martedì 20 gennaio 2009

L'ultimo imperatore / 2

«CHE COSA HA OTTENUTO DI MEGLIO DELLA ROMA DEI PAPI IL CONTE DI CAVOUR? È SORTO UN PICCOLO REGNO UNITO DI SECOND’ORDINE, CHE HA PERDUTO QUALSIASI PRETESA DI VALORE MONDIALE, CEDENDOLA AL PIÙ LOGORO PRINCIPIO BORGHESE, UN REGNO SODDISFATTO DELLA SUA UNITÀ, CHE NON SIGNIFICA LETTERALMENTE NULLA» COSÌ PARLAVA NEL 1877 FËDOR MICHAJLOVIČ DOSTOEVSKIJ

Dal punto di vista orientale, così ostile al mondo latino (gli zar si lavavano le mani dopo avere incontrato gli ambasciatori occidentali che incarnavano la corruzione del mondo), è chiara la posta in gioco. Nel gennaio 1877, sul primo numero del suo «Diario», con il titolo Tre idee, Dostoevskij formula i tre cristianesimi che si contendono la terra in una battaglia campale. Dietro due di loro ci sono l’impero slavo e il Reich prussiano, alle spalle del cattolicesimo, invece, un’idea storica, il ricordo dell’Impero romano. Ma lo scrittore russo intravede nell’ex figlia prediletta della Chiesa, nella Francia, l’erede di quella forza politica che accompagna il cattolicesimo. Così i tre rami del cristianesimo sono ancora una tripartizione politica a cui si legano i destini dell’umanità della nuova epoca.

«Tre idee si presentano al mondo e, a quanto pare trovano una formulazione definitiva. Da una parte – al margine dell’Europa – l’idea cattolica, condannata, in attesa, in grandi sofferenze e dubbi, di sapere se debba essere o non essere, se debba continuare a vivere o se non sia arrivata la sua fine. Io non parlo solo della religione cattolica, ma di tutta l’idea cattolica, del destino delle nazioni che si sono formate secondo questa idea nel corso di un millennio e ne sono permeate. In questo senso la Francia, per esempio, sarebbe la più piena incarnazione dell’idea cattolica, nel corso di secoli, alla testa di questa idea, ereditata, s’intende, dai romani e secondo il loro spirito. Questa Francia, che adesso ha perfino perduto, quasi tutta, qualsiasi religione (gesuiti e atei sono qui la stessa cosa), che ha chiuso più di una volta le sue chiese ed ha piegato una volta alla votazione di una assemblea perfino Dio, questa Francia che ha sviluppato dalle idee del 1789 un suo proprio socialismo, cioè l’acquietamento e l’organizzazione della società senza Cristo e fuori di Cristo, come voleva, ma non seppe, organizzarla in Cristo il cattolicesimo, questa stessa Francia anche nei rivoluzionari della Convenzione e nei suoi atei, e nei suoi socialisti, e nei suoi attuali comunardi, è ancora e continua a essere al massimo grado una nazione cattolica in tutto e per tutto, contagiata dallo spirito e dalla lettera cattolici, e proclama con le labbra dei suoi più duri atei: Liberté, Égalité, Fraternité ou la mort, cioè proprio ciò che proclamerebbe il papa, se fosse costretto a formulare una liberté, égalité, fraternité cattolica, col suo stile, il suo spirito, l’autentico stile e spirito del papato dei secoli di mezzo. Lo stesso attuale socialismo francese – a quanto pare, ardente e fatale protesta contro l’idea cattolica di tutti gli uomini e di tutte le nazioni tormentati e soffocati, desiderosi di vivere e continuare vivere a qualunque costo senza il cattolicesimo e i suoi dèi, questa stessa protesta, cominciata di fatto dalla fine del secolo scorso (ma in sostanza molto prima) – non è altro che la più fedele e costante continuazione dell’idea cattolica, il suo più pieno e definitivo compimento, la sua conseguenza fatale, elaboratasi nei secoli. Perché il socialismo francese non è altro che l’unione forzata dell’umanità: un’idea che deriva dall’antica Roma e si è conservata interamente nel cattolicesimo. In tal modo l’idea della liberazione dello spirito umano dal cattolicesimo si è rivestita proprio delle più strette forme cattoliche prese in prestito nel cuore stesso del suo spirito, nella sua lettera, nel suo materialismo, nel suo despotismo, nella sua moralità». (Fëdor M. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, Firenze, 1963; gennaio 1877, pp.723-724).

