giovedì 30 luglio 2009

L'eremita del Baltico volta le spalle all'uomo

LA RELIGIONE, BIASIMATA NELLE CHIESE E NEI MONASTERI, RISPUNTA NEI MUSEI. ~ MA È UNA RELIGIONE PROTESTANTE, AVVERSARIA DELLA SENSUALITÀ DEI «MIGLIORI ITALIANI», CHE SI AFFERMA PROPRIO QUANDO I PASTORI DEL GREGGE LUTERANO PERDONO PESO INTELLETTUALE E MORALE, CONTESTATI DALL’ILLUMINISMO. ~ IL CASO DI CASPAR DAVID FRIEDRICH CHIUDE LE QUATTRO PUNTATE SULLA STORIA DELLA «RELIGIONE DELL’ARTE» ~

Forse l’insofferenza romantica per l’arte come si era sempre fatta nasceva dal materialismo settecentesco, scaduto spesso in stucchevole prosa. Ed ecco che riecheggiando le ansie di Runge, morto prematuramente, il massimo rappresentante del romanticismo in pittura, Caspar David Friedrich, solitario che sarà preso a modello dai suoi tanti epigoni, osservare: «può la pittura, o qualsiasi altra forma artistica, venir esaurita, o non morirebbe come arte se ad essa non potesse venir posto un fine più alto?»[1]. Noi, con l’esperienza degli ultimi due secoli, potremmo rovesciare la domanda: porre un fine troppo alto non ha forse provocato la morte dell’arte?

Ancora una volta, è un comando religioso a intimare ai suoi contemporanei di essere moderni: «nessuno ha il potere di frenare la nostra grande epoca fatale, l’epoca dell’inquietudine e delle trasformazioni che si manifestano in tutti i campi, dalle arti alle scienze, giacché Dio stesso l’ha originata e la porterà dunque a compimento. Combattere il proprio tempo significherebbe dunque rivoltarsi contro l’Onnipotente, la qual cosa è lontana da me»[2]. Léon Bloy polemizzerà con il conte de Maistre con argomenti non dissimili: «non aveva capito che nel 1789 Dio aveva cambiato la faccia del mondo». Dio che aveva garantito i tempi lenti del feudalesimo con il suo carattere di eternità, adesso veniva invocato dai credenti nella storia, in una pericolosa identificazione con essa. Dove era però scritta la fatalità dell’epoca? Non appariva una tentazione satanica verso il peccato di superbia per cui l’inquietudine di sempre diventava segno di una catastrofe cosmica?

La storia detta dei precetti estetici che se fossero impartiti dalle accademie di belle arti susciterebbero scandalo, la storia si fa megafono della volontà divina, la storia impone i temi all’arte anche nei quadri che storici non sono. Quando Friedrich dipinge una chiesa in rovina, si giustifica: «è svanito il tempo della magnificenza dell’edificio sacro e dei suoi ministri, e dall’insieme in rovina è come sorta un’altra epoca e un’altra necessità di chiarezza e di verità»[3]. Che cosa diverrà mai l’arte se rifiuta la «magnificenza» a vantaggio di rovine e frammenti? Se la consolazione che ha fino ad allora rappresentato diventa forma luttuosa (non conforto del lutto), costruzione sinistra, memento mori senza resurrezione della carne e soprattutto senza carne e sangue, senza forma sensuale, puro concetto macabro?

Friedrich, l’eremita romantico, non teme di confrontarsi anche con l’aspetto sociologico della faccenda. Il numero degli studenti di arte cresce sempre più, che ne sarà di loro quando entreranno nella professione? Il fattore quantitativo diventa d’altronde un elemento essenziale della crisi dell’arte tradizionale. Fuori del numerus clausus delle botteghe d’arte, divenuta una libera professione, dove non si viene selezionati in base al talento ma accolti per libera volontà di ‘essere artisti’, è naturale che questo esercito di pittori, scultori, architetti combatta la sua prima battaglia nella concorrenza, e si formino perciò battaglioni di avanguardia che con teorie e pratiche stravaganti si vogliono distinguere dal resto delle truppe. «Alla base di tutto ciò non c’è forse un’ambizione sbagliata?» si chiede Friedrich. Nei tanti nuovi mestieri che stanno rubando le braccia all’agricoltura – come si diceva un tempo, quando appunto l’agricoltura imperava – avanza ora anche quello dell’artista. Nel giro di due secoli, i mestieri ‘creativi’ incideranno notevolmente nelle percentuali delle popolazioni occidentali, con un indotto che gareggia con la vecchia industria pesante, in un intreccio con moda, media, turismo, ecc. Ma questo è il nostro tempo. Nel primo Ottocento, ci si domandava ancora: «Bisogna ricorrere alla massa, a un esercito di pittori, per promuovere l’arte?». Nella interminabile guerra all’arte tradizionale, nelle battaglie per il nuovo assoluto che si ingaggiano dal romanticismo in poi, c’è pronto un esercito di artisti: «io chiedo, e lo faccio con particolare insistenza, si crede davvero che si possa inculcare in un uomo la ragionevolezza attraverso l’insegnamento delle regole e la meccanicità degli esercizi, quando la natura gli ha rifiutato predisposizione e inclinazione?»[4]. Domande ingenue, cui Friedrich aggiunge con maggiore innocenza: non sarebbe meglio che questa gente senza talento si preparasse a divenire abili uomini d’affari? I due mestieri diverranno uno solo nell’arte di domani.

