venerdì 30 gennaio 2009

L'ultimo imperatore / 3

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NELLA LOTTA IDEALISTA DELLA RAZZA CONTRO TUTTE LE MANIFESTAZIONI STORICHE DELLA CHIESA DI ROMA C’È ANCHE L’ATTACCO AL ‘FETICISMO PAGANEGGIANTE’ DELLE IMMAGINI: HUSTON STEWART CHAMBERLAIN, PRIMO TEORICO DEL RAZZISMO, MUOVE GUERRA A PIO IX

Passiamo, in questa terza puntata del trittico su Pio IX, a un personaggio oggi dimenticato ma che nella storia del razzismo, e della Germania moderna, ha un ruolo da protagonista: Huston Stewart Chamberlain, britannico naturalizzato tedesco, teorico dello spirito anglosassone, storico erudito, razzista appassionato, genero di Wagner. Chamberlain dimostra più intelligenza degli scienziati positivisti ma è un fine conoscitore dei loro metodi. Dopo Darwin, sostiene, non si può più negare la razza. Nella sua opera principale, Die Grundlagen des XIX. Jahrhunderis (I fondamenti del XIX secolo), uscita nel 1899 si propone un disegno imponentissimo: ricostruire la lotta tra lo spirito tedesco e quello romano, tra la spiritualità germanica e l’universalità della Roma imperiale prima e della Chiesa cattolica poi, il «caos etnico» come la definirà l’autore, ovvero il potere slegato da una determinata etnia. Un librone di più di 1500 pagine da leggere attentamente, non soltanto per gli adepti più scellerati che formerà via via in Germania, ma per gli inconsapevoli araldi della nuova spiritualità anti-romana che ripetono inconsapevolmente i discorsi critici di Chamberlain ignorando come siano originati dalla premessa razzista. La Roma che glorifica il saggista anglo-tedesco è quella repubblicana, legata a un’aristocrazia razziale. Con l’impero nasce l’universalismo che vede alternarsi sul trono tiberino uomini latini, africani, mediorientali e barbari tedeschi senza troppi distinguo nazionali e di ceto. I papi, successori del pontefice massimo Augusto, proseguiranno in questa politica «antigermanica».

Tenendo presente tale premessa si può comprendere la seguente affermazione: «La magnifica opera positiva dei Greci e dei Romani esigeva un complemento negativo: ed è Israele che l’ha fornito. […] L’uomo prende coscienza non soltanto della forza, ma della propria debolezza» (p. 58) Non che la storia d’Israele sia peggiore delle altre, ma qui «l’odore del vizio si mostra completamente a nudo» (p. 58). La Chiesa di Roma ne erediterà il «materialismo religioso», come denunceranno nel corso dei secoli i ribelli tedeschi. «Roma, nell’epoca imperiale, fu l’incarnazione del principio antinazionale» (p. 396), la Chiesa cattolica spinse questa incarnazione fino alle soglie della modernità. Pio IX, bestia nera di Chamberlain, si oppose strenuamente ai nazionalismi crescenti che assediavano il trono universalistico di Pietro.

Chamberlain rilegge la storia occidentale: «Che un Copernico o un Galileo, fiaccole della scienza, fossero dei buoni cattolici; che un Krebs (Nicola Cusano), un Bruno, un Campanella, un Gassendi, iniziatori del nostro pensiero a delle nuove rappresentazioni cosmologiche, fossero anche dei cardinali, dei monaci, dei preti, questo non prova nient’altro che una cosa: che non si tratta di […] conflitti propriamente religiosi, bensì di una lotta tra due concezioni del mondo o, meglio ancora, di due specie di natura umana, la germanica e l’altra» (p. 707). Del resto, per Chamberlain – che ha fatto scuola in questa direzione – Giordano Bruno sarebbe di origini tedesche, la sua spiritualità anzitutto lo comproverebbe, ci sarebbero inoltre conferme biografiche. Per Campanella, in mancanza di radici extra-calabresi, forse ci si deve limitare a una ventata della spiritualità del Nord spintasi fino oltre la Sila.