Questa dunque la parte cattolica e il suo referente politico, comunque camuffato da laico. Va notato almeno che Dostoevskij chiama senza mezzi termini materialista la dottrina cattolica e allude al fatto che la sua morale discende dal dispotismo classico, opposto dunque al cristianesimo degli slavi. Di quale altra religione si dice che è materialista? Neppure per le forme più carnali del paradiso coranico si arriva a tanto, neppure per gli antichi paganesimi che hanno il culto degli dèi bugiardi. Soltanto per l’ebraismo, per l’ebraismo moderno, ‘talmudico’ (come si dice da parte cristiana per contrapporlo a quello mosaico, biblico) si ricorre alla medesima, dura, condanna: materialista (forse un simile atteggiamento diffuso deriva anche dalla critica di Jacobi e Fichte a Spinoza...). Ci sarà poi, lo si vedrà più avanti nella terza puntata, chi mette assieme queste due religioni, attribuendo il filo rosso del materialismo al cristianesimo ebraico contrapposto a quello paolino. Dalla parte di Paolo, naturalmente, ci sarebbe la spiritualità ‘germanica’, già prima di Lutero. Sarà un Leitmotiv della nuova ideologia ‘ariana’, il cristianesimo che si identifica con un popolo, anzi con una razza, come in qualche modo sembra accadere anche nell’ortodossia slava. I due spiritualismi che vogliono la rivincita contro l’oppressione ‘materialista cattolica’ che ha conculcato la libera immaginazione dei Giordano Bruno, che ha inquisito la fantasia scatenata degli artisti, che ha legato l’anima al corpo.

«Insorge il vecchio protestantesimo, che protesta contro Roma già da diciannove secoli, contro la sua idea universale di dominare l’uomo su tutta la terra, e moralmente e materialmente, contro la sua civiltà, fin dai tempi di Arminio e della Foresta di Teutoburgo. È questo il Germano, il quale crede ciecamente che solo in lui sia il rinnovamento dell’umanità e non nella civilizzazione cattolica. [...] adesso, con la disfatta della Francia, della più avanzata, importante e cristiana nazione cattolica, avvenuta cinque anni fa, il Germano è sicuro del suo trionfo totale e del fatto che nessuno può stare invece di lui alla testa del mondo e della sua rinascita. Egli crede in ciò superbamente e fermamente, crede che non vi sia null’altro al mondo più alto dello spirito e del verbo tedesco e che soltanto la Germania può pronunciarlo» (p.724). Si riferisce probabilmente a Hegel ma le ultime battute andrebbero bene anche per alcuni filosofi del Novecento. Come già nelle sorprendenti Note invernali su impressioni estive, Dostoevskij dimostra una rara bravura nell’intuire le caratteristiche e i destini dell’Europa moderna.

C’è infine l’idea slava, il cristianesmo che è la speranza di Dostoevskij: «L’idea slava il Germano la disprezza come disprezza quella cattolica, con la differenza soltanto che quest’ultima egli la valutò sempre come un nemico forte e potente, ma l’idea slava non soltanto non l’ha apprezzata, ma non l’ha riconosciuta mai fino all’ultimo momento. Da qualche tempo però egli comincia a guardar di sbieco molto sospettosamente gli slavi [...] Effettivamente ad Oriente s’è accesa e brilla di una luce inaudita e mai vista la terza idea mondiale, l’idea slava, un’idea sempre crescente, forse la terza futura possibilità di decidere i destini umani e dell’Europa» (pp.725-726).

