mercoledì 31 marzo 2010

Il Principe di Afragola

~ MINIMA, VERAMENTE MINIMA SUI FATTI DEL GIORNO ~

I poveri corrispondenti delle gazzette straniere restano sbalorditi, scandalizzati e in fondo contenti nel paese di Machiavelli: come i viaggiatori di un tempo sospettano molto e di tutti, concludendo spesso che si tratta di un covo di scellerati in cui è meglio essere di passaggio. A loro uso e consumo si riepiloga allora un’immagine che sa di déja vu – meridione spagnoleggiante, barocchismo camorrista, dissimulazione disonestissima –, ma che annichilisce le analisi interminabili dei nostri giornali, sempre smentite a ogni nuova elezione.

Fin da subito, sulla rete e nei telefoni ormai senza fili dilagava l'altro giorno il timore e tremore di cortigiani e cortigiane per l’arrivo dei nuovi boss che avrebbero deciso del denaro pubblico da distribuire a mostre e fiere, a musei capricciosi e a imprese impalpabili quanto costose. Se ne è fatto speciale interprete un giornale online che può vantare cinquantamila lettori al dì, «Exibart», il quale sotto il titolo preoccupato «E adesso cosa succederà all’arte e alla cultura?» si interroga a proposito di un museo napoletano: «continuerà ad avere il ruolo e i finanziamenti che ha avuto in quanto fiore all’occhiello di un principe che non c’è più?». Il Principe in questione sarebbe il simpatico Governatore uscente che nell’ultima riunione della sua giunta ha destinato venti milioni di euri al museo in questione (quello, per capirci, che si diverte con la parodia della crocifissione, ovvero con il luogo comune delle parodie da millenni: che altro facevano coloro che nel pretorio incoronavano di spine la vittima, buttandole pure addosso uno straccio rosso a mo’ di mantello, per appellarla poi ‘Re dei Giudei’?). Ben più impudico che qualsiasi altro interprete della body art il Governatore, autentico performer che supera i suoi circenses a libro paga.

Venti milioni di euri, un contributo pubblico da record, onde permettersi gli spassi annuali di un museo contemporaneo. Una cifra unica al mondo per il futile blasfemo nella città ricoperta di monnezza. Venti milioni di euri per sovvenzionare l’estetismo kitsch nel regno dell’emergenza continua, in un posto che «è teatro stabile di scippi, furti, rapine, evasione scolastica», come recita con autoironia, o autocompiacimento, una voce di Wikipedia. Che l’Elargitore non incontri più un Masaniello che voglia impiccarlo, neppure a parole (nessun pernacchio mediatico dei giornalisti proni), che anzi possa trovare chi lo rimpiange come patron di presunte arti è segno di un cinismo raro, che spiega bene le altre meravigliose anormalità del Belpaese. E la resa dei conti a ciascuna tornata elettorale.

martedì 30 marzo 2010

Il corpo divino in mostra


~ DIVAGAZIONI SULLA LITURGIA DELLA DOMENICA DELLE PALME. ~ LA PAROLA E L’IMMAGINE, LA MISTICA E IL LOGOS. ~ UNA ESPOSIZIONE A TORINO RACCONTA COME LA BELLEZZA FU ILLUMINATA DALLA DIVINA INCARNAZIO NE ~

La Domenica delle Palme, secondo il rito Vetus Ordo, dei drappi viola nascondono alla vista le immagini sugli altari ma la parola evangelica, il racconto della Passione, nel canto a varie voci della Messa solenne – da lì sarebbero scaturiti quei capolavori della musica d’Occidente che sono la Matthäus-Passion e la Johannes-Passion di J.S.Bach – sostituisce la Biblia pauperum, egemonizza tutti i sensi. La parola e l’immagine non sempre vanno d’accordo. Si intrecciano nei rebus o nei più delicati calligrammi, e nei suoi derivati come certi quadri di Magritte, ma talvolta ricordano il cieco e lo zoppo che si accompagnano per rimediare alle loro infermità.

È lecito che in straordinari momenti tragici l’arte pittorica accenni a una resa, mostri l’impotenza delle umane tecniche a dar conto di quello che va al di là della nostra vita, a rappresentare quanto sfugge ai sensi. L’impossibilità di rappresentare non è pertanto riducibile al manierismo dell’ornamento, alle composizioni di colori insensate, agli svolazzi che seguono l’orlo del capriccio, bensì si traduce nel silenzio, nel nascondimento dell’immagine, nel velato. Così come l’indicibile nella scrittura non mimerà le balbuzie e le insensatezze degli ubriachi ma lascerà uno spazio bianco dopo il punto che mette termine a un discorso.

