venerdì 10 aprile 2009

Nei giorni delle immagini velate

IN UNA LETTERA SPEDITA OLTREOCEANO, IL RACCONTO DELLA SETTIMANA SANTA A ROMA DELL’ANNO 2005, TRA RIEVOCAZIONI DELLA LITURGIA PRE-CONCILIARE E DI TELEGIORNALI DISORIENTATI

Per parlare dei nostri temi anche con il linguaggio immediato e personale dello scambio epistolare, pubblicheremo su «Almanacco Romano» alcune emails rimaste nella memoria del computer. Questa del 2005 è la prima.

Sono giorni in cui la liturgia si riaffaccia nella vita dei cristiani. Non è più il medioevale venerdì della desolazione che ancora intravidi nell’infanzia, ore dedicate alla meditazione sulla morte, con i cinematografi e i teatri sbarrati, la giovane televisione che trasmetteva documentari e cerimonie religiose – qualsiasi racconto, anche evangelico, sembrava infatti procurare diletto e perciò fuori luogo (alla mattina del Sabato santo, già meno tragica, erano riservati i film edificanti sulla vita di Gesù e dei santi), la radio che aboliva la musica leggera e ogni altra lepidezza, anche le campane ‘legate’ e silenti i campanelli agitati dai chierichetti, perfino l’organo interrompeva il suo ufficio: i piaceri uditivi andavano vessati, così come le immagini sacre andavano velate con cura dal momento che resisteva ancora a quel tempo il piacere dell’ascolto e il piacere degli occhi, convinti come si era che pure l’arte sacra conservasse una sua materialità sensuale, senza la quale non si dava arte e non si dava il sacro; umiliazione dei sensi, una tantum, per riconfermarne negli altri giorni il peso e la gloria. Le chiese, a parte il fulgore del ‘sepolcro’, apparivano orribilmente spoglie nel venerdì della morte, nello Yom kippur del cattolicesimo. Oggi, quarant’anni dopo il Concilio Vaticano II, tutti i giorni sono spoglie, spesso orribili.

Il Venerdì santo era l’unico giorno dell’anno senza Messa, senza comunione. Ma nell’ora più tragica dell’anno liturgico, la Chiesa di Roma pregava per il mondo che le stava a cuore: per il papa, i governanti e pro perfidis Judaeis. I padri conciliari del Novecento, equivocando il latino, pensarono fosse un’ingiuria, non capirono che si parlava di dirittura della fede. Nell’ora più sacra si elevavano preci solenni affinché quella mosaica fede granitica, garantita da Dio, accettasse la divinità di Cristo. Si pregava perché l’altra parte di Israele desse il suo riconoscimento, confermasse la divinità di rabbi Gesù. Un terribile giudizio di Dio mentre risuonava nelle orecchie dell’uditorio l’atroce grido del Figlio dell’uomo che sulla croce si sente abbandonato dal Padre. Tutto questo superbo incrocio dei testi vetero e neo testamentari, echi di profezie e di gesti, simbolismi nascosti che riappaiono nell’ora nona, sono adesso sostituiti da una diplomatica quanto contorta allusione ai ‘fratelli ebrei’ di cui si esalta la fedeltà all’Alleanza (e perché mai sarebbero i cristiani a dare simili voti di pagellino?), in cui si sottolinea il cammino in comune, come nei comunicati-stampa degli incontri politici. Nell’irenismo attuale manca comunque una preghiera specifica per gli islamici, altra religione del Libro: nonostante tutto, permane evidentemente la concezione medioevale per cui quella di Maometto è soltanto un’eresia.