Nella crisi cattolica della modernità si affacciano i nuovi pretendenti mondiali, le pretese di salvezza orientali (e occidentali) moltiplicano senza sosta i loro annunci. Nel corso del Novecento, il cattolicesimo sembrerà abbandonare i suoi temi dell’universalismo, delle chiavi dei regni terrestri e celeste, per accettare il terreno di scontro protestante dell’etica. Ma nel XIX secolo è ancora in corso il duello per l’universalismo. Subito dopo, una volta sottratta Roma al papa, ci si chiederà da più parti se è giunta l’ora della religione germanica o slava. Una storia quasi eterna sembra abolita da un ridicolo episodio: la nascita dello statarello sabaudo.

Fuori dalla mischia, alla periferia europea, Dostoevskij non si lascia abbindolare: pur eccitato dalle utopie nazionali – nella fattispecie quella russo-slava – distingue tra le grandi missioni nazionalistiche e le meschine avventure dei piccoli regni. Parlando un po’ romanticamente della miseria della diplomazia, accenna a Cavour: «Io prendo lui come esempio perché ne è già riconosciuta la genialità e inoltre perché già morto. Ma che cosa non ha fatto, guardate un po’; oh sì, ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato? per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale alla fine si era logorata, stremata ed esaurita (ma era proprio così), ma che cosa è venuto al suo posto, perché possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio il conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio al tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine» (pp. 925-926).

Ecco allora che mentre nel piccolo regno degli indebitati si spendono i resti di una già vecchia ideologia anticlericale e scientista e l’Italiettta si agghinda per vendersi sul mercato internazionale dell’archeologia e del turismo, in Europa si combatte una battaglia decisiva per il XX secolo. Tale battaglia viene trasformata da noi in una commedia degli equivoci: i garibadini rappresentano il futuro e l’Europa, la Chiesa cattolica il localismo sorpassato dagli avvenimenti. È in tale cornice che Pio IX diventa una figura ostile (anzi di traditore) delle magnifiche sorti italiane. Pochi decenni basteranno per svilire la fede in quella ‘meccanica unità’, ma un secolo e mezzo quasi non è sufficiente per celebrare Pio IX come defensor universalitatis, che l’ottica provinciale dei ‘piemontesi’ non riesce a mettere a fuoco. Ci aiuta allora il periodico russo. Nel numero di maggio-giugno 1877 del «Diario di uno scrittore», al capitolo intitolato Il problema mondiale germanico, Dostoevskij affronta la questione cattolica. Sa lo scrittore che qualcuno si stupirà di discorsi che affrontano la ‘politica mondiale’ con categorie ‘medievali’ come quelle religiose, ma «io prendo solo l’idea fondamentale cominciata già duemila anni fa e che da allora non è mai morta, sebbene gradualmente si sia incarnata in aspetti e formule diverse. Adesso appunto tutto questo estremo mondo europeo occidentale che ha ricevuto l’eredità romana, soffre i dolori di un parto di una reincarnazione, di questa antica idea ereditata; e ciò, per chi sa guardare, è tanto evidente che non ha bisogno di spiegazioni» (p. 398). Oggi invece è così poco evidente, nascosto dalle maschere della modernità, che bisogna ricorrere a uno scrittore dell’epoca per rinvenire quel passaggio.

«L’antica Roma per la prima generò l’idea dell’unione universale degli uomini e per la prima pensò (e fermamente credette) di realizzarla praticamente nella forma di una monarchia universale. Ma questa formula cadde di fronte al cristianesimo; la formula, non l’idea. Perché questa idea è l’idea dell’umanità europea, da essa si è formata la sua civiltà, per essa soltanto essa vive. Cadde soltanto l’idea della monarchia universale romana e fu sostituita dal nuovo ideale dell’unione universale in Cristo. Questo nuovo ideale si scisse in due, l’orientale, l’ideale cioè di un’unione di uomini del tutto spirituale, e l’europeo-occidentale, il cattolico-romano, il papale, del tutto contrario all’orientale. Questa incarnazione occidentale cattolico-romana dell’idea si compì a modo suo, avendo perduto però il suo principio spirituale cristiano, condividendolo con l’eredità di Roma antica» (p. 938).

