mercoledì 8 luglio 2009

L'arte come succedaneo della religione

~ UNO SCAMBIO DI RUOLI NEL SETTECENTO TEISTA E LIBERTINO: IL SACERDOTE VIENE ALLONTANATO DALLA SCENA PUBBLICA, AL SUO POSTO ENTRA L’ARTISTA, NON PIÙ IDEATORE ED ESECUTORE EGREGIO DI UN’OPERA ESTETICA, BENSÌ MEDIATORE TRA GLI UOMINI E L’ASSOLUTO. ~ PRIMA PARTE DI UN LUNGO DISCORSO A PUNTATE ~
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Come annunciato qualche giorno fa parlando di «Arte e santità» (29 giugno 2009), ecco la prima puntata di una serie dedicata alla nascita della religione dell’arte. Discorso che a sua volta rientra nel più vasto tema della storia dell’iconoclastia e dell’icondulia, intorno al quale l’«Almanacco Romano», sulle tracce dell’Image interdite di Besançon, amerebbe promuovere nella Pasqua 2010 un seminario molto amicale in un qualche borgo italiano. Per intanto, pubblica nel corso dell’estate dei materiali per la discussione, pur sempre utili al di là del simposio ancora lontano.
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Al termine del XVIII secolo, Novalis tracciava un bilancio e avanzava una congettura metafisica in un frammento pubblicato su «Athenäum» (1799): «Poeti e sacerdoti erano in origine una cosa sola, e soltanto i tempi successivi li hanno separati. Il vero poeta però è sempre anche sacerdote, così come il sacerdote autentico è sempre rimasto poeta. Ora perché mai non dovrebbe l’età futura ripristinare questo antico stato di cose?». Fantasiosa ricostruzione storica, confusa e sofferta constatazione della scissione moderna, romantica profezia della ricomposizione di un supposto stato di cose originario, più pagano – andrebbe aggiunto – che cristiano. Dove mai c’era stato infatti un sacerdote poeta? Forse nell’antico Egitto, di certo in molte immagini dei filosofi presocratici, non certamente nel cristianesimo, anzi il cattolicesimo, riecheggiando la religio romana, aveva compresso ogni misticismo, evitando le figure profetiche, assegnando al sacerdote la consapevolezza e la lucidità, senza situazioni estatiche: si consacrano uomini che hanno studiato il diritto canonico, non degli ispirati (il carisma casomai scenderà dopo). Però quell’annuncio che il «ripristino» dell’artista-sacerdote sia alle porte coglie nel segno uno dei fenomeni principali della modernità e sul quale gli innumerevoli discorsi intorno alla secolarizzazione sono scivolati via senza trattenere una riflessione specifica alla storia dell’arte contemporanea. La leggenda della liquidazione di ogni arte religiosa – per parafrasare il titolo di una celebre opera schmittiana – non è stata mai confutata.
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Il Settecento teista e libertino volge al termine, affiorano qua e là le prime ipotesi della negazione atea, ed ecco il geniale romantico rivelare uno scambio di ruoli: il sacerdote viene allontanato dalla scena pubblica, al suo posto entra l’artista, non più ideatore ed esecutore egregio di un’opera estetica, bensì mediatore tra gli uomini e l’Assoluto. Calano i credenti nelle promesse cristiane ma crescono i fedeli della nuova religione dell’arte. A essa spetta le redenzione, non tanto, anzi non più, la cura delle forme, la creazione della bellezza che accarezza i sensi, ma una presuntuosissima promessa del Paradiso in terra. Il Beato Angelico o Raffaello o Velaquez non garantivano il Cielo, non pretendevano di sostituire le loro opere ai piaceri dell’aldilà, né tantomeno di mettersi al posto dei sacerdoti e dei vescovi. L’arte, la letteratura o la filosofia stavano accanto alla fede cristiana, potevano essere sublimi godimenti dell’aldiqua che difficilmente entravano in collisione con le faccende divine, casomai ne erano un anticipo, una allegoria. Ma l’ultima gilda avanguardistica del Novecento si presenta come una setta di redenti e annuncia una sua propria salvezza al pubblico che si vorrà schierare con essa. L’arte come gnosi, come spazio dove è ancora legittimo affrontare il tema salvifico, anche se sempre più denudato delle coloriture metafisiche e ridotto a disperato gioco.