«In un certo senso si può considerare la storia intellettuale e morale d’Europa, dal momento in cui appaiono i Germani fino al giorno in cui Lutero si rivolta contro le potenze antigermaniche come una lotta tra Germani e Non-Germani, tra mentalità germanica e mentalità antigermanica», se l’eroe del Nord è il cinquecentesco frate agostiniano, il colosso latino è il quasi contemporaneo sacerdote basco Ignazio di Loyola. In lui si incarnano, secondo Chamberlain, i peggiori vizi razziali della storia umana: il fondatore dei gesuiti costruisce una religione più che mai legata al materialismo ebraico e all’universalismo romano. Ignazio scatena «l’attacco meglio organizzato e più pericoloso che sia mai stato mosso contro lo spirito germanico, o per meglio dire, contro lo spirito ariano in generale» (pp. 711-712). Più elegantemente che in tutta la schiera degli anticlericali, Chamberlain si esercita nella critica del gesuitismo partendo da una analisi degli Esercizi spirituali ignaziani. Vi si respira un clima maomettano – sostiene il razzista anglo-tedesco – «il materialismo crasso di tutte le nozioni – questo desiderio che le nostre narici si riempiano del tanfo dell’inferno, che ci si senta bruciati dall’ardore delle sue fiamme, ecc., o anche questa idea che i peccati siano infrazioni a una legge ‘articolo per articolo’, in modo che si possa e di debba tenerne la contabilità secondo un certo schema fisso, e molte altre cose di questo genere – ci ricorda le religioni semitiche; ma ci si mostrerebbe molto ingiusti verso queste ultime se si pretendesse identificarle con il feticismo appena mascherato di Loyola. La sua religione ha per principio fondamentale la lotta contro ogni simbolismo. La si è chiamata una mistica, si è cercato di dimostrare l’influenza mistica sul suo pensiero, mentre una testa siffatta è congenialmente incapace anche di concepire l’idea della mistica nel senso indo-europeo del termine. Poiché ogni mistica […] costituisce un tentativo di buttar via le scorie dell’empirismo per raggiungere direttamente una verità prima, trascendente, non suscettibile di rappresentazione empirica, mentre lo sforzo di Loyola tende […] a presentare tutti i misteri della religione come delle realtà concrete, che cadono sotto i sensi […]. I suoi Esercizi, piuttosto che formare a un’introduzione verso una contemplazione mistica, pervengono all’educazione metodica delle disposizioni isteriche che esistono in ciascuno di noi. L’elemento puramente sensuale dell’immaginazione è sovraeccitato a spese della ragione, a spese del giudizio, e spinto alla sua estrema capacità di produzione; in tal modo la natura animale ha la vittoria sulla natura intellettuale» (p. 713). Il kantiano razzista usa argomenti più moderni dell’antigesuitismo di stampo volterriano. In una nota ricorre addirittura «agli articoli del dott. Sigmund Freud, […] tra i più interessanti lavori sintetici che io conosca su tale questione» (p. 716); siamo nel 1899, ancora la fama non circonda l’interprete dei sogni, è lo studioso della nevrosi (e della pratica religiosa come nevrosi) che attira Chamberlain. Le origini ebraiche del dottor Freud, una volta tanto sono un elemento trascurabile. La mistica del Nord non si avrebbe – secondo il nostro autore – che con il taglio netto con tutto quanto è corporeo (ma quante prove contrarie si potrebbero addurre), quindi la mistica ignaziana come quella ebraica della Kabbalah non è mistica: «Il sistema di Loyola non ha niente a che vedere con l’ascetismo: egli aborre l’ascetismo, egli proibisce l’ascetismo e – dal suo punto di vista – ha perfettamente ragione» (p. 716). «Il metodo di Loyola […] prescrive un metodo della sensualità […] con cui addomesticare la volontà e il giudizio.[…] La forza di suggestione di un metodo così grossolanamente meccanico, calcolato con un’arte infinita per perquisire e rivoltare completamente l’uomo, è così grande che nessuno può sottrarsi del tutto. Anche a me succede che i sensi fremano quando mi sprofondo in questi Esercizi» (p. 717). D’altronde, una pagina più avanti elogia come ariana la visione di santa Teresa: ancora non erano venute alla luce le origini marrane della riformatrice del Carmelo, errori che capitano a chi si inoltra su questi sdrucciolevoli sentieri della ricostruzione storico-biologica.