Non è certo nuova l’affermazione che il cattolicesimo perde l’ispirazione cristiana, quasi che questo «principio spirituale» fosse già stato del tutto elaborato, a prescindere dagli apporti dell’universalismo ellenistico, e in special modo di quello romano, appunto, producendo uno contrasto perfino tra gli apostoli, tra Pietro e Paolo. Naturalmente l’ortodosso Dostoevskij occulta l’apporto ebraico. Più spregiudicatamente, i teorici ‘germanici’ sottolineeranno proprio questo apporto, contrapponendo il cristianesimo ‘ebraico’ di Pietro a quello paolino più ‘spirituale’.

Ma torniamo alle parole di Dostoevskij: «Il papato romano proclamò che il cristianesimo e la sua idea senza il dominio mondiale di tutte le terre e di tutti i popoli – dominio non spirituale, ma statale – in altre parole, senza la realizzazione sulla terra di una monarchia romana universale, alla cui testa sia non l’imperatore romano, ma il papa, non può essere realizzabile. E così cominciò di nuovo il tentativo di una Monarchia universale secondo lo spirito del mondo romano, ma già in un’altra forma. In tal modo, nell’ideale orientale da principio è l’unità spirituale dell’umanità in Cristo, e poi in forza di questa unione spirituale di tutto in Cristo, anche la giusta unione statale e sociale che indubbiamente ne deriva, mentre secondo l’interpretazione romana si avrebbe il contrario: da principio la garanzia di una solida unione statale nella figura di una monarchia universale e poi forse anche l’unione spirituale sotto il governo del papa, come sovrano di tutto il mondo» (pp. 938-939).

«Da allora questo tentativo del mondo romano precedette mutandosi continuamente. Con lo sviluppo di questo tentativo la parte più essenziale del principio cristiano andò quasi del tutto perduta. Avendo respinto il cristianesimo spiritualmente, gli eredi dell’antico mondo respinsero anche il papato. Scoppiò la terribile rivoluzione francese che nella sua sostanza non fu nulla più che l’ultima trasformazione e reincarnazione della formula dell’antica Roma dell’unione universale. Ma la nuova formula si dimostrò insufficiente, la nuova idea non si realizzò» (p. 939). Sembrava, anche nello stile neo-classico, una parodia dell’idea romana. Ma i più attenti, non a caso, si richiamarono agli ideali della repubblica contro l’impero, eredi di Bruto per pugnalare l’universalità. Quelli che plaudirono alla ‘moralità’ delle virtù laiche, ai soldati napoleonici che inneggiavano sulla scalinata del Campidoglio all’assassino di Cesare, non si accorsero che si stava celebrando il ricordo della Roma della razza, delle famiglie indigene scandalizzate dalla novità cosmopolita dell’impero, che era un regno slegato dalla terra tribale.

«Vi fu perfino un momento in cui in tutte le nazioni, che avevano ereditata la vocazione dell’antica Roma, subentrò la disperazione. naturalmente quella parte della società che aveva acquistato, dopo il 1789, l’eguaglianza politica, cioè la borghesia, trionfò e dichiarò che non era necessario andare più avanti. Ma in compenso tutte le menti, che per le leggi plurisecolari della natura sono destinate un’eterna mondiale agitazione e a cercare nuove formule dell’ideale e della parola nuova, necessarie per lo sviluppo dell’organismo sociale, si rivolsero a tutti gli umiliati e diseredati, a tutti coloro che non avevano avuto alcuna parte nella nuova formula dell’unione universale proclamata dalla rivoluzione francese del 1789. Essi proclamarono la loro nuova parola, la necessità cioè dell’unione universale degli uomini non in vista della spartizione dell’uguaglianza e dei diritti della vita tra un solo quarto dell’umanità, lasciando gli altri soltanto come materiale grezzo e mezzo di sfruttamento per la felicità di questo quarto dell’umanità, ma al contrario in vista dell’unione universale degli uomini sulla base dell’eguaglianza universale, con la partecipazione di tutti e di ognuno all’uso dei beni di questo mondo, qualunque essi possano risultare. Essi stabilirono di attuare questa decisione con qualsiasi mezzo, cioè non con i mezzi della civiltà cristiana, ma senza arrestarsi davanti a nulla» (p. 939). Al tramonto del potere papale, che controllava anzitutto i mezzi, sorgevano movimenti disperati per l’uguaglianza mondiale.

