esaltano l’autenticità dei ghetti per immigrati turchi… Ma in questi giorni non vengono: al loro posto, solo frotte di volgarissimi paraculi con ostentate mignotte che si ubriacano di champagne avendo parcheggiato la Porsche sulla porta, dove una volta Auden e Isherwood passavano e ripassavano a piedi nell’alba nazi…

Ma tra le migliaia di pacchi e fagotti da fine della guerra, o guerra appena finita, che passeranno ore e ore coi portatori sdraiati per terra nella sotterranea, non si vede una sola busta con nomi di negozi o anche di supermarket. Solo, riempite fino a scoppiare di frutta o di pantaloni comprati nelle ceste sui marciapiedi, le vecchie borse e valigie a tristi fiori sintetici portate vuote e ripiegate da casa. E lo si nota con mestizia sui vagoni della metropolitana, gremiti e silenziosi e gelidi, nei vapori bianchi delle labbra e non una parola fra il passamontagna e la cuffia, ove (altro che «evviva il consumismo e la libertà») ci si additano con depressa ammirazione perfino le serre dei cavoli occidentali per gli orrendi crauti fra gli ex-giardini della «Atena sulla Sprea», e ci si stringe al petto la gomma di bicicletta appena comprata usata, e una lattina vuota da bibita forse destinata a soprammobile, fra qualche ubriacone che va avanti e indietro straparlando su di giri nel mutismo dei vagoni perché è già partito con l’alcol sottoproletario sul marciapiede ferroviario ‘Est’.

E fino a pochi giorni fa, i «responsabili per l’ideologia», attualmente in galera per furti continuati ai danni del popolo, sostenevano che si scappava di qui perché «sedotti dalla propaganda occidentale»: come se questi gruppetti di vecchiette smarrite emerse tenendosi per mano da chissà quali seminterrati in cerca di verdura fresca e Zitronen fossero abiette vittime della pubblicità di Wall Street malgrado i venerdì neri e i takeovers dei giapponesi… […]

Quanti «Liberate Angela Davis»... Nei meetings, nei titoli da noi, e proprio qui, su decine di stendardi, su decine di pennoni, lungo l’Unter den Linden e intorno all’Alexanderplatz: come fu ripetuto quello slogan, molto più di qualunque «Liberate» la Polonia e la Cecoslovacchia e l’Ungheria e la Ddr stessa e la Romania e la Bulgaria messe insieme…

Ma non vedevano proprio? Non capivano niente? Come si faceva a tornare tutti soddisfatti del «dibattito» da questi paesi europei un tempo simili a noi e non già all’Asia, con la stecca di sigarette-omaggio nel sacchettino e la bottiglia di J&B a mille lire per gli ospiti, non curanti delle sofferenze e dei bisogni, e svolgendo addirittura distinzioni fra morti e morti che sarebbero state trovate indecenti perfino da Filumena Marturano?... E magari, continuando a parlare astrattamente ancora adesso, tentando di «dare la linea» con la sufficienza della presunzione, come quando con l’intolleranza della saccenteria si ripeteva che «il paradiso è qui» senza vedere né provare «The Horror»: invece di venir qui a vedere, a toccare, a informarsi, a vergognarsi, a pentirsi o a ribellarsi, a piangere sul proprio passato o sulla propria mancanza di destino?... […]

Tra la vergogna e lo sgomento: questi due calvi di mezza età lividi e tremanti in veri stracci da officina o da stalla, frugando in borsellini da bisnonna monetine che valgono quasi niente, all’Akademie der Künste, sono evidentemente «dei nostri» o «come noi», dal momento che esaminano un catalogo di Hans Hartung, che è appena morto, e commentano un epistolario di Hermann Scherchen circa il Moses und Aron. Ma non possono comprare, evidentemente. Come se non potessimo entrare, noi, al Moma o alla Biennale perché costa troppo, e sapessimo già che difficilmente potremo permetterci, un giorno, un catalogo Electa o un buon drink. (C’è da arrossire: abbiamo in mano il grosso catalogo dell’esposizione «Kaiser Augustus und die verlorene Republik», abbiamo in tasca i biglietti per Jessye Norman alla Philarmonie stasera. Ma non arrossiranno mai invece quei nostri ex-bambini già con le mèches grigie che gemono da più di ventun anni per l’appartenenza alla borghesia di merda di mammà e papà, e in più di ventun anni non hanno mai mosso un solo ditino perché questi poveri disgraziati possano permettersi qualche Tetralogia ‘storica’ riedita in compact disc per riempire le serate a Karl-Marx-Stadt senza infilar la testa – possedendolo – nel forno a gas?). […]