Se l’eremita parla di questioni sociali è perché vi intravede profeticamente i segni del tempo, e Dio nell’epoca romantica si manifesta nella storia. Friedrich sembra meno radicale di Runge, quantomeno senza megaprogetti sull’essenza dell’arte, limitandosi a dipingere un quadro che è ancora un quadro e che al massimo fuoriesce sulla cornice per esuberanza magmatica. Però si tormenta anche lui sul fatto che non si possa tornare indietro, neppure se si fosse Raffaello redivivo, perché si è figli del proprio tempo e questo tempo moderno impone di separarsi dal passato, di frantumare la continuità delle generazioni e di credere solo al futuro, futuro che in un attimo è già nei rifiuti del passato, secondo la grande intuizione di von Baader. «Ogni epoca imprime a tutto la sua impronta», il marchio di una finora sconosciuta schiavitù viene imposto dal romanticismo all’umanità occidentale. Di questa lotta mortale con il passato, Friedrich parla con parole chiare: «Si combatte una guerra eterna contro il tempo, giacché laddove nel mondo qualcosa di nuovo cerca di assumere forma, per quanto sia vero e bello viene contrastato dal vecchio, dall’esistente e solo con la lotta e la contesa può farsi spazio e affermarsi, finché non subirà l’assalto di qualcosa di più nuovo, a cui dovrà cedere»[5].

Il mulino del tempo tutto macina, l’arte che sembrava echeggiare l’eternità del divino si fa ora effimera schiava del tempo, ma non del presente, che solo in quanto immagine quotidiana dell’eternità potrebbe avere una sua chance, schiacciato invece nella battaglia tra vecchio e nuovo carica di ansia perfino l’istante. Lo scontro degli adolescenti con i loro padri diventa allegoria di una umanità che romanticamente si maschera da adolescente, falsi giovinetti, trucco sfacciato e parodistico, per cui si dimentica o si dileggia la sapienza di secoli, e si ricomincia ogni giorno da capo, contro i padri, senza più diventare padri, senza generare, perché le opere sono votate a quell’«assalto di qualcosa di più nuovo», come dice Friedrich, che sicuramente le annienterà.

Friedrich è dubbioso nella teoria quanto è sicuramente innovativo nell’opera. Diffidente verso chi si autoproclama sacerdote del nuovo, vorrebbe conciliare ancora la semplicità del mestiere con l’attuale peso sociale che ha acquistato l’arte. Se si chiede come possa parlarsi di ‘progresso dell’arte’, risponde negativamente, ma poi si confonde con questa pazza corsa del tempo per cui il meglio sta sempre dopo. Ricorre allora a un obiettivo non troppo radicale, di genere: la pittura dei nostri tempi sarà quella di paesaggio. Così decretavano anche altri, così suonava bene in tedesco dove si era rimasti folgorati dalle interpretazioni goethiane della natura. Puntare sul paesaggio voleva dire mettere da parte la figura umana, o rimpicciolirla a tal punto, come farà proprio Friedrich, da tornare alle gerarchie medievali nelle proporzioni, girando definitivamente le spalle alla prospettiva rinascimentale e al suo umanesimo sotteso. Ma era anche un segno dello strano panteismo che aveva travolto l’antica arte dei giardini e prodotto la teologia neopagana che più corrode il cristianesimo rivelato e che si affermerà nel comune sentire. Senza Goethe, però, e neppure Campanella e Bruno, che ebbero pochi seguaci tra i pittori, e non fosse altro che per motivi cronologici, l’arte del Quattrocento fiorentino, o quella ‘lombarda’ di Leonardo e dei suoi seguaci, per non dire di Dürer, avevano già mostrato i segreti di una natura sottratta al materialismo e filtrata in un cristianesimo ‘eretico’ che pur sapeva distinguersi dal paganesimo. Nell’entusiasmo per la riscoperta ci si dimentica dei celebri precedenti e sembra di assistere all’avvento di un’arte più spirituale di quella che ritraeva gli umani o le scene storiche, perfino più sacra di quella che metteva in scena Gesù e i suoi santi. I paesaggi si caricano di grandi valori, l’«infinito orizzonte» che contengono rimanda direttamente a Dio.