«Il protestantesimo di Lutero aveva già superato il suo tempo, l’idea del libero esame da un pezzo era stata accettata dalla scienza di tutto il mondo. L’enorme organismo della Germania sentì più di qualsiasi altro di non avere, per così dire, carne e forma per la propria espressione. Nacque così allora in esso l’incalzante necessità di incarnarsi, sia pure soltanto esteriormente, in un unico organismo armonico, in previsione delle nuove future fasi della sua eterna lotta con l’Estremo Occidente del mondo europeo. Occorre rilevare qui una curiosa coincidenza: tutti e due i campi, eternamente nemici, tutti e due gli avversari della Vecchia Europa per la priorità in essa, nello stesso (o quasi nello stesso) tempo si applicano a risolvere quasi il medesimo compito. la nuova, quasi fantastica, futura formula dell’Estremo Occidente, il rinnovamento cioè della società umana su nuovi princìpi sociali, questa formula, proclamata per quasi tutto il nostro secolo soltanto dai sognatori, dai suoi rappresentanti scientifici e da ogni specie di idealisti, a un tratto negli ultimi anni muta il suo aspetto e il corso del suo sviluppo e decide di lasciare per il momento l’enunciazione teorica e la realizzazione del suo compito e di procedere direttamente, prima di ogni fantasia, alla parte pratica del compito stesso, di cominciare cioè senz’altro la lotta: dando, a questo scopo, inizio alla riunione di un unico organismo di tutti i futuri lottatori per la nuova idea, cioè quel quarto stato trascurato dalla rivoluzione del 1789 e comprendente tutti i non abbienti, tutti gli operai, tutti i pezzenti e, raggiunta questa unione, alzare la bandiera di una nuova e ancora inaudita rivoluzione mondiale. E così comparvero l’Internazionale, i rapporti internazionali tra tutti i poveri di questo mondo, i comizi, i congressi, nuovi regolamenti e leggi, in una parola fu messa in tutta la vecchia Europa occidentale la base per un nuovo status in statu, che sarebbe venuto per inghiottire in sé il vecchio ordine di cose dominante nell’Estremo Occidente dell’Europa. E così, mentre ciò avveniva presso l’avversario, il genio della Germania comprese che era anche compito della Germania, prima di qualsiasi inizio di qualsiasi cosa, prima di qualsiasi tentativo di una Parola Nuova contro l’idea dell’avversario, nella quale s’era reincarnata l’idea dell’antico cattolicesimo, portare a termine la propria unione politica, completare la ricostruzione del proprio organismo politico e, soltanto dopo averlo ricostruito, affrontare il plurisecolare nemico: compiuta la sua unione, la Germania si buttò sull’avversario ed entrò in un nuovo periodo di lotta con lui, col ferro e col sangue» (pp. 940-942).

I poveri apostoli dell’Italietta si preoccupavano di rincorrere rivoluzioni già superate e trascuravano leggendarie battaglie culturali, epocali schieramenti, universali rivolgimenti. Tutti presi dall’astio per i vecchi curati, ebbri di sfottò per le beghine, finivano per schierarsi con il Germano in nome dei risorgimenti dei popoli, delle giovani nazionalità, dei conti da regolare con l’impero austro-ungarico. Ma non avvedendosi che la nazione tedesca stava portando a termine un secolare progetto contro Roma. Soltanto il papa, il vecchissimo papa morente, ne era pienamente consapevole.

«Le truppe tedesche non avevano ancora fatto in tempo a lasciare la Francia, che [il principe di Bismarck] vide che troppo poco era stato fatto ‘col sangue e col ferro’, e che occorreva, avendo davanti a sé uno scopo di tali proporzioni, fare per lo meno due volte tanto, approfittando dell’occasione. [...] L’attuale generazione dei tedeschi per di più è stata sedotta dai successi, ubriacata dalla superbia ed è tenuta ferma dalla mano ferrea dei capi. Ma forse in un futuro non molto lontano, quando questi capi andranno all’altro mondo e lasceranno il posto ad altri, verranno fuori problemi e istinti per il momento soffocati» (pp. 943-944). Già, gli istinti ‘tedeschi’, protestanti, nazionali, antiuniversalisti, soffocati per secoli dal potere cattolico (comunque incarnato), una volta perduta la mano ferrea dei capi prussiani, si scateneranno nella prima parte del XX secolo. È storia abbastanza recente la guerra degli hitleriani contro la Roma di Pio XII.