I turbamenti per la sensualità romana barocca, i capogiri provocati dalle opere di Bernini, sono ancora una volta al centro della critica ‘protestante’, clamorosa prova dell’incapacità di accostarsi al mistero cristiano, all’invisibile che si incarna e si fa visibile, corpo. Chamberlain ha buon gioco a dipingere, con i primi biografi del santo, il capitano basco come «anti-Lutero». «E chi dice anti-Lutero dice Anti-Tedesco, che ne sia consapevole o meno» (p. 720). In nome del germanesimo poi si torna a dannare la celebre espressione ignanziana sull’obbedienza «perinde ac si cadaver essent». Qui l’escamotage è davvero difficile, facile la rivendicazione della libertà personale ariana: nonostante per molte pagine abbia argomentato che i Germani si cercano un padrone a cui obbedire con fedeltà assoluta e che la differenza con gli altri popoli risiederebbe nella scelta che i nordici si permettono nei confronti del capo da servire, critica poi la scelta del santo. Ebbene, che altro fa il capitano Ignazio se non scegliersi il supremo capo, Domineddio, e servirlo come nessun altro, con suprema virtù militare e con spirito di fedeltà che dura per l’intera vita? Anche i montanari baschi, senza una goccia di sangue ariano nelle vene, sanno essere eroicamente fedeli.

Le argomentazioni protestanti sono riassunte così: «La Chiesa romana è anzitutto una potenza politica, cioè statalista; essa ha ereditato l’idea romana dell’Imperium e, assieme all’Imperatore, rappresenta i diritti di un impero universale di istituzione che si pretende divina, di potenza assoluta e illimitata, contro la tradizione germanica e l’istinto germanico della configurazione nazionale. La religione, in questa concezione, ha il solo scopo di amalgamare intimamente tutti i popoli. Dai tempi più remoti, il pontifex maximus era a Roma il funzionario supremo della gerarchia, judex atque arbiter rerum divinarum humanarumque, colui al quale la teoria giuridica sottoponeva il re medesimo, e più tardi i consoli. […] Nello stesso tempo la Chiesa era l’erede dell’idea ebraica dello Stato ierocratico, con il sommo sacerdote come potenza superiore» (pp. 735-738). Chamberlain sparge veleno su Agostino perché è il vero grande teorico della «Chiesa romana come erede legittima dell’Impero romano».

Qualcosa tuttavia Chamberlain riconosce all’ebraismo: «Si potrebbe dire che in questo matrimonio (con il cristianesimo romano), lo spirito ebraico fu il principio maschio e fecondante: rappresenta la volontà. Nulla autorizza a supporre che la speculazione greca, l’ascetismo egiziano, la mistica internazionale, avrebbero dotato il mondo di un nuovo ideale religioso e, nello stesso tempo, di una nuova forza della vita, senza l’ardore delle fede ebraica, questa ‘volontà di credere’» (p. 774). La volontà di credere ebraico-cristiana, anti-interiore, anti-luterana è quel «bisogno appassionato di certezza», l’intento di fondare sulla storia, o meglio sulla dimensione storico-collettiva – il progetto di salvezza. L’influenza ebraica è dunque nella teocrazia, conseguenza della incarnazione storica di un Dio, nell’Antico come nel Nuovo Testamento. Teocrazia invocata dai profeti come utopica conclusione della missione di Israele nel mondo, teocrazia realizzata gloriosamente dalla Chiesa di Roma. La separazione dei poteri – vede bene Chamberlain – è di matrice protestante, germanica, radicalmente antiebraica. La contrapposizione tra l’ebraismo-cristianesimo che si muove per il timor di Dio e l’attesa di un premio nell’aldilà, da una parte, e le nobili concezioni ariane, rappresentate dal brahmanesimo che rinuncia al piacere dell’aldiqua e dell’aldilà, «per il primo grado della vera pietà» non è nient’altro che il duello tra l’insegnamento della dottrina cattolica (trasformata addirittura in formula dallo scienziato Pascal) e la morale illuminista astratta, senza interesse.