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Spesso questa onnipotente arte si vuole anche sostituire alla politica, ed è la lunga storia dell’engagement, dai nazionalismi romantici ai ribellismi comunisti e anarchici. Nei recenti decenni, tuttavia, la politica subisce la medesima degradazione che toccò in sorte alla religione rivelata, ragion per cui l’arte si trova nella straordinaria situazione di ereditare tutto, dagli spiritualismi d’ogni sorta all’autorità del potere, dalla verità del dogma alla forza di legittimizzazione con la quale rende lecito ogni gesto, al carisma che transustanzia le cose. Vi corrispondono altrettante correnti artistiche degli ultimi due secoli, talvolta più di una per ciascuno di questi beni ereditati o forzatamente avocati dalla religione e dalla politica, che così appaiono estinte.
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Con la nascita dei primi gruppi organizzati, dei primi squadroni dell’avanguardia, grosso modo con quel Lukasbund (o Nazareni, come li chiamavano i popolani romani) che si ricollega ai ‘primitivismi’ quattrocenteschi per rilanciare la fede cristiana aggredita dalla modernità – quasi spettasse all’arte rialzare le bandiere della Chiesa di Roma –, fino al Wiener Aktionismus che, ricorrendo perfino ai paramenti liturgici cattolici, celebra sacrifici più cruenti di quelli dei misteri pagani, il collettivo artistico tende all’anonimato, vicino alla comunità di monaci, come sognava Wackenroder, collettivo di «operai di Dio» – secondo una definizione di Mario Praz per i Lukasbrüder – che saltano il tramite religioso, e costruiscono sul terreno estetico la casa della salvezza. Diretti messaggeri celesti, quasi angeli. Ma nessuno li ha investiti di qualcosa né li ha iniziati: da soli, con un talento via via meno dimostrabile, soltanto per volontà artistica e, talvolta, per conferma di un confratello, di un critico, di un mallevadore appartenente alla medesima setta cioè, si autoproclamano artisti e definiscono artistiche le loro opere. Viene a mancare il fondamento di una estetica precettistica, oggettiva, la perizia tecnica costatabile, la rappresentazione tradizionale di un oggetto. La stessa estetica diventa invenzione artistica, soggettiva come tutto il resto.
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Eppure, nonostante un secolo di sociologismi, a parte pochissime eccezioni – per esempio, quella luminosa di Hans Sedlmayr –, quasi nessuno ha tenuto a mettere in rilievo come l’arte moderna sia sorta sullo sfondo dell’ateismo, mentre si sono sprecate le analisi sulle connotazioni sociali delle arti del passato, che sarebbero state condizionate dal feudalesimo o dall’imperialismo. Qui però si tratta di questioni ben più cruciali delle coloriture sociali, si sta infatti toccando il cuore dell’opera d’arte, il suo carattere ambiguamente metafisico per cui un quadro che è il trionfo della materia e del piacere sensuale rivela al contempo un mondo nascosto, svelando qualcos’altro sia pure per una visione fugace. Allora, il venire a mancare l’ordinato universo gerarchico, dove Dio è il sovrano e gli angeli i suoi messi luminosi, in un mondo oscuro che ha bisogno vitale della luce celeste e che si pasce di ogni sia pur approssimativa apparizione, produce un serio squilibrio del quadro o della scultura. Ricacciata nella pura materialità, animata soltanto dall’ingegnosità esasperata dell’autore, che rasenta d’ora in poi l’esercizio mentale funambolico, l’opera d’arte nell’epoca dell’ateismo cambia il suo statuto e trasforma pian piano anche i suoi caratteri materiali. La bella pittura plastica diviene pompieristica decorazione mentre la nuova arte degli ‘operai di Dio’ si vuole sempre ascetica, gotica, primitiva, schiacciata, livida, dissonante, malinconica, insoddisfatta. L’infelicità diventa la cifra dell’avanguardia, anche quando si presenta ludica e scherzosa, nel migliore dei casi, Abrgrund-glück, felicità d’abisso, come chiude un verso Gottfried Benn. D'altronde, «non c’è arte se non c’è incarnazione, e in che cosa del resto si incarnerebbe se non nell’immagine dell’uomo e in quella del mondo quale si è rivelata all’uomo?» diceva il russo Weidlé.