Friedrich può meravigliarsi allora di coloro che «dipingono sempre il terso cielo italiano, libero da foschia, nella cui luce persino gli oggetti più distanti sembrano più vicini», accorciando magari la distanza incerta che è segno del Dio romantico. Già, per secoli si dipinsero italici cieli tersi, o turgidi di nubi leggere e dorate che si facevano nere e minacciose soltanto negli sfondi delle crocifissioni o nelle anticipazioni delle immagini apocalittiche. D’ora in poi, cieli scuri e nordici, e piogge e asfalti bagnati nelle innumerevoli scene impressioniste, rompendo anche in questa aspetto tematico con vecchie abitudini: i paesaggi che dovremo avere sempre davanti agli occhi servono ad allietare la vita nella nostra valle di lacrime, conviene che siano immagini solari, squarci di felici esistenze, possibilità di rivivere dei dettagli di paradisi in terra – e l’Italia era edenica per eccellenza – , non permettendosi l’arte figurativa quel gusto macabro che pure è consentito alla letteratura e in modo particolare alla poesia che può civettare con il tetro, perché poi si chiude il libro mentre l’opera della pittura se ne sta perennemente davanti a noi, e solo i barocchi osarono ripetere il memento mori anche in quadri non devozionali, facendoci sospettare che in quell’epoca il gusto del corpo si estendeva ad assaporarne con piacere anche il momento della decomposizione, frutto di una fede, dalla forma oramai perduta, nella resurrezione della carne.

Parlando dell’altro polo della pittura romantica tedesca, di quello dei Nazareni fiorito a Roma, Friedrich, già con il tono polemico incandescente delle future avanguardie, attacca duramente la fazione opposta. «Non è disgustoso e nauseante vedere esangui Madonne tenere in braccio Gesù Bambini affamati, le cui vesti sembrano fatte di carta? Va inoltre detto che l’insieme è spesso deliberatamente mal disegnato, con volute infrazioni alle regole della prospettiva lineare ed aerea. Tutti gli errori dell’epoca precedente vengono scimmiottati, ma il valore di quelle opere, il sentimento profondo, devoto e infantile che le anima, non può certo venir imitato meccanicamente, e questo non riuscirà mai a degli ipocriti, per quanto abbiano perfezionato la simulazione sino al punto di farsi cattolici»[6]. Friedrich svela gli artifizi della prima avanguardia storica (o preistorica, in quanto molto distante dal Novecento). Benché questa si voglia semplice e spontanea, nient’altro che un ritorno al passato religioso, alla tradizione, cela un insopprimibile artificio, in quanto il retrocedere è una simulazione, una messa in scena, un primitivismo esibito in chiave estetica, una religiosità che ricorre alla filosofia dell’arte. La simulazione si è perfezionata al punto da convertirsi alla ‘religione bella’, ma la differenza tra cattolicesimo e protestantesimo sta proprio nel resistere, da parte del primo, alle sollecitazioni romantiche. Dal punto di vista luterano, la critica di Friedrich investe l’infantilismo di ritorno: i nostri avi erano veramente candidi come bambini e potevano accettare i misteri liturgici e il culto delle immagini, ma adesso come si fa a mantenere un tale abito forzatamente infantile? «Se persone adulte facessero i loro bisogni nella stanza come i bambini, questo non verrebbe certo giudicato favorevolmente né tanto meno accettato»[7]. Il paragone è pesante, diventare cattolici per artifizi estetici sarebbe come defecare in pubblico, atto di demenza cui si piegano i pazzi dichiarati, come Nietzsche dopo la crisi di Torino. Ma Friedrich sembra non prevedere quell’infantilismo dichiarato e militante che già Runge ideava e che tutte le avanguardie o quasi tenteranno di conquistare. Infanzia sta letteralmente per coloro che non parlano ancora, che sono ai balbettamenti, alla comunicazione pre-logica. L’arte nuova partirà da questo stadio, e ove non fosse in grado di raggiungere un verosimile livello infantile, se insomma la scrittura automatica o altre trovate non garantissero l’assoluta in-fanzia e tradissero folgorazioni razionali, le droghe permetterebbero l’impossibilità di ragionare, il primitivismo coatto. Farsi piccoli come infanti attraverso le soluzioni chimiche per una iniziazione moderna che consenta di conquistare il Regno dei Cieli.