Tra le figure anticipatrici di Lutero, Chamberlain colloca Carlomagno, non solo perché repressore della volontà di potenza del papa, ma come paladino nella lotta al ‘feticismo paganeggiante’ delle immagini. I santuari, le madonne che appaiono sono residui della superstizione romana. Nella lotta idealista della razza contro tutte le manifestazioni storiche della Chiesa di Roma (Inquisizione, timor di Dio, indulgenze, doppia verità, clero corrotto, pellegrinaggi ai santuari, miracoli, insomma tutto l’armamentario della polemica massonica-laica) Chamberlain sottolinea anche l’impossibilità, da parte dei Germani, di credere al Diavolo. Satana non fa per loro. Ma lo stesso Chamberlain è costretto a riconoscere che Roma, pur rigorosa nelle questioni di potere, è invece grandemente tollerante per quanto riguarda le sottigliezze religiose, lasciando convivere domenicani e gesuiti, pelagiani e agostiniani. Ovvio, per Chamberlain, si tratta di una potenza politica, poco interessata alla sostanza cristiana, ma poi ammette che il cristianesimo cattolico si vuole adattare a tutti e quindi che le ragioni politiche determinano un universalismo che accetta tutte le differenze all’interno dell’unità. Chamberlain riconosce così che «il greco approfondiva e ‘sublimava’ troppo; il germanico, naturalmente religioso, prendeva le cose troppo sul serio; Roma soltanto non si allontanava mai da quel giusto mezzo che è la via dorata cara all’immensa maggioranza degli uomini. […] Roma comprendeva a meraviglia il carattere e i bisogni di queste popolazioni variopinte che per secoli si trovavano ad essere le depositarie e le intermediarie della civiltà e della cultura. Roma non esigeva dai suoi aderenti né grandezza di carattere né indipendenza di pensiero: anzi proprio di questo la Chiesa li liberava; ogni capacità, ogni entusiasmo, vi poteva – è vero – ritrovarvi posto alla sola condizione dell’obbedienza […] perciò la religione fu trasferita dal cuore e dallo spirito nella Chiesa visibile, in modo da divenire accessibile a tutti, intelligibile a tutti, tangibile per tutti. Mai una istituzione possedette una conoscenza più ammirevole della natura umana media di questa Chiesa che si diede così presto e così opportunamente il compito di organizzarsi attorno al centro dato dal pontifex romanus dei romani» (pp. 864-866). La critica di Chamberlain finisce col toccare il cuore del problema cattolico. Origene, il suo campione «indo-europeo» in lotta, a sentir lui, contro le concezioni del «caos etnico», «celebrava la distruzione del corpo nella morte, vista come una liberazione», mentre i cattolici romani, «questi uomini del caos etnico diretti da Roma non potevano concepire l’immortalità in altro modo che come una eterna sopravvivenza dei loro miserabili corpi!» (p. 865, in nota). Peccato che anche Paolo riduca tutta la verità cristiana alla resurrezione dei corpi. Forse non è un caso che molti teologi protestanti del Novecento abbiano usato la loro raffinatezza metafisica per aggirare questo problema e per negare la scandalosa fede di Roma nella resurrezione della carne.