Dante è un luminoso esempio di chi si spinse fino alle regioni supreme, tentando allo stremo di descrivere, raccontare, dire, appunto. Se accostandosi ai discorsi fondamentali, come di fronte alla morte o alla violenza dispiegata, può venir meno la parola o l’immagine non riesce a trovare una forma, subito dopo torna a imporsi il Logos. Altrimenti si sarebbe dannati alla stoltizia eterna. La mistica non prescinde dal racconto storico né sostituisce il Vangelo e il suo commento. Altrettanto si può dire della pittura: ecco le immagini velate dei giorni luttuosi nel calendario liturgico, poi dovrà tornare al suo immenso compito, illustrare la narrazione evangelica e la testimonianza di essa nel corso dei secoli, sostanziare il discorso della incarnazione, incarnare cioè le parole salvifiche. Guai se, come certe immagini moderne, mostrassero per tutto l’anno, davanti ai fedeli genuflessi, l’impotenza di parlare delle cose celesti, l’intraducibilità dei discorsi che il Figlio dell’uomo fece in modo piano ai suoi contemporanei. «A sua immagine» non può divenire uno sgorbio mistico, la caricatura del discutibile aforisma di Wittgenstein che sbarra la strada al pensiero, di quel cartello stradale del nichilismo già assai buffo di per sé.

La Domenica delle Palme ci racconta anche di piccole folle che accorrono nelle strade di Gerusalemme perché vogliono vedere il messia. Non bastava loro una icona ascetica, una comunione spirituale, quella epifania che apre i giorni supremi dell’anno liturgico è, una volta tanto nei Vangeli, un fatto pubblico, un misto di devozione e di umana curiosità, di riconoscimento e di mondanità nel senso più pieno del termine. All’incirca le medesime motivazioni che spingono le folle di oggi a scrutare la Sindone. Gli spiritualisti criticheranno il feticismo, l’idolatria del pellegrinaggio a un lenzuolo con l’immagine misteriosa di un uomo; i protestanti assicurano che si tratta di un culto estraneo al messaggio evangelico, noi abbiamo ancora nell’orecchio le parole addolorate di Sergio Quinzio quando seppe che un’analisi con il Carbonio 14, poi rivelatasi fuorviante, negava l’autenticità della tela. L’errore della scienza del tempo non metteva in discussione la sua fede, faceva perdere piuttosto un dono singolare ai sensi dell’umanità.

Dunque, il messaggio evangelico della Domenica delle Palme, con buona pace dei protestanti, ci testimonia di quello speciale culto del corpo messianico, dei mantelli stesi sulla strada dove passava, delle fronde agitate come di fronte a un sovrano. Domani nella Reggia di Venaria a Torino si apre la mostra «Gesù. Il corpo, il volto nell’arte» (fino a tutto il mese di agosto). Il combattimento tra la mistica e il Logos, quel contrasto tra la concezione di Dio e il corpo umano ben individualizzato con cui «venne ad abitare tra noi» è il tema dominante di alcuni secoli della storia dell’arte occidentale. Dall’Umanesimo in poi, la pittura e la scultura soprattutto italiane provarono a mettere in figura la paradossale situazione. E così facendo la bellezza umana fu illuminata dal divino.

domenica 28 marzo 2010

Citazione L'immortalità

Charles Maurras: «Dovevo avere sei o sette anni; ero agitato, talvolta travolto da una piccola Histoire de France, domande e risposte, quanto si può immaginare di più secco e di più distaccato, ma dove passavano i grandi regni e i grandi uomini. Quel che me li rovinava è il fatto che morivano tutti! Carlo Magno fu il mio uomo finché arrivò il giorno in cui mi accorsi che la frase ‘si spense a Aix-la-Chapelle’ voleva dire che anche lui aveva subito la sorte comune. Dovetti ripiegare su un oscuro carolingio di cui si erano dimenticati di scrivere la data di morte. A lungo fu questo per me il vero vincitore della Storia!» (riportato in Maurras et notre temps di Henri Massis, Plon, 1961)

giovedì 25 marzo 2010

Mistero ocra

~ «VEDRÀ L’ONESTO VISITATORE», CHE PER CASO ENTRI ALLA GALLERIA D’ARTE MODERNA DI ROMA, I QUADRI DI FAUSTO PIRANDELLO DOVE LA QUOTIDIANITÀ DESOLANTE AMATA DA TANTE AVANGUARDIE SI TRASFORMA IN PITTURA. ~

«Ho provato a uscire dal casuale e dall’occasionale per quanto mi fosse possibile e per quanto ne valesse la pena». Così diceva in una nota modesta di presentazione della sua pittura Fausto Pirandello. I più idolatrati luoghi comuni del romanticismo e poi delle avanguardie, il Casuale e l’Occasionale, erano evitati con una manovra avveduta, che li svuotava della loro sacralità: quanto varrà mai assoggettarsi alle strategie dell’arte? E, sempre fedele al sottotono, in un altro scritto chiamava in questo modo a testimone della probità di intenti: «vedrà l’onesto visitatore…».

