sabato 14 febbraio 2009

minima / Noi, i falsari

Un singolare destino ha colpito l’arte: quasi per contrappasso, viene incatenata al tempo più caduco, l’effimero, termine che nella Roma barocca indicava le architetture provvisorie, le decorazioni delle feste religiose (peraltro inserite nel tempo saldo della liturgia), il memento macabro della fine imminente. Chi si ribella a un simile imprigionamento è relegato tra i falsari, come successe all’inglese Eric Hebborn, che a Roma, nei decenni scorsi, disegnava alla maniera dei maestri rinascimentali, rinunciava alla propria firma (e alla fama), si nascondeva in un territorio sottratto al tempo. Hebborn sosteneva: «È possibile sfuggire all’influsso del tempo e del luogo in cui si vive e alle proprie inclinazioni stilistiche, ed entrare mentalmente nel mondo atemporale dell’arte dal quale traggono ispirazione gli artisti migliori». Perciò non si arrese al masochismo del contemporaneo, non si rassegnò a un mondo fatto soltanto di rifiuti, fu additato come falsario quando rivelò le sue tecniche, e subito dopo accusato di mentire perché non volevano credere che si potesse disegnare così nella nostra epoca. Lui fu convinto che l’arte vince alfine il tempo. Almeno per molti secoli.