Preoccupato da come Roma seduce i cuori dei semplici come dei sapienti con le sue belle idee di universalità, colpito dalla frase di Lutero, «Per quanto riguarda il governo esterno, il regno del papa è quanto di meglio ci sia per il mondo», Chamberlain paventa il ritorno di un nuovo Innocenzo III, un altro trionfo cattolico per risolvere i problemi della modernità. Se il mondo germanico non impone la sua religione, «si metteranno al lavoro i tribunali dell’Inquisizione». Sappiamo poi come sono veramente andate a finire le cose. Ma alle soglie della modernità non si tratta più della lotta tra Papato e Impero, ma tra Universalismo (rappresentato dalla Chiesa di Roma) e nazionalismi. Pio IX e Bismarck ne sono i due protagonisti.

Qualche volta, nell’opera di Chamberlain, papa Mastai è allora citato come colui che chiude un’epoca. Per esempio quando si dice con dispiacere che «da san Paolo a Pio IX» il cristianesimo ha soffocato «l’antagonismo della razza» (p. 807). Il kantiano razzista vede meglio di chiunque altro che cosa bolle nella pentola moderna dove è stato disciolto l’universalismo romano. Ora che Pio IX, l’ultimo resistente, ha subìto la sconfitta, «l’antagonismo della razza» può venire allo scoperto e affermarsi in Europa. Oppure quando sostiene che dopo le condanne contenute nel Sillabo, se un papa volesse riconciliarsi con la modernità dovrebbe anzitutto distruggere l’opera di Pio IX (p. 864, in nota). Ovvero, Pio IX come baluardo contro la modernità. Dirà poco più avanti: «Pio IX si pose proprio sullo stesso terreno di Bonifacio VIII» (p. 902), era nella medesima tradizione: insensibile alle depravazioni delle epoche.

Così il principale testo di apologia della razza tedesca è, al tempo stesso, l’apologia della libertà di coscienza, l’unica che garantisca la creatività etnica. Chamberlain si rifà a Goethe: l’individuo libero, germanico, non ha limiti interiori e ne ha invece di esterni. Nella cattolicità, invece, secondo Chamberlain «l’Imperium ecclesiastico neo-romano [afferma:] sacrificami la tua libertà e io ti creo un impero che ingloba tutta la terra, nel quale regnano per sempre l’ordine e la pace; sacrificami il tuo giudizio critico e ti rivelo la verità assoluta; sacrificami il tempo e ti concedo l’eternità» (p. 906). La monarchia universale cattolica limita le fantasie individuali, dà ordine alla fiumana individuale e garantisce intanto il mondo intero. (Marx, curiosamente, sostiene in chiave antiluterana e antiborghese: la libertà interiore protestante lega con catene d’oro l’uomo alla propria coscienza). D’altra parte, i Germani non ebbero chiare le frontiere; si potrebbe dire che alla libertà interiore, all’anarchia spirituale, si accompagnava l’anarchia politica, l’informe delle migrazioni…

I papi divengono dunque gli avversari delle nazioni, e non per motivi strettamente politici, bensì per conseguenza logica dell’universalismo, derivazione dell’incarnazione di Cristo nella storia. I predicatori che giravano per l’Europa del medioevo andavano a condannare l’amor soli natalis, i gesuiti, sant’Ignazio in primis, avversavano le lingue vernacolari e nazionali operando a favore dell’universalistico latino (dalle lingue materne i Romantici prendono il la nazionalista). Una voce, ovvero una unica voce, è un segno, divino, di pace contro la babele romantica. Perfino Chamberlain comunque è toccato da una religione che vuole «trasformare questo mondo in un magnifico sagrato del Cielo» (p. 916). «Veramente impotente – dice – sarà lo spirito che non concepisca la bellezza di una simile idea». Ma oggi anche i cattolici non se la ricordano più.

(3. fine)

[Le citazioni riportate sono tratte da una edizione francese, uscita a distanza di quattordici anni da quella tedesca, e che si arricchisce di note polemiche con cui Chamberlain approfitta per duellare con i critici della prima ora: La genèse du XIX siècle (Payot, 1913, 2. voll.)]