Se l’«onesto visitatore» in un pomeriggio pigro di marzo vuole partecipare a una inaugurazione di pochi alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, dove si allestisce «Fausto Pirandello alle Quadriennali del 1935 e del 1939», deve prima attraversare un’ampia sala riempita di oggetti, un set di insegne pubblicitarie smontate, che non ostentano il tono beffardo del trovaroba surrealista, né tampoco il freudiano Unheimliche, bensì esumano risate di coattoni che si misero a copiare trovate americane con la voglia, sembra evidente, di far soldi miracolosi. È la rassegna del pop italico, tirato fuori dai magazzini o dalle consuete nicchie dove non colpisce più l’occhio assuefatto a ben altro, messo in mostra con la scusa di vivificare le collezioni, ossia toglier loro la polvere, o forse giustificare un acquisto collocato subito in cantina; ma gli oggetti inanimati restano tali, inutile testare i gusti dei posteri, né per tali balocchi di adulti s’accende la nostalgia, «cattive cose di pessimo gusto». Si sale quindi a un primo piano inzeppato di video ‘femministi’– resti di iniziative espositive viennesi – e, pur procedendo a passo speditissimo, lo sguardo distratto resta impigliato in raffigurazioni ossessive di gesti quotidiani delle donne, spazzolature dei capelli, armeggiare in cucina. Ora la medesima quotidianità si ritrova nelle salette dedicate alla pittura di Pirandello, magari in chiave più oziosa (bagni, spiagge, abbandoni sui letti) – mescolata a piccoli miti provinciali, echi del picassismo imperante, devozioni a Bracque, con impianti cubisti depurati d’ogni avanguardismo e più simili a cosmologie presocratiche –, ma non si frequenta impunemente de Pisis e de Chirico a Parigi, la quotidianità diventa pittura, buona pittura, questo il punto, mentre nelle sale dell’«avanguardia femminile» l’ordinario, benché avvolto d’aura feticista, resta documento sociologico, forse utile in un’università che studia simili temi, fuori luogo in un museo. L’«onesto visitatore» della piccola rassegna pirandelliana viene invece irretito dall’ocra e dal grigio, dalla patina arcaica che trasforma mediocrità e bruttezza pur non rendendole affatto belle. Animaleschi restano volti e corpi, maschili e femminili – questa mancanza di beltà è un forte segno del ‘moderno’, testimonia in incisive forme l’incanto perduto. Con il brutto, il selvatico, il tanfo del bordello, i sorsi di vino pesante e annichilente, i cori di sgraziati sullo sfondo, eccoci reso un universo combusto, fuoco empedocleo, senza ricorrere al gesto puerile di bruciare la plastica fuor di metafora, come in esempi conservati più in là in questi stessi ambienti. Una greve modella si stende nel quadro della Pioggia d’oro, intitolato così forse per evocare gli splendori del mito, ed è un’apparizione che attesta come anche attraverso miseri elementi un artista sappia far splendere il mondo. «Magischer Realismus» fu la formula cui ricorse Ernst Jünger, dopo il «realismo magico» dechirichiano, per decifrare i segni degli oggetti quotidiani, per la loro ermeneutica. Realismo senza orologi e senza Storia, dunque pieno di mistero, ma un mistero nient’affatto oscuro.

La critica saprà abusare piuttosto dell’aggettivo crudo (non a caso tale qualificazione fa parte del gruzzolo dei più ripetuti epiteti nelle recensioni, secondo l’enumerazione che una letterata americana si è recentemente divertita a fare), magari per non dire osceno. Come infatti l’osceno, il violentemente arcaico, possa avere una valenza metafisica è una bella questione, che Girard riuscirebbe a chiosare da par suo. Non la «futile violenza espressionista», come scrisse saggiamente un suo amico introducendo un catalogo, sarebbe più giusto ricorrere al senso del peccato, alla soverchieria del nostro stare al mondo, quell’intreccio tra eros e peccato di cui i migliori pittori hanno saputo sempre dirci qualcosa e che negli anni Trenta del Novecento sembrava trovare il suo ultimo asilo nella Penisola paradisiaca.

mercoledì 24 marzo 2010

Citazione Gusto protestante

François-René de Chateaubriand: «Trattando come superstizione la pompa degli altari, come idolatria i capolavori della scultura, dell’architettura e della pittura, la Riforma tendeva a far sparire l’alta eloquenza o la grande poesia, a deteriorare il gusto…» (da Essai historique sur les révolutions, 1797).

lunedì 22 marzo 2010

Penitenza sensoriale

~ MINIMA ~ AVVISO AGLI ICONOCLASTI CRISTIANI ~

Dalla Domenica di Passione, che precede quella delle Palme, fino alla notte del Sabato santo, la tradizione cattolica impone che le immagini siano velate. Anche quelle della sofferenza di Cristo che in quei giorni si commemora. Perché perfino le scene più atroci, dipinte dagli artisti, sono un balsamo per gli occhi e per l’anima, mentre nel periodo culminante dell’anno liturgico si deve provare lo sconforto che accompagna l’uccisione del Dio fatto uomo: se «vi è sempre dopo la morte di qualcuno come una stupefazione che si sprigiona, tanto è difficile da comprendere il sopravvento del nulla e rassegnarsi a credervi», secondo Flaubert a proposito di Madame Bovary, figuriamoci per il massacro del Giusto, per l’ultimo respiro del Messia che aveva promesso la vittoria su quella morte.