Ma torniamo al 1877, quando il principe di Bismarck non si accontenta delle vittorie militari, sa che «in Occidente si riprenderà del tutto dal colpo ricevuto il terribile nemico, il quale già adesso non dorme e non sonnecchia» (p. 945). «Perché [il principe di Bismarck] ha odiato tanto proprio il cattolicesimo, perché ha tanto perseguitato ciò che derivava da Roma (cioè dal papa), e per tanti e tanti anni? Perché con tanta lungimiranza si è preoccupato di assicurarsi l’alleanza (ci si può esprimere così) italiana, se non per schiacciare con l’aiuto del governo italiano il principio papale nel mondo, quando verrà il momento di eleggere il nuovo papa? Egli non ha perseguitato la fede cattolica, ma il principio romano di questa fede. [...] Il fatto è che il politico geniale seppe valutare, forse solo nel mondo dei politici, come fosse ancora forte il principio romano di per sé e in mezzo ai nemici della Germania e quale terribile cemento sarebbe stato nel futuro per l’unione di tutti questi nemici insieme. Egli seppe indovinare che forse soltanto nella idea romana si sarebbe potuto trovare il vessillo capace di unire nel momento fatale (e agli occhi di Bismarck inevitabile) tutti i nemici della Germania schiacciati in un terribile insieme. E la sua geniale congettura si è realizzata: tutti i partiti nella Francia vinta, fra quelli che potevano cominciare a muoversi contro la Germania, tutti questi partiti sono stati schiacciati, nessuno di essi ha potuto trionfare e prendere il potere in Francia. Essi in nessun modo potevano riunirsi perché ognuno aveva il suo scopo e tutti questi scopi sono in contraddizione tra loro; ed ecco che il vessillo del papa e dei gesuiti riunisce tutti. Il nemico è insorto, ma questo nemico non è la Francia, sebbene il papa. È il papa che, alla testa di tutti coloro che hanno ereditato l’idea romana, si scaglia contro la Germania. [...] Il papa sta morendo. Morirà presto. Tutto il cattolicesimo che accetta Cristo nella figura dell’idea romana è già da tempo in terribile agitazione. Si avvicina il momento fatale. Non bisogna lasciarsi abbattere, perché sarebbe la morte dell’idea. Può appunto succedere che il nuovo papa, sotto la pressione dei governi di tutta Europa venga eletto ‘non liberamente’ e che dopo la proclamazione acconsenta a rinunziare per sempre e in linea di principio al potere temporale, alla dignità di sovrano terreno alla quale non rinunziò Pio IX (il quale, al contrario, nel più fatale momento, quando gli tolsero Roma e l’ultimo pezzetto di terra, lasciandogli in proprietà soltanto il Vaticano, come a dispetto, proclamò la propria infallibilità e insieme la tesi che senza il dominio temporale il cristianesimo non può mantenersi sulla terra, proclamandosi cioè in sostanza sovrano del mondo e ponendo al cattolicesimo, già in forma dogmatica, lo scopo diretto della monarchia universale [...]» (pp. 946-947).