«Loro stanno benissimo, lì. Loro sono contenti così». Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere, per decenni, dagli italiani e italiane di saccenteria più proterva, a proposito degli ingabbiati che osservavamo oltre il Muro; e si vedeva bene come davanti a un locale, che nessuno cercava di entrare, mentre tentavano tutti di uscire. Come del resto adesso: nessun flusso da Ovest a Est, tra le folle entusiaste di libertà lungo queste vie tante volte percorse… Ma nei due sensi, noi: sempre più carichi di imbarazzi incolpevoli, perché liberi di andare tra il Pergamon Museum e la Gemäldgalerie, e loro no. A Est? Si poteva apprendere fin troppo circa Brecht, Gorkij, e la scultura antica. E la pittura italiana e tedesca e francese, Raffaello e Rembrandt e Cranach e Watteau? Lì, a un passo, ma col filo spinato in mezzo, e ti sparano. Vuoi morire? Morire per Giorgione o per Giotto? […]

E quante volte fu autorevolmente soggiunto che la povera Bonn «senz’anima» era ormai spacciata, almeno fin dall’arrivo nella provincia italiana delle recensioni alla Ragazza Rosemarie – mentre invece i registi dell’Est, essendo sovvenzionati al 100% dallo Stato, possedevano l’interezza dello Spirito. […]

Eppure guardando questa Berlino che viene liberandosi senza domandare autorizzazioni ai ‘discorsi’ e ai ‘dibattiti’, si rimane soprattutto impressionati perché non si tratta più come (come pretendevano i feudatari e i valvassini di ieri) di «andare a lezione dalle masse», nel senso di andare a farsi ripetere dagli zombi le formule appena messegli in testa da presentatori e cantautori che magari si sono venuti a rifornire proprio qui, dalla Premiata Ditta. […]

Che cosa direbbe invece Fassbinder (dimenticato?), uscendo da una cantina di cuoio ora chiusa in Bundesallee col suo amico Armin di Regensburg (che ora non c’è più, neanche lui), a proposito dei privilegiati della quota contestativa, che finora godevano a Berlino Ovest delle sovvenzioni senatoriali per le manifestazioni alternative e le attività trasgressive, e anche esenzioni dal servizio militare e dalle imposte, tutte facilitazioni che potrebbero cessare dall’oggi all’indomani – come le esclusive aeree Pan Am e il mantenimento delle Antigoni – se la città-avamposto ridiventa metropoli-calamita, con bisogni di servizi sociali più urgenti?

Ma è mai possibile che in più di quarant’anni tanti nostri amici dei tiranni oggi smascherati e deposti e condannati non abbiano mai visto niente – niente! – né abbiano mai detto una parola di compassione e rimorso davanti alla realtà che qualunque turista imbranato poteva osservare? forse limitandosi a domandare «e il popolo?», e accontentandosi della risposta ufficiale dell’interprete «il popolo è felice, Altezza»? […]

E mai un momento di solidarietà o di ribellione, mai provato un minimo di turbamento, neanche la decenza istintiva del bambino che ha i giocattoli verso chi non ne ha? […]
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1 commento:

Anonimo ha detto...

Non conoscevo questo scritto di Arbasino, ma caso vuole che proprio in questi giorni leggessi su di una storia letteraria della DDR appena pubblicata un commento inutilmente sarcastico a questi giudizi arbasiniani. Scrive infatti l'autore, M.Sisto: «[...] basti rileggere gli articoli di Pier Luigi Battista su La Stampa o di Alberto Arbasino su Repubblica, che si ergono a giudici non solo degli scrittori tedesco-orientali, ma anche di tutti gli intellettuali italiani, dai funzionari di partito alle femministe, che a qualsiasi titolo hanno avuto rapporti con la DDR, "tutti soddisfatti, fottendosene delle soferenze e dei bisogni del popolo"». La citazione è tratta da: Michele Sisto, "L'invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR", Scheiwiller 2009 (p. 387).
Il vero titolo di questa storia letteraria, mal scritta, confusa e assai ambigua nelle intenzioni di fondo, dovrebbe esere: "Perché non possiamo non dirci comunisti, ovvero del perché gli intellettuali integrati di casa nostra si sentono orfani del muro di Berlino"