All’interno delle chiese moderniste, invece, nella penitenza quaresimale dei sensi o nel giorno giubilante di Natale, non c’è differenza. Sempre la medesima desolazione. Allora, che gli iconoclasti cristiani, per eccesso spiritualista, per tentazione gnostica, per «negazione irosa», per pauperismo radicale che vuole fare a meno anche della bellezza, insomma che tutti i diffidenti verso l’iconodulia entrino in questi giorni alla Trinità dei Pellegrini, parrocchia che prega in latino seguendo il rito millenario: non soltanto proveranno la sofferenza per l’immagine sottratta – la deprivazione sensoriale, del resto, è una forma di tortura –, percepiranno anche il dolore del nulla, quando il sacro si nega alle belle forme della pittura. Invano si cercheranno sugli altari – come le chiese di un tempo ci hanno abituato a fare – i racconti per la vista, la presenza dei corpi, l’evangelo per eccellenza che annuncia un Dio con il nostro involucro di pelle e ossa. Si proverà così, solo in giorni speciali e terribili, il terrore di perdersi senza più il limite, senza le figure che riempiono lo spazio.

Sperando nella riconciliazione tra la classica «bellezza del sempre» e la gotica «bellezza del mai» (R. Borchardt), nella notte della Resurrezione rivedremo con le immagini svelate anche l’incarnazione dell’arte.

domenica 21 marzo 2010

Mobilitazione generale

~ MINIMA ~ L'INGRESSO DELLA PRIMAVERA NEI CALENDARI LAICI E DI MASSA ~

La giornata della poesia istituita per ordine di una sottospecie dell’Onu, con mobilitazioni planetarie e radio gracchianti versi; la giornata della memoria imposta per legge del parlamento. Al cuore si vuol comandare. L'organizzazione delle emozioni, gli agit-prop dei sentimenti. Ovvero, lo stalinismo in altre forme.

giovedì 18 marzo 2010

Citazione L'utopia del museo

Jean Clair: «Se gli dei avessero proposto a Edipo cieco di restituirgli la vista, avrebbe accettato? Dato che il fardello della colpa cresce nella misura in cui la civiltà progredisce, la cecità sarà sempre più necessaria a farcene accettare il peso. Sembra dunque evidente che la soddisfazione degli istinti e, in primo luogo, la soddisfazione della pulsione scopica della visuferazione [neologismo inventato da Clair, in assonanza con vociferazione e orripilazione, per indicare quello che la psicoanalisi chiama ‘pulsione a vedere’ (ndr)], diventerà sempre più imponente, ma di sicuro talmente furtiva e superficiale da richiedere soltanto oggetti grossolani, per soddisfarsene, come si dice, alla bell’e meglio.

L’utopia del museo consiste nel fatto che ciascuno, dal bambinello al lavoratore straniero, fino al dirigente, si unisca alla piccola élite che in piena coscienza ha scelto il piacere artistico come altri hanno scelto di amare uno sport o leggere romanzi polizieschi; consiste anche in una pericolosa illusione e in definitiva nella mancanza d’attenzione che ci rendono vulnerabili allo sguardo della Gorgone.

La gran folla che si accalca all’entrata delle mostre non è il segno che la ‘cultura’ ha sfiorato con la sua grazia l’intero corpo di una nazione, ma al contrario è il segno inquietante che abbiamo abbassato la guardia». (Da Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Leonardo 1989, p. 188).

sabato 13 marzo 2010

Anacronismi

~ SI PARLA TANTO SUI GIORNALI DELLA MOSTRA RAVENNATE DEI PRERAFFAELLITI MA NON SI FA PAROLA DEI NAZARENI, I LORO ANTESIGNANI GERMANICI CHE RILANCIARONO IL CULTO DEL REVIVAL. ~ PICCOLA RIFLESSIONE IN MARGINE SUL GUSTO RETROGRADO, COSÌ SIMMETRICO A QUELLO AVANGUARDISTICO ~

«Non scherniamo anche noi assieme a Cam
la nostra propria natura e la nudità del nostro padre
nei barbari, nei selvaggi, ecc.?»
J. G. Hamann, Meditazioni sul Trattato di Newton

Nei numerosi interventi giornalistici in occasione della mostra dei Preraffaelliti appena inaugurata a Ravenna, compresi i lunghi inserti che si usano per promuovere il pacchetto turistico, si citano a piene mani Garibaldi e Ruskin, mazziniani in esilio e regina Vittoria, ma non si fa parola in genere dei Nazareni. L’austro-tedesca confraternita dei Lukasbrüder precedette di circa un trentennio la confraternita di Rossetti e, più direttamente legata al romanticismo, riscoprì il medioevo pittorico, rifiutò la plasticità rinascimentale, teorizzò il ritorno all’affresco, la piattezza anti-illusionistica, la pittura religiosa, il culto di Dante, l’Italia dei sogni. Come si vede, tutti i motivi dei Preraffaelliti furono agitati dai Nazareni. A cominciare dal rapporto complicato con Raffaello. Ma soprattutto i britannici devono alla gilda germanica il gusto retrogrado (nel senso etimologico: che si volge all’indietro).