Nella chiesa della Trinità dei Pellegrini, presa in prestito dalla comunità che celebra in latino per il resto dell’anno in una specie di catacomba dietro via della Scrofa, viene rispettato il rito tridentino, filologicamente ineccepibile. Numerosi fedeli stranieri, giovani donne dalle gonne lunghe fino ai piedi, con i bambini al collo, più simili a quelle della Myflower, e giovani sposi impettiti, dallo sguardo fervente, che si inginocchiano come cavalieri del Graal. Insomma, sembrano un tantino protestanti questi miei severi vicini di banco. In tutte le altre chiese della capitale, il popolo romano di Dio mantiene caratteri paganeggianti, alterna durante i sacri riti bigottismi e distrazioni, chiacchiera, guarda in giro, pensa ai fatti privati. Qui tutti si sentono eletti, ammantati di un rigore nordico, seguono la cerimonia con i messalini. Sospetto si tratti di molti neoconvertiti, cattolicesimo da Nazareni, appunto. Già, in fondo il Lukasbund era una setta protestante passata per il pietismo, come controprova basta guardare il quadro di Overbeck che raffigura la sua famiglia: moglie e figli con lo sguardo perso nel vuoto, la posizione rigida del corpo, l’espressione mesta, i colori cupi degli abiti che fasciano ogni centimetro di pelle. A Roma, nella Chiesa di Roma, cercavano una forma antica per un protestantesimo del cuore. Aggiungerei alle due definizioni storiche del luteranesimo e del pietismo una versione di certo cattolicesimo ottocentesco: Chiesa di pietra, Chiesa del cuore, Chiesa dell’arte.

Chi, come i luterani, era quasi privo di una liturgia – disseccata nella sola Parola – poteva scatenare allora la fantasia nell’inventarne di nuove ma anche attingere direttamente da quella specie di superba Antiquaria che è la Chiesa di Roma all’alba del XIX. Il gusto della liturgia fu alla base di molte conversioni romantiche. Oggi, dopo il Concilio che ha luteranizzato la Chiesa, i nuovi pietisti dove possono approdare? Nella Chiesa anglicana?

Al Pantheon, la Domenica delle palme, ben altra musica. Nel flusso chiassoso dei turisti e dei visitatori, i celebranti, rivestiti di porpora sembravano antichi sacerdoti pagani indifferenti nella loro ieraticità al caos del mondo cui peraltro risultano abituati. Fedeli e curiosi sono una sola folla, matrone pie e ragazze con l’ombellico scoperto fissano gli antichi riti, la solennità misteriosa. Per un capriccio della liturgia post-conciliare, a un certo punto i celebranti passano dall’italiano al latino, e con voce chiara e forte la lingua imperiale risuona nel massimo tempio della classicità. Emozionante sentire invocare nel trionfo dell’armonia e della perfezione l’ebreo della Galilea, il capro espiatorio che pare aver vinto davvero l’impero pagano …

Oggi, venerdì, dai greci, liturgia orientale, ripetitiva, con una struttura circolare dove niente accade – come nella pittura ornamentale: preghiere, letture dei salmi infinite incensazioni, residui della corte bizantina, ma manca l’evento. Però nel venerdì santo erompe il canto forte e un po’ selvaggio, profumo di medio oriente, intonato da seminaristi barbuti dalla voce possente … Coro sgraziato, vagamente dionisiaco, per annunciare la vittoria sulla morte. Buona novella confusa, febbricitante, come molti avvenimenti ambientati laggiù.

A sera, tra il Colosseo e il tempio di Venere processiona la via Crucis con il commento scritto da Ratzinger che dialoga con la folla e con Dio: la tua Chiesa ci appare brutta e infangata… Appena rientrato, mentre parlo al telefono, ascolto distratto le voci che vengono dalla televisione accesa. Dopo pochi istanti, ci si accorge che i testi letti (male) da attori italiani, sono insoliti. Li vado a ritrovare sul sito ufficiale del Vaticano.

Signore, abbiamo la sensazione che la navicella di Pietro stia affondando… Parole forti sulla crisi del cattolicesimo nonostante i successi mediatici del papa regnante, che già nella notte i telegiornali amplificano disorientati. Nessun cardinale ha mai detto in una pubblica cerimonia, in un rito liturgico, con altrettanta chiarezza, la violenza della Modernità sul cattolicesimo, senza per questo trattare la resa e cercare di conciliare tale nichilismo con la Chiesa di Roma.

Il porporato bavarese ripete nel linguaggio dell’omelia i suoi temi prediletti. Sul diritto piegato all’opinione pubblica: «Ma in quel momento [i giudici del sinedrio] subiscono l’influenza della folla. Urlano perché urlano gli altri e come urlano gli altri. E così, la giustizia viene calpestata per vigliaccheria, per pusillanimità, per paura del diktat della mentalità dominante. La sottile voce della coscienza viene soffocata dalle urla della folla».