In un altro passo del «Diario di uno scrittore», Dostoevskij sembra avvertire il valore simbolico del possesso di Roma: «il papa per molti secoli ha dato a vedere di essere contento del suo minuscolo possedimento, lo Stato della sua Chiesa, ma tutto questo unicamente per allegoria: il più importante è che in questa allegoria era celato sempre il germe dell’idea principale, per cui il papato ha sempre e fermamente sperato che il germe si sarebbe sviluppato nel futuro in un magnifico albero che avrebbe protetto con la sua ombra la terra. Ed ecco, proprio nel momento estremo, in cui gli hanno tolto l’ultimo metro del suo possedimento terreno, il sovrano del cattolicesimo, vedendo la propria morte, si solleva all’improvviso e proclama a tutto il mondo la sua verità su se stesso: ‘Voi avete pensato che io mi sarei contentato soltanto del titolo di sovrano dello Stato della Chiesa? Sappiate, dunque, che io mi sono considerato sempre sovrano di tutto il mondo e di tutti i re terrestri, e non soltanto sovrano spirituale, ma anche temporale, il loro vero signore, arbitro e imperatore. Sono io, il re dei re e il signore dei dominatori e a me solo appartengono i destini, i tempi e i termini sulla terra; ed ecco io lo proclamo a tutto il mondo nel dogma della mia infallibilità’. No qui c’è forza; questo è maestoso e non ridicolo; è la resurrezione dell’antica idea romana della sovranità e unione universale mai morta nel cattolicesimo romano; è la Roma di Giuliano l’Apostata, ma non vinto, sibbene vincitore di Cristo nella nuova e ultima battaglia. Ecco come è stato venduto il vero Cristo per i regni terreni. E nel cattolicesimo romano ciò sarà compiuto e coronato anche di fatto. Ripeto, questo terribile esercito ha gli occhi troppo acuti per non vedere, finalmente dove è adesso la vera forza su cui appoggiarsi. Perduta l’alleanza dei re, il cattolicesimo si butterà verso il demos. Esso ha diecine di migliaia di seduttori, saggi, abili, conoscitori del cuore umano, psicologi, dialettici e confessori [...] tutti questi conoscitori del cuore umano e psicologi si getteranno sul popolo e gli porteranno il Cristo nuovo, già d’accordo in tutto, il Cristo annunciato all’ultimo empio concilio di Roma [...]» (marzo 1876, pp.335-337). Nonostante l’orrore ortodosso per la concezione romana, il grande scrittore russo sa comprendere la maestà di un gesto.

Bisogna superare le barriere del proprio tempo, come Bismarck e Dostevskij, per accorgersi di quanto imponente è ancora l’idea cattolica. Oggi anche a noi, col cannocchiale rovesciato della distanza temporale, ci appaiono particolarmente ridicoli molti politici dell’ottocento. Allora era il papato a suscitare il loro sorriso progressista. «Non è forse vero che ai politici e ai diplomatici di quasi tutta l’Europa tutto ciò sembrerà molto comico e insignificante? Il papa, buttato giù come sovrano e rinchiuso nel Vaticano, rappresentava negli ultimi anni ai loro occhi, una tale nullità, occuparsi della quale era addirittura una vergogna. Così ragionavano moltissimi progressisti d’Europa, specialmente gli uomini di spirito e i liberali. Il papa che pubblicava Allocuzioni e Sillabi, che riceveva pellegrini, che malediva e moriva, era ai loro occhi simile a un buffone per il loro spasso. Il pensiero che la più grande idea del mondo, un’idea uscita dalla testa del diavolo al tempo della tentazione di Cristo nel deserto, un’idea che aveva vissuto organicamente nel mondo già duemila anni, così, senz’altro, potesse morire in un minuto, questo pensiero era accettato come indiscutibile» (pp. 947-948). Adesso Dostoevskij, come uno zar che ha paura di sporcarsi le mani con la corruzione latina, collega l’idea cattolica con la tentazione di Cristo. Il cristiano ortodosso finisce spesso nell’eresia docetista e perfino il narratore per eccellenza del dolore umano arriva a considerare l’aspetto terreno, mondano della vita come una tentazione diabolica. Ma in ogni caso si rende pienamente conto della posta in gioco: «la più grande idea del mondo» non si abolisce perchè un dinastia delle valli alpine si impadronisce del Quirinale. Anzi, né l’Internazionale né l’attuale globalismo commerciale sembrano saperne reggere il peso immane.