L’«esule estetico», in volontario esilio dalla sua epoca, è alla ricerca di altre età, altri stili. Chi, come Hölderlin, si rivolse ai greci e chi ai Quattrocentisti italiani.

Uno storico dell’arte interessato al fenomeno della fuga dal classico, dell’arretramento infinito verso l’imperfezione arcaica, Lionello Venturi, decretò: «La scoperta dei primitivi fu opera internazionale compiuta in Italia»[1]. La pratica del ritorno ai primitivi ebbe per teatro Roma. I Nazareni, tra gli altri, ne furono gli artefici. Tra le cause: erudizione, collezionismo, spirito archeologico, culto del revival dopo che la storia aveva chiuso un ciclo, distrutto il passato (come fosse una lunga e barbarica preistoria), indicato un futuro che, appena realizzato, già deludeva. Allora, appunto, ritorno a

In principio, alla fonte del primitivismo, fu Giovan Battista Vico. Lo sostiene un filologo come Erich Auerbach, e certo gli «stupidi, insensati e orribili bestioni»[2], via via selvaggi quanto poetici, è un attraente manifesto del primitivismo. Ma non era tornato indietro di secoli anche il nostro Rinascimento? E il medioevo forse guardava avanti? Una mostra che si apre in questi giorni ai Musei Capitolini, dedicata alla nascita del linguaggio artistico nella capitale mediterranea tra il III e il I secolo a.C., mette in evidenza la predilezione per l’arcaico che i conquistatori dei greci ostentano dopo le mode ellenistiche.

Rincorsa al primitivo, all’arcaico, che non ha fine. Fidia aveva posto «l’intelligenza divina in una forma umana», l’artista cristiano colloca «l’intelligenza divina in una forma divina», e siccome quella forma è «emanazione di Dio», l’opera d’arte «è santa, non più condannabile». Scompare dunque il verismo, il naturalismo, la ricerca prospettica, i concetti classici di perfezione: «la presenza di Dio permetteva a ogni artista di raggiungere d’un subito, con uno slancio mistico, la perfezione»[3].

Alberto Savinio, che visse in un’epoca in cui il gusto dei primitivi era moda snob, annotò con lucidità che «la stilizzazione del gusto è segno di gusto incerto. La stilizzazione del gusto ha marciato di concerto con la stilizzazione delle arti»[4]. La bramosia del primitivo scoccava quando le incertezze paralizzavano l’artista e l’arte. Ricercare il ‘primitivo’ significava anche avversare l’arte ‘storicamente realizzata’, praticata per secoli dai massimi artisti, definita nella civiltà occidentale, per sondare a grande profondità un qualcosa di incerto ma sicuramente diverso dall’arte quale è stata, una confusa miscela col religioso, con l’animistico. Fino al trasformarsi, nelle avanguardie, in vera avversione nei confronti dell’arte, sua negazione.

Winckelmann aveva prefigurato anche i preraffaellismi, e gridava allo scandalo per la corruzione che segue Fidia come Raffaello. Ispirarsi a coloro che vissero «prima di Raffaello», prima della Grande Corruzione, prima della Grande Empietà (Fichte). Solo con il Raffaello pittore di Madonne anche il cuore protestante si sentiva commosso e, almeno sulla soglia del XIX secolo, non temeva quell’idolatria della madre di Dio che sospettava sempre accompagnare le devozioni cattoliche. Del resto, i teologi cristiano-ortodossi russi, ancor più ostili alle immagini cattoliche, si erano lasciati soggiogare dalla raffaellesca Madonna Sistina, ma gridavano contro i quadri del Rinascimento italiano che, con l’introduzione della prospettiva, avevano aperto le porte a un’arte illusionistica, dell’inganno. Uno di loro, straordinaria figura di scienziato oltre che pope, teologo, filosofo e studioso d’arte, Pavel Alexandrovic Florenskij, insegna, ancora negli anni del Novecento, che «la scenografia vuole, per quanto possibile, sostituire la realtà con la sua apparenza[…], è inganno, anche se seducente; mentre l’arte pura è, o per lo meno vuole essere, innanzitutto verità della vita, che non sostituisce la vita, ma si limita a indicarla simbolicamente nella sua più profonda realtà»[5]. Dunque, i quadri che contano, secondo il teologo-estetologo, sono quelli che «indicano simbolicamente» gli aspetti più profondi della realtà, quelle icone che la millenaria tradizione bizantina mette al centro della sua teologia. Una simile concezione non può non avversare l’arte italiana del Rinascimento che ha spezzato la tradizione allegorica medievale, riportando il quadro a una geometria illusionistica. C’è però una illustre eccezione in questo rogo ‘savonaroliano’ dei nostri grandi: appunto, Raffaello. Infatti se «la pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento, fu una radicale falsità», anche laggiù c’era chi si ricordava di riconoscere come «di origine celeste e non terrena ciò che è veramente degno di devozione e di venerazione. Un esempio capitale è Raffaello»[6]. Nello stesso saggio, Florenskij cita una racconto che Raffaello avrebbe fatto a Bramante su una sua visione giovanile della Madonna e su tale racconto avvalora la leggenda di un Raffaello pio e quasi santo. Sennonché la testimonianza di Bramante è falsa[7], apocrifo che fa nascere una consonanza tra russi e tedeschi.