L’eccessivo ricorso al colore, secondo Friedrich, rispecchia il suo tempo: «Ognuno vuole imporsi con violenza, ognuno vuole superare l’altro»[8], magari anche nella nobile gara di chi è più spirituale, di chi non si lascia irretire dalla meccanica verosimiglianza. Ma il risultato è che il colore grida, che l’opera conosce soltanto il tono dionisiaco, vergognandosi delle delicatezza apollinee, che si gareggia nei radicalismi, che la violenza si trasfigura in arte o meglio l’arte si riduce a gesto violento, sulla tela e più tardi sulla scena della performance. Il dubbioso artista pomerano sa ricordare, non si è piegato a tal punto davanti agli imperativi dei contemporanei da dimenticare le opere di un tempo, il loro fulgore. Eppure è così folgorato dalla nuova voga spiritualista, dai comandamenti etici interiori, da risolversi alla fine nel preferire l’idea dell’opera al suo aspetto materiale. Egli lamenta infatti che spesso viene criticato chi «sa stimolare lo spirito e suscitare nell’osservatore riflessioni e sentimenti», mentre «troppo spesso giudicano il valore di un quadro solo in base al grado di perizia e di abilità nell’uso del pennello, nel trattamento e nell’applicazione del colore». Ebbene, bisognerebbe tener presenti i due corni della ricerca artistica ma, ammette, «se dovessi scegliere, preferirei annoverarmi tra i primi»[9].

In un’altra pagina tornerà sull’argomento: c’è chi crede che «il pittore deve limitarsi a dipingere, non deve volere![…] Io dichiaro apertamente e liberamente che mai e poi mai potrò concordare con una simile concezione»[10]. Del resto una simile concezione riporterebbe alla situazione del pittore artigiano, mentre in cuor suo l’artista si convince oramai di essere ispirato direttamente da Dio e di parlare in suo nome all’umanità. «Devo ripetere quello che ho già detto più volte, ossia che l’arte non è, e non dev’essere, unicamente abilità tecnica […]. È invece necessario che sia il linguaggio della nostra sensibilità, del nostro modo di essere, la nostra devozione e la nostra preghiera»[11]. Se il filosofo dice un po’ cinicamente che la nostra preghiera mattutina è diventata la lettura dei quotidiani, l’artista ancora una volta sembra salvare il delicato aspetto del sacro, la nuova preghiera perciò sarà la recezione dell’arte, la contemplazione di un quadro romantico. Quando qualcuno sostiene che «sia un bel viso […] che un bel deretano sono soggetti degni per l’artista, essendo entrambi parte della natura, e il Creatore si rivela all’uomo attraverso la bellezza…», Friedrich tiene subito a dire che «questa opinione sull’arte» che corrisponde «a quella dei migliori greci e dei migliori italiani, confesso che non mi aggrada. Da un’opera d’arte io esigo elevazione dello spirito e impeto religioso..»[12]. La religione che viene dannata nelle chiese e nei monasteri deve rispuntare nei musei. Una religione protestante, certo, avversaria della sensualità dei «migliori italiani», che si afferma mentre i pastori del gregge luterano perdono peso intellettuale e morale, contestati dall’illuminismo. Una libera interpretazione della natura che prende il posto di quella del testo sacro, una ricostruzione soggettiva della spiritualità affidata ai pittori. E fuori dalle chiese Friedrich dipinge il suo Crocefisso, icona di un nuovo culto.