«L’errore [dei liberali], naturalmente, era qui nel significato religioso di questa idea, nel fatto che due significati erano mescolati assieme: ‘Poiché sono ben pochi coloro che nel mondo credono in Dio, specialmente secondo l’interpretazione romana [...] quale forza possono avere nel nostro secolo colto il papa e il mondo cattolico?’ ecco quello di cui sono convinti anche adesso gli uomini di spirito. Ma l’idea religiosa e l’idea papale in sostanza sono diverse. Proprio questa idea papale a un tratto, ai nostri giorni, soltanto due mesi fa, di colpo ha rivelato una tale vitalità, una tale forza da produrre in Francia il più radicale dei rivolgimenti politici [...]» (p. 948).

Ovvero, cattolici e socialisti minano la repubblica e lo spirito repubblicano sorto dall’Ottantanove. Dostoevskij offre un gustoso schizzo di quella Francia liberale. Parla dei politici repubblicani: «si tratta di gente astratta e di idealisti. È gente che ha fatto il suo tempo, impotente. Sono vecchietti liberali, coi capelli grigi, che credono però di essere ancora giovani. Si sono fermati alle idee della prima rivoluzione francese, cioè al trionfo del terzo stato [...]» (p. 948). Il fatto è che «non appena veniva proclamata la repubblica, tutti cominciavano a sentirsi come in un interregno e per quanto ragionevolmente potessero governare i repubblicani, la borghesia sempre sotto di essi era convinta che, prima o poi, sarebbe scoppiata una rivolta rossa o sarebbe ricomparsa una qualsiasi monarchia [...] Per i loro princìpi, per i socialisti è indifferente la repubblica o la monarchia, indifferente se saranno francesi o diventeranno tedeschi e addirittura, se per una qualche ragione facesse loro comodo il papa, proclamerebbero anche il papa. Essi prima di tutto cercano il proprio vantaggio, cioè il trionfo del quarto stato [...]. È rilevante il fatto che il principe di Bismarck odia il socialismo non meno che il papato e che il governo tedesco, specialmente negli ultimi tempi, ha cominciato in un certo qual modo ad avere una eccessiva paura della propaganda socialista. Senza dubbio questo avviene perché il socialismo toglie ogni personalità al principio nazionale e rode la nazionalità nelle sue stesse radici e il principio di nazionalità è l’idea fondamentale, principale dell’unità tedesca. [...] Ma è anche possibile che il principe di Bismarck veda ancora più a fondo, cioè che il socialismo sia la forza futura di tutta l’Europa occidentale e che il papato, se a un certo momento sarà abbattuto dai governi di questo mondo, si butti nelle braccia del socialismo e formi tutt’uno con esso. Il papa andrà a piedi e scalzo dai poveri e dirà che tutto ciò che essi predicano e vogliono c’è già da tempo nel Vangelo, che finora non era ancora venuto il momento per loro di saperlo, ma che questo momento è arrivato e che egli, il papa, cede loro Cristo e crede nel formicaio» (pp. 949-950). Sì, sembra una profezia della Chiesa post-conciliare, ma va detto che l’abbraccio con il socialismo avverrà anche nel mondo protestante, soprattutto europeo.

Fulminato da Bismarck, Dostoevskij si scopre stratega politico, addirittura machiavellico, smaschera gli inganni in cui cadono i «vecchietti liberali» ma non il dispotico principe prussiano: «Al cattolicesimo romano (è più che chiaro) non occorre Cristo, ma la dominazione del mondo: ‘A voi [ai socialisti] occorre l’unione contro il nemico: riunitevi sotto il mio dominio, perché io sono il solo universale di tutti i dominii e di tutti i dominatori del mondo, e andremo insieme’. Ecco il quadro che forse prevede il principe di Bismarck, perché egli solo fra tutti i diplomatici ha avuto uno sguardo così acuto da prevedere la vitalità dell’idea romana e l’energia con la quale essa è pronta a difendersi, non preoccupandosi i scegliere questo o quel mezzo. Essa ha un’infernale voglia di vivere ed è difficile ucciderla, è una serpe! – ecco quel che capisce in tutta la sua forza il principe di Bismarck, il principale nemico del papato e dell’idea romana» (p. 950). Ecco quel che non hanno capito i romani dell’Otto-Novecento che in nome della laicità sono passati nelle retrovie tedesche.
(2. continua)