Parlando di La visione di Ezechiele, un’opera di Raffaello conservata alla Galleria Palatina di Firenze, padre Florenskij scriveva: «In questo dipinto, come in molti altri di Raffaello, c’è l’equilibrio di due princìpi, quello prospettico e quello non prospettico, corrispondente alla coesistenza pacifica di due mondi, di due spazi. Questo non sbalordisce, commuove, come se il velo di un altro mondo si aprisse silenziosamente davanti a noi, e ai nostri occhi si presentasse non una scena, non una illusione di questo mondo, ma un’altra realtà autentica, anche se non irrompe nella nostra. Un allusione a questa sua spazialità Raffaello la fa nella Madonna Sistina, per mezzo di alcuni tendaggi rialzati»[8]. Le tende verdi[9] diventano le cortine della liturgia bizantina, l’iconostasi che nasconde il rito segreto, i sacri misteri, che si svelano per alcuni istanti, epifania del divino circonfusa di incenso.

Furono gli inglesi Thomas Patch (cui risale, nel 1770, la prima importante pubblicazione di capolavori del Tre-Quattrocento, 26 incisioni riproducenti opere di Giotto, Masaccio e Filippino Lippi), Hugford e Ottley a diffondere per l’Europa le immagini dei pittori italiani dimenticati, dei ‘minori’ da rivalutare. Alcuni di loro, come Ottley, veneravano Dante e idolatravano Giotto. Poi vennero i fratelli Riepenhausen che fecero conoscere Beato Angelico e altri preraffaelliti ai tedeschi. Overbeck ne fu folgorato a sedici anni. L’aver visto la pittura italiana del Quattrocento sub specie di incisione ha probabilmente influito sulla linearità dei Nazareni, ma c’è anche una ragione morale: nella polarità lineare/pittoresco, «le dessin est la probité de l’art» sosteneva Ingres.

Francesco Milizia arriverà a dire che «Raffaello sorride, come Newton ai filosofi suoi predessori»[10]. C’è la superbia dei moderni convinti che lo scienziato inglese abbia cancellato la faccia religiosa del mondo, dimenticando le sue devozioni all’Apocalisse che attende con fede e scienza profondissime. Comunque i «newtoniani» credono fermamente nel ‘non ritorno’ (altra faccia del progresso inarrestabile) e subiranno la demolizione delle loro astratte credenze a opera dei romantici: nulla è definitivo, dopo Kant si riaccendono le religioni più dogmatiche.

Astratto Winckelmann, che amava lo stile dell’arte classica prima ancora delle singole opere, astratti i suoi nipotini ribelli, quei Lukasbrüder (Confratelli di San Luca, secondo il nome ufficiale che si danno i Nazareni) amanti dell’arte religiosa pre-raffaellita e raffaellesca.

Prima della comparsa del neoclassicismo, erano stati gli italiani, e si può facilmente intuirne il motivo, ad apprezzare l’imperfezione ‘primitiva’. C’era per esempio l’interesse (religioso) per le catacombe, l’attenzione seicentesca per i mosaici, diligentemente ricopiati. Inoltre – è ancora Venturi a venirci in aiuto – si ebbe una nobile gara nei comuni della Penisola a chi possedesse le pitture più antiche, cercando di dimostrare l’esistenza di maestri anteriori a Cimabue. Si finì così con il rivalutare stanchi artisti tardo-bizantini. Fu quindi la volta del giovane Goethe che esaltava il Duomo di Strasburgo per rovesciare il disprezzo italiano nei confronti del rigido gotico tedesco.

Nell’Ottocento positivista si ride della credulità dei devoti del misticismo trecentesco: dopo la peste del 1348 ci si voleva stordire a ogni costo, Boccaccio raccontava bene quel clima e prima ancora Dante si indignava per la corruzione del clero, mentre i grandi cronisti dell’epoca narravano di licenziosità, lusso, scherzi, incontinenze, sessualità. Anche di violenza parleranno gli storici, di veleni e pugnali perfino nei conventi, tra gli intimi dei santi. Conoscevano tutto ciò i pii artisti tedeschi? Risponde Venturi: «la pretesa che il pittore mistico sia incensurabile ne’ suoi rapporti sociali confonde la vita del sentimento con la precettistica morale. D’altronde la questione era stata preceduta e risolta dallo Hegel: senza dubbio, nel tempo in cui la fede era piena e intera, l’artista non aveva bisogno d’esser ciò che si chiama comunemente un uomo pio; e raramente, in ogni epoca, gli artisti sono stati gli uomini più pii. Ma bastava che il contenuto della sua opera fosse essenziale per l’artista, costituisse la più intima verità della sua coscienza e gli facesse sentire l’assoluta necessità di rappresentarlo. Perché l’artista produce così come la forza della natura, il suo talento è un talento naturale […]. Qualunque sia stato il numero dei delitti, esso non ci impedirà mai di sentire nel verso di Dante un valore religioso che manca al verso di Ariosto»[11].

