martedì 31 marzo 2009

minima / Invidia a mezzo stampa
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Alla pubblica radio un pubblico aizzatore delle peggiori reazioni degli ascoltatori, giorni fa, spingeva alla invidia sociale, ripetendo le cifre dei guadagni di chi sta in Parlamento, destra o sinistra che fosse: l’importante era l’esercizio della demagogia. Lui, il demagogo, lasciandosi appunto trascinare dal demo piuttosto che condurlo, inveiva contro chi denunciava grandi entrate e ancor più contro chi, sicuro mentitore, ne denunciava di scarse, prendendosela pure con coloro che, pagando onestamente poche tasse, tradivano le origini povere da cui si erano emancipati con la politica. La gente a casa si lasciava eccitare e partecipava con piacere al massacro. Sennonché qualcuno tra i lapidatori si spinse a chiedere l’autodenuncia del conduttore: quale era l’aureo stipendio del giornalista? Allora, tra molte circospezioni e distinguo, il giovanotto spiegò che lui prendeva 60.000 euri l’anno, ma che i suoi colleghi con appena un decennio di maggiore anzianità raddoppiavano addirittura, che insomma gli era andata male, perché un tempo davvero il mestiere del gazzettiere era tutto un bel godere. Si confessava infine: certo che gli piaceva far soldi, avrebbe anzi aspirato a ben altre paghe, milionarie. Legittimo d’altronde anche per un fustigatore, figurarsi, umani desideri, comuni ai politici, ai commercianti, ai divi e a chi sogna di essere in una di queste categorie, quindi alla gran parte dei giocatori del lotto e dell’enalotto. Meno legittimo fare del moralismo sui fortunati a cui è riuscito il colpaccio.
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Casomai, si potrebbe domandare a simili predicatori: non è
diseducativo, per usare un ricorrente termine del loro ristretto vocabolario, guadagnare più di un docente di università al massimo grado, più di un medico, talvolta più di un imprenditore pur essendo in genere senz’arte né parte, privi anche del glamour della gente di spettacolo o del talento dei calciatori? Tutti dovrebbero saper scrivere e leggere, esprimere i loro punti di vista senza guadagnarci sopra, garantiti addirittura dalla Costituzione. Ed ecco che, per dar senso a questa presuntuosa attività di raccontare il mondo in forme scialbe, si imbrogliano le carte, si invocano le corporazioni, le professionalità, secondo la frusta terminologia; anche dir male delle mafie diventa un mestiere, un monopolio, come narrano le cronache di questi giorni. Più probabile che vengano pagati bene perché addestrano le folle, le contagiano con il vizio dell’enfasi, a chi la spara più grossa, dispongono in fila delle ideine secondo un rigido ordine soggetto-predicato, travisano le dichiarazioni, per esempio quelle del papa, assuefacendo i lettori ai cliché, confondono la storia, dimenticano il passato prossimo, trasformano i loro simili in personaggi, non riconoscono quasi mai la grandezza, insomma si mettono al servizio di tutti i pigri mentali. Per non parlare dei miti assai mediocri che costruiscono nelle terze pagine: l’attuale parodia dell’arte è anche frutto delle tavole mediatiche dei comandamenti, dell’out e dell’inn che scandiscono le mode. Si ribatte che è un difficile mestiere divulgare. Singolare mestiere, è noto, insegnare quello che non si sa, distribuire quel che non si possiede. Architrave della cultura di massa, è il loro vangelo che fonda l’opinione pubblica. Saranno forse ben retribuiti perché cesellatori dei luoghi comuni, ripetitori di pensieri meschini e con formule atroci? Suscitano con perizia, questo sì, dei riflessi condizionati: ‘allarme’, ‘emergenza’, loro gridano, e il popolo fa subito suo lo slogan. In una lettera riportata alla luce nel recente volume dedicato alla simbolica folie (un settecentesco padiglione, cioè) con il suo nome, Baudelaire scriveva: «Tutta la gentaglia moderna mi fa orrore. I vostri accademici, orrore. I vostri liberali, orrore. La virtù, orrore. Il vizio, orrore. Lo stile scorrevole, orrore». L’orrore del poeta per lo «stile scorrevole» si trasformava in ammirazione sconfinata negli ambienti di quella che un tempo fu chiamata l’industria culturale. «Non parlatemi mai più di chi non dice nulla», concludeva la lettera.