Sull’umanesimo ateo, ha parlato da buon tedesco devoto a Dostoevskij: «L’uomo è caduto e cade sempre di nuovo: quante volte egli diventa la caricatura di se stesso, non più immagine di Dio, ma qualcosa che mette in ridicolo il Creatore. Colui che, scendendo da Gerusalemme a Gerico, incappò nei briganti che lo spogliarono lasciandolo mezzo morto, sanguinante al bordo della strada, non è forse l’immagine per eccellenza dell’uomo? La caduta di Gesù sotto la croce non è soltanto la caduta dell’uomo Gesù già sfinito dalla flagellazione. Qui emerge qualcosa di più profondo, come Paolo dice nella lettera ai Filippesi: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-8). Nella caduta di Gesù sotto il peso della croce appare l’intero suo percorso: il suo volontario abbassamento per sollevarci dal nostro orgoglio. E nello stesso tempo emerge la natura del nostro orgoglio: la superbia con cui vogliamo emanciparci da Dio non essendo nient’altro che noi stessi, con cui crediamo di non aver bisogno dell’amore eterno, ma vogliamo dar forma alla nostra vita da soli. In questa ribellione contro la verità, in questo tentativo di essere noi stessi dio, di essere creatori e giudici di noi stessi, precipitiamo e finiamo per autodistruggerci. L’abbassamento di Gesù è il superamento della nostra superbia: con il suo abbassamento ci fa rialzare. Lasciamo che ci rialzi. Spogliamoci della nostra autosufficienza, della nostra errata smania di autonomia e impariamo invece da lui, da colui che si è abbassato, a trovare la nostra vera grandezza, abbassandoci e volgendoci a Dio e ai fratelli calpestati».
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Seguace di Dostoevskij e diffidente verso la interpretazione cattolica rinascimentale italiana che ha sempre calcato la mano sull'uomo fatto 'a immagine di Dio'. Per lui, come per tutta la cristianità nordica – artisti e letterati compresi – quella somiglianza divina si perse con l’uscita dal giardino del Paradiso: «La tradizione della triplice caduta di Gesù e del peso della croce richiama la caduta di Adamo – il nostro essere umani caduti – e il mistero della partecipazione di Gesù alla nostra caduta. Nella storia, la caduta dell’uomo assume forme sempre nuove. Nella sua prima lettera, san Giovanni parla di una triplice caduta dell’uomo: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. È così che egli, sullo sfondo dei vizi del suo tempo, con tutti i suoi eccessi e perversioni, interpreta la caduta dell’uomo e dell’umanità. Ma possiamo pensare, nella storia più recente, anche a come la cristianità, stancatasi della fede, abbia abbandonato il Signore: le grandi ideologie, come la banalizzazione dell’uomo che non crede più a nulla e si lascia semplicemente andare, hanno costruito un nuovo paganesimo, un paganesimo peggiore, che volendo accantonare definitivamente Dio, è finito per sbarazzarsi dell’uomo. L’uomo giace così nella polvere. Il Signore porta questo peso e cade e cade, per poter venire a noi; egli ci guarda perché in noi il cuore si risvegli; cade per rialzarci».
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Sul cristianesimo imperante, neppure più progressista, semplicemente stucchevole, da fraticelli stolti, da pacifisti infingardi, il cardinale tedesco medita: «Sentire Gesù, mentre rimprovera le donne di Gerusalemme che lo seguono e piangono su di lui, ci fa riflettere. Come intenderlo? Non è forse un rimprovero rivolto ad una pietà puramente sentimentale, che non diventa conversione e fede vissuta? Non serve compiangere a parole, e sentimentalmente, le sofferenze di questo mondo, mentre la nostra vita continua come sempre. Per questo il Signore ci avverte del pericolo in cui noi stessi siamo. Ci mostra la serietà del peccato e la serietà del giudizio. Non siamo forse, nonostante tutte le nostre parole di sgomento di fronte al male e alle sofferenze degli innocenti, troppo inclini a banalizzare il mistero del male? Dell’immagine di Dio e di Gesù, alla fine, non ammettiamo forse soltanto l’aspetto dolce e amorevole, mentre abbiamo tranquillamente cancellato l’aspetto del giudizio? Come potrà Dio fare un dramma della nostra debolezza? – pensiamo. Siamo pur sempre solo degli uomini! Ma guardando alle sofferenze del Figlio vediamo tutta la serietà del peccato, vediamo come debba essere espiato fino alla fine per poter essere superato. Il male non può continuare a essere banalizzato…».
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Il cardinale responsabile del Sant’Uffizio grida: «Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!».
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Domani ti racconterò del Sabato santo…