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Ci si conforta con un luogo comune: in tempi angosciosi l’arte non può che essere angosciosa, teoria dello specchio nero, smentita però da secoli di storia dell’arte che in periodi travagliatissimi e inquieti seppe offrire una festa per gli occhi e per lo spirito, basti pensare al Rinascimento italiano. La storia dell’arte dell’Otto-Novecento è – salvo miracolose epifanie – quaresimale, mortificante, perché sembra chiedere sempre allo spettatore una prova iniziatica per accedere alla salvezza di cui l’artista è il sacerdote dispensatore. Novalis ha visto giusto, si può provare a rileggere le principali correnti moderne alla luce della sua profezia. Oggi, nelle tenebre, avanza a tastoni una umanità che ha perduto le mète, le speranze, i conforti sacramentali e perfino quelli simbolici della antica arte; vive nella bruttezza elevata a sistema dalla industrializzazione e vagheggia il bello come in nessuna altra epoca mai, perché la parentesi estetica permette ancora una fuoriuscita provvisoria, e forse illusoria, dall’inferno di una vita segnata dalla morte. Disposta a lasciarsi irretire dalle più sottili trovate e a giocarsi l’anima per degli scontati calembours metafisici, quella povera umanità si incammina in interminabili pellegrinaggi verso tutti i luoghi dove aleggia una parvenza d’arte, anche se sotto forma di parodia della bellezza. Nostalgia dell’Assoluto, dicono i sociologi. Delusa, ahimé.
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Avanguardia delle avanguardie fu la gilda, medioevaleggiante e volta al passato, dei Nazareni. Sotto l’incalzare della modernità, nel pieno delle guerre napoleoniche, son loro che per primi si organizzano in reparti d’assalto, ricorrono alle metafore militari, annullano l’individualità artistica nel gioco di squadra, impongono uno stile pittorico di gruppo, delle tecniche ‘ideologiche’ (l’affresco, per esempio), i manifesti con cui lanciare le proprie battaglie. Si tratta infatti di un’arte che concepisce dei nemici mortali: chi è contro di noi, diranno i pii pittori, chi non condivide il nostro progetto salvifico, è dannato. Così corrotta e dannata sarà tutta l’arte che non si mette al servizio di una visione del mondo: il cattolicesimo pre-rinascimentale per il Lukasbund come la modernità con un’anima per il Futurismo. Ma i Nazareni non si limitano a intraprendere per primi queste guerre estetiche della modernità, fondano l’avanguardia come ordine religioso, carattere che resterà impresso a ogni corrente che faccia tabula rasa dell’arte prima di lei e accanto a lei, anche di quelle che si ispirano a principi del tutto atei. Perché gli avanguardisti sono monaci di una religione dell’arte che si afferma quando il cristianesimo sembra subire i più duri colpi della storia. Non è un caso allora che proprio nella Roma cattolica, dove surrettiziamente (e inconsapevolmente), i Lukasbrüder introducono questa religione dell’arte, appaiano le prime icone di un simile culto. Il primitivismo dei neoquattrocenteschi diventa arma contro la storia, volontà di percorrere al contrario l’umana storia (così come altri, più tardi, tenteranno di accelerarla in avanti), ma il revival nasconde il nuovo, nulla forse più anticattolico dell’entusiasmo di questi pittori romantici che pensano di reinventare la tradizione a loro piacimento, che confondono Novalis con i Padri della Chiesa e Raffaello con i santi. C’è chi affresca un paradiso incantato sulle orme del Beato Angelico, ma nella gloria degli angeli e dei santi colloca pittori e poeti. I nuovi sacerdoti dell’Assoluto spiritualizzato provano a imporsi alla devozione dei fedeli.