Però aggiunge: «Oggi sembra molto strano che si sia potuto supporre che il valore religioso della pittura primitiva dipendesse da un disegno, come se da una deficienza potesse scaturire la più alta delle attività spirituali, come se chiunque, ignaro di disegno, per il fatto stesso ch’egli lo ignora, potesse facilmente raggiungere l’arte di Giotto o dei Lorenzetti. Ma conviene ricordare che nel periodo positivistico la ripugnanza per il valori ideali, il sacro rispetto per la materia assunta a ‘diapason’ della verità, avevano raggiunto una intensità tale che oggi non sappiamo neppure spiegare, quasi vivessimo in un mondo diverso»[12]. L’«oggi» che segue di ottant’anni le parole di Venturi vede quel mondo ideale ancora più remoto, anzi quasi non lo vede più.

Nella religione del Primitivo che si comincia a diffondersi nel tardo Settecento, c’è un santuario: il Camposanto di Pisa. Ludwig Tieck sarà tra coloro che ne istituiscono il culto. Rudolf Borchardt lo userà come uno squisito grimaldello per scardinare la storia dell’arte medievale e far uscire vincitrice la Pisa imperiale e germanica. Buonamico Buffalmacco, Giovanni Pisano, Benozzo Gozzoli («il Raffaello del suo secolo» secondo alcuni) gli autori che scoprono nel cimitero che affianca il foro imperiale pisano. Koch è entusiasta del Trionfo della Morte, così Ingres, William Ottley, John Ruskin, il cardinal Newmann…

Perfino uno dei maggiori cultori del Rinascimento italiano nell’Ottocento-Novecento ammette che, «con la mentalità del moderno dilettante, e col nostro gusto arcaistico, siamo assai mal preparati ad apprezzare […] i capolavori della forma [idest le opere del Rinascimento aureo]». Così Heinrich Wölfflin sul finire del secolo XIX, nella Introduzione del fortunato libro (che ripubblicherà con aggiustamenti e nuove prefazioni fino al 1940) Die klassische Kunst. Eine Einführung in die italienische Renaissance[13]. Aggiungendo: «Godiamo del periodare duro, infantilmente goffo, dello stile spezzettato, di corto respiro, mentre la frase sapientemente architettata e sonante non viene apprezzata e resta incompresa»[14]. Qui si dice con qualche anticipo del sincopato jazzistico, delle scoperte di arti e musiche etniche, delle predilezioni Novecento. Delle voglie del primitivo, dell’interesse ‘nordico’ per il pittoresco. Del resto Wölfflin sembra spiare nell’arte italiana accenni di dissonanze che mal si conciliano con il puro godimento del classico. Le trova in Michelangelo quando preannuncia il barocco: anche il cultore dell’incanto rinascimentale sembra agitato dalla ricerca di una perversa dissoluzione della bella forma, dal sentore di una catastrofe incombente nell’arte. E si interroga su Raffaello, scoprendo un candore colloquiale cui non siamo abituati con il professorale storico dell’arte: «lo spirito di un mordace moderno si trova veramente impreparato dinanzi a opere d’arte come la Scuola di Atene o a figurazioni simili, tanto che l’imbarazzo è naturale. Non può irritarsi se qualcuno, in silenzio, si domanda perché Raffaello non abbia dipinto piuttosto un mercato di fiori a Roma o la serena scena dei contadini che si fanno radere la barba a piazza Montanara la domenica mattina[15]». A noi che non è dato ammirare la scenetta del barbiere all’aperto anche per via della demolizione della piazzetta e dei Borghi nel frattempo avvenuta, viene maggiore irritazione per la tolleranza benevola dello studioso di fronte a una domanda insensata, e teutonica, sui soggetti di Raffaello. Avrebbe dovuto rispondere all’insolente benché tacito interlocutore che Raffaello non poteva dipingere banchetti di frutta e tosatori di contadini. Bastava dirgli della «sublimazione ‘ideale’ della realtà che è avvenuta qui» come Wölfflin accennerà più avanti. Ma è chiaro che quella domanda si insinuava in cuor suo. E infatti l’eccellente illustratore della ‘classicità’ italica rinascimentale si esibisce in un escamotage rivelatore, dove la pura gioia visiva si raggela in una malinconica similitudine: «Si potrebbe paragonare l’arte classica al rudere di un edificio incompleto, la cui forma incompleta deve essere integrata da molti frammenti sparsi ovunque e da tradizioni incomplete»[16]. Quel cimitero di marmi spezzati, di raccolta pietosa di sparpagliate testimonianze, mondo di frantumi, di relitti, di reperti dagli emblemi incerti e misteriosi, ossario senza riparo, che il gusto archeologico ha stabilito essere l’immagine della modernità. In altre parole è il «dramma barocco» messo in scena da un pensatore tedesco del Novecento.

