martedì 27 gennaio 2009

minima / I segreti della morte

Questa non è una recensione della mostra «La magia della linea», con centodieci disegni di Giorgio de Chirico, al Museo Bilotti. Piuttosto il resoconto di un brevissimo quanto casuale excursus tra le «cose ultime». Un martedì spoglio, nel cuore dell’inverno, l’occhio cade su parole epigrammatiche: «moro per sapere». Gli enigmi di un arco temporale si chiariscono alla fine, nel passaggio fatale. Da quel momento in poi, il Libro della Vita si può rovesciare e leggere all’incontrario: vi apparirà dipanato l’arcano dell’esistenza spesa. Se fede è intravedere nell’oscuro, scorgere le macchie di colore delle figure, in un giorno conclusivo se ne afferreranno le linee del disegno, la traccia nascosta.

Aprendo un volume, il giorno dopo, sembra di scoprire un collegamento con la
consolatio rinvenuta: Jacob Taubes, filosofo ebreo, sta esponendo nell’ultimo seminario della vita i criteri della sua lezione definitiva: «non sopporto l’apoteosi aurorale né in Heidegger né in Buber. Non vedo perché l’iniziale debba essere migliore di ciò che è più tardo. Chiunque si sia esercitato su Riegl e Benjamin sa che ciò che è tardo ha le sue leggi. Non v’è dubbio che l’apocalittica sia più tarda della profezia. Essa la presuppone, presuppone il canone e l’interpretazione. Ma non capisco perché debba essere meno significativa, decadente» (in La teologia politica di San Paolo, Adelphi). L’Apocalisse non è la guerra degli orrori, l’ultima puntata della decadenza, bensì la rivelazione suprema, la soluzione di tutti i misteri. Naturalmente, il tempo (apocalittico) che avanza non ha niente a che vedere con la corsa pseudo-virtuosa del progressismo, né tanto meno le spiegazioni delle scienze si perfezionano in esattezza strada facendo, come vuole la vulgata, fino a coincidere con la verità. Assonanza piuttosto con quel morire che dà accesso al sapere decisivo. E assonanza con il difficile frammento teologico-politico benjaminiano: «nella felicità ogni essere umano aspira al suo tramonto, ma solo nella felicità esso è destinato a trovarlo». Esaltazione dell’effimero o del passaggio – lieto – all’eterno?

Il terzo giorno, giovedì, i viali di Villa Borghese sono immersi in una luce bianca, immobile, invernale, confortante. Oltrepassata la statua di Goethe, là dove il poeta si appuntava le scene della cucina stregonesca del suo
Faust alla ricerca dell’eternità, appare un piccolo museo, già convento di suore e prima aranciera dei principi Borghese, cannoneggiata dai rivoltosi risorgimentali; è in corso una inaugurazione di una mostra delicata, e il nome dell’artista esposto, Giorgio de Chirico, provoca nel passante la scandalosa, nietzscheana, sensazione di «inattualità», lo invita a entrare lasciando fuori le miserie del mondo. In pochissimi si attardano davanti ai cento disegni schierati nella palazzina addossata al Lago – benché alcuni siano incantevoli – forse anche perché incalza l’ora di pranzo, forse perché gli habitués sono già partiti verso Bologna a venerare l’attuale, a rotolarsi come lattonzoli nel brago padano del contemporaneo. «Tortuoso è il sentiero dell’eternità» intuiva il suggeritore di Zarathustra. La dolcezza del trapasso mortale contenuta in quel motto trovato per caso, il pareggio tra fine e origine accennata dal filosofo ebreo, ed ecco sopraggiungere anche l’immagine di questo attraversamento. «Il disegno – svela Elena Pontiggia, curatrice della mostra – è la tecnica metafisica per eccellenza perché, oltre i mutamenti illusori dell’apparenza, coglie i ‘segreti del sonno e della morte’».

In versione fiabesca appare allora l’Apocalisse dechirichiana: «Sono entrato nell’Apocalisse come in un lungo sogno d’inverno… Nel lungo sogno d’inverno, in quella grande e strana casa che è l’Apocalisse, piena di stanze buie, di doppie porte imbottite, di vecchi tappeti e di portiere affumicate, di tavolini orientali e di mobili pesanti e scolpiti, di stanze ed ancora stanze…, in quella grande e strana casa, dico, io sogno, incuriosito e felice, come il fanciullo, tra i suoi balocchi, nella notte di Natale». Disegnata in tempo di guerra, non abbassa l’opera visionaria concepita in un’isola greca alle nefandezze degli uomini moderni. Trattiene la paura nella forma mitica degli enigmi, esalta con la sua arte il giorno della trasformazione del mondo, dell’apocatastasi di gusto orientale. Promesse natalizie, invernali, di fronte alla vittoria apparente di Madama Morte, si accendono nelle stanze di Villa Borghese, vengono fuori da queste colte litografie cosparse di stelle.

(Dinanzi a tanta semplice evidenza, e alla «massima limpidezza» con cui il Maestro parla dell’«arte della matita», lo scritto di presentazione di un patron post-avanguardista che mette in fila le formule per lo più francesi degli intellettuali alla moda negli anni settanta, biascicando «progetto desiderante», «errare del desiderio», «statuto di oggettività», addirittura l’«area corporale assegnata» – tutte facezie dette con il tono oracolare dell’esistenzialismo tedesco (lo stesso che voleva superare la metafisica occidentale!), ma con la confusione della servitù che origlia – prende per via dell’accento campano un che di farsesco, scivola nell’atellana, evoca l’indimenticabile Pappagone quando ripete insensatamente le parole male intese del Commendatore. Il Pictor Optimus, sensibile alle lodi, sorride sotto i baffi di questo adulatore un po’ impresentabile.)