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Più tardi l’intuizione di Novalis viene tradotta in filosofia da Schelling: religione che si trasforma in arte. Hegel ne trarrà le conseguenze: Assoluto che si rivela nella filosofia, morte dell’arte. Allora in molti si affanneranno su tale annuncio macabro, ricamandoci magari fantasiose utopie. Appena una stagione precedente l’altra terribile notizia della ‘morte di Dio’. Comunque, le principali teorie su questo tema, le metamorfosi dell’arte, vengono elaborate dalla cultura tedesca, poco esperta, almeno durante lunghi secoli, in questioni di belle forme, e tale penuria di forme viene compensata con spiritualità e concettualismo, due capisaldi dell’attività estetica moderna, mentre la bellezza diventa argomento tabù, quasi rimembrandola si evocasse l’antico cattolicesimo – che brillava come sostanza celeste della grande arte, e così la vide ancora Novalis –, cattolicesimo sul quale le teorie hegeliane, luterane, sembrano trionfare.
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Giunge infine Nietzsche e ne trae con decisione le conclusioni: «la musica, con un suo posto a parte rispetto alle altre arti, l’arte indipendente in sé, che non già, come queste, offre riproduzioni della fenomenalità, ma piuttosto parla la lingua della volontà medesima, cavandola immediatamente dall’‘abisso’ come la sua più vera, più originaria e più diretta rivelazione. Con questo eccezionale potenziamento di valore della musica, quale sembrava scaturire dalla filosofia di Schopenhauer, anche il musicista crebbe enormemente di valore e diventò ormai un oracolo, un sacerdote, una specie di portavoce dell’‘in sé’ delle cose, un telefono dell’al di là – da allora in poi non parlò soltanto di musica questo ventriloquo di Dio – parlò di metafisica…» (Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift). Le arti un tempo figurative impararono a piegarsi davanti alla musica, abolirono la figura e si fecero sue ancelle. Così divennero tutte telefoni dell’aldilà, mentre folle di artisti si spacciavano per ventriloqui di Dio.
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Dirà un novecentesco, lo scrittore spagnolo José Bergamin: «Se, per esempio, ci ricordiamo delle correnti più significative della pittura, cominciando da quella religiosa, che naturalmente non è una religione della pittura, ma al contrario una pittura della religione – una pittura teatrale della religione: una teatralità o popolarità religiosa – , per arrivare al cubismo che corre il rischio di trasformarsi in una religione razionale della pittura – o almeno in una morale religiosa del dipingere –, sarà facile mettere in evidenza in ogni pittore una mano felice o infelice nel suo modo naturale della pittura e prendere il coraggio a due mani per vedere quello che ogni pittura ha di riflesso e di trasparenza, di simulazione teatrale, di autentico simulacro, di idolatria e di verità, di invenzione o di creazione poetica» (La importancia del demonio y otras cosas sin importancia in «Los cuatros vientos» Madrid, 1933). Era insomma scontata la falsità dell’arte, anche quando illustrava la verità evangelica, e non ambiva a sostituirsi a quella verità. La moralistica ricerca dell’autentico (sempre contra la corruzione, gli inganni, dell’arte bella) si impone, dal movimento tedesco dei pittori romantici in poi, diventando il Leitmotiv di tutte le avanguardie.
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Allora, di fronte alle più allucinate immagini e anche alla distruzione allucinante delle immagini, ai desolanti procedimenti mentali che sostituiscono la sensuale imagerie di un tempo, ci si ripete che solo quest’arte negativa dà corpo alla disperazione contemporanea, scambiando la causa per l’effetto. Tra i pochi invece a ricordare come l’arte possa essere un freno al nichilismo contemporaneo piuttosto che una sua eco – senza per questo risultare puerilmente consolatoria – , Ernst Jünger ammoniva negli anni Trenta: «In una realtà come quella odierna, dove la vita di milioni di uomini è dominata dalle operazioni di congegni automatici e dove le forme si somigliano come in un salone degli specchi, la responsabilità dell’artista è particolarmente grande. Egli opera da solo per la moltitudine, e in nome di tutti deve offrire testimonianza che l’energia creatrice non è estinta. È lo spirito che gli guida la mano, che gli regge la penna, il pennello, lo scalpello».
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(I – continua)