Epilogo. - La commistione religione-arte raggiunse il massimo, come è noto, nella filosofia di Schelling. In un discorso pronunciato a Monaco di Baviera sul rapporto tra Le arti figurative e la natura, il teorico idealista mostrava come ormai la vecchia tecnica dei pittori servisse addirittura a concedere agli umani l’unica esperienza di immortalità, quella in qualità di spettatori, davanti a un quadro che sottrae, appunto per miracolo estetico, l’attimo alla morte. Se ogni prodotto della natura «possiede per un solo istante la vera bellezza perfetta, possiamo allora dire anche che possiede per un solo istante la pienezza dell’esistenza. Esso è in questo istante ciò che è in tutta l’eternità: al di fuori di quell’istante lo attende solo il divenire ed il perire. L’arte, rappresentando l’essenza in quell’istante, la sottrae al tempo; la fa apparire nel suo puro essere, nell’eternità della sua vita»[13]. In mancanza di altra, più certa, immortalità.

Quando la carne sembra destinata alla dissoluzione, si afferma questa fugace visione dell’immortalità, per cui l’arte blocca, come Giosuè, il tempo nei limiti di un quadro. Ne deriva però un’arte molto malinconica che trapela perfino nel tema neutro dei paesaggi. Del resto, Et in Arcadia ego: così parlava la Morte in un paesaggio ‘classico’ di Guercino. Rendere viva una natura morta è ben magra soddisfazione se il quadro diviene l’unica speranza di sopravvivenza ed è perciò caricato di significato smisurato. Unico accesso all’Infinito. Un uso strumentale della pittura, un soterismo per via estetica, dove il pittore naturalmente deve badare a cogliere l’attimo e trasformarlo in eternità, sacerdote o mago. Eppure, «certo, non ritornerà mai più un’arte che, sotto tutti gli aspetti, sia la stessa di quella dei secoli precedenti, giacché la natura non si ripete mai. Non ci sarà mai più un Raffaello» e per raggiungere «la vetta dell’arte in un modo altrettanto originale» ci sarà bisogno di «una nuova fede»[14]. Della poesia non si sarebbe detto alla stessa maniera: Goethe era lì a smentire quanti avevano affermato che l’età dell’oro di Omero e di Shakespeare era per sempre terminata. E la musica, con Beethoven, si presentava autentica arte dell’avvenire, senza però rompere con la tradizione di Haydn e di Mozart, sempre più assoggettando casomai le arti figurative fino al punto di farle astratte come lei, sottoposte alla sua preminenza gerarchica.

È allora l’arte sensuale, la raffigurazione dei corpi che pare avviarsi al tramonto, dal momento che la credenza nella «resurrezione della carne» contrasta con la fede moderna nello spiritualismo. Ormai l’ateismo si combatte sempre a colpi di spiritualismo, perciò il primo risulta sempre vincitore. Arte e Grazia, arte in ogni aspetto sacra, dunque. A un drappello di pittori tedeschi Schelling affidava il compito di far sorgere l’arte nuova e la nuova fede, e sembrava annunciare profeticamente la congrega dei Nazareni: «Chi può negare che negli ultimi tempi sia apparsa di nuovo nell’arte tedesca una sensibilità molto più libera e originale che, se tutto andasse per il meglio, alimenterebbe grandi speranze e creerebbe l’attesa di una spiritualità in grado di aprire nell’arte la stessa via, più alta e più libera, che la poesia e le scienze avevano percorso, e sulla quale soltanto potrebbe germogliare un’arte che potremmo definire veramente nostra, cioè un’arte dello spirito e delle forze del nostro popolo e della nostra epoca?»[15]. A udire simili annunci, sulle rive del Mediterraneo, si saranno provati già allora dei brividi di paura.

(4. fine)
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[1] C. D. Friedrich, Äußerung bei Betrachtung einer Sammlung von Gemälden von größtenteils noch lebenden und unlängst verstorbenen Künstlern, trad. it. Scritti sull’arte, Milano, 1989, p. 38.
[2] Ivi, p. 39.
[3] Ivi, p. 42.
[4] Ivi, pp. 43-44.
[5] Ivi, pp. 47-48.
[6] Ivi, p. 58.
[7] Ivi.
[8] Ivi, pp. 58-59.
[9] Ivi, pp. 59-60.
[10] Ivi, p. 67.
[11] Ivi, p. 79.
[12] Ivi, p. 81.
[13] Fr. W. Schelling, Ueber das Verhältnis der bildenden Künste zur der Natur, trad. ital. Le arti figurative e la natura, Palermo, 1989, p. 52.
[14] Ivi, p 71.
[15] [15] Schelling, Geschichte der zeichnenden Künste in Le arti cit., p. 87.