Le «tradizioni incomplete» vengono integrate con i camuffamenti della «tradizione inventata» sulla quale con lo sguardo disincantato degli storici marxisti argomentano Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger. Se la tradizione dà segni di debolezza sotto i colpi dell’immenso lavoro dell’illuminismo, si cerca un autorevole testimone, una passe lacaniana, nei gruppi sociali più arcaici, per esempio nei contadini «depositari della continuità storica», spiega Hobsbawm. «Persino i movimenti rivoluzionari puntellarono le loro rivoluzioni facendo riferimento al ‘passato del popolo’ (i Sassoni contro i Normanni, ‘nos ancêtres les Gaulois’ contro i Franchi, Spartaco), alle tradizioni rivoluzionarie (‘Auch das deustsche Volk hat seine revolutionäre Tradition’, dichiarava Engels nelle prime righe della sua Guerra contadina in Germania) ai loro eroi e martiri»[17]. Ma l’esperimento più imponente di reinvenzione della tradizione fa ricorso all’arte. Da Winckelmann in poi, articolandosi nella militanza dei Primitifs o Barbus – la setta presieduta da Maurice Quaï, nata nel rifiuto dei modelli viventi, a favore delle copie dei vasi greci (i pretesti per le ribellioni nell’arte sono i più vari, ma spesso le conseguenze coincidono) – e subito dopo dei Nazareni.

Forse i primi sfacciati falsari della tradizione in questo campo sono James Macpherson, il traduttore di Ossian, e il reverendo John Macpherson, parroco di Sleat sull’isola di Skye. «Da soli, ma attraverso due atti distinti di audace contraffazione, riuscirono a creare una letteratura indigena della Scozia celtica e, a suo indispensabile puntello, una nuova storia»[18]. L’ ‘Omero celtico’, come quello greco, riempirà l’immaginazione degli artisti a cavallo tra Sette Ottocento, il Sogno di Ossian vibrerà nelle tele di Ingres come di alcuni Nazareni, attrazione del magnete nordico. Tanto poté il gusto del primitivo che Madame de Staël giudicò i versi ‘ossianici’ alla pari con quelli omerici.

Vienna, capitale di una tradizione reinventata. Da decenni, sconfitta regolarmente dalla Prussia nuova protagonista della storia germanica, fa invece la parte della vincitrice assoluta, mostra la maestà dell’impero, stabilisce la Santa Alleanza dei difensori del cristianesimo, mescolando potenze eretiche e cattoliche. Metternich però non si illudeva e diceva a proposito dei Borboni, ma la frase potrebbe riferirsi all’intero mondo uscito del Congresso di Vienna: «Il ritorno a quello che si chiamava ‘antico regime’ era impossibile, perché del regime del passato non rimaneva che il ricordo della sua decadenza»[19].

È strano, il mondo della tradizione non aveva bisogno di tener viva la nostalgia del passato, il progressismo moderno si aggrappa invece al passato e al futuro, dimentica il presente, istituisce i musei come morgues della memoria, officia il culto della memoria, innalza i monumenti per ricordare ai posteri, si affanna per parlare ancora ai figli dei figli. Come se gli mancasse il terreno sotto i piedi.

Nella corsa agli anacronismi che tutte le avanguardie intraprenderanno – chi in direzione del futuro e chi del passato – , bisogna tener presenti le parole del critico britannico Gurlitt a proposito del Lukasbund: «Non è possibile liberarsi completamente della temperie della propria età, ricreare di sana pianta un’età passata, e in particolare ricuperare una qualità così rara come l’innocenza primitiva. La differenza fondamentale tra i Nazareni e i primitivi che essi cercarono di emulare, fu forse che mentre i primitivi credevano, gli altri sapevano»[20].

Ben prima di queste ricerche degli storici, gli antropologi si erano accorti della più impressionante invenzione di una tradizione: durante la Rivoluzione francese, quando si prende a ripensare la morte. Nascono nuovi riti per congedarsi dalla vita. L’arte dell’epoca sarà una eco fedele della grande liturgia laica per la sepoltura. Arte funeraria fu infatti per gran parte e per tonalità, carattere luttuoso che sovrintende allo stile neoclassico come al romantico[21]. Persino i cimiteri furono sottratti, dall’ordinanza napoleonica, all’ombra del campanile, e ridotti a musei etnografici dell’Occidente, con le masse di mummie senza più un’anima. Monumentalità in onore della morte. Nessuna pompa funebre barocca fu così sconsolata. Struggenti appaiono i richiami alla sapienza antica, ai segreti egiziani, ai muti segni etruschi, alle parole stoiche, alla araldica massonica. Risuona grave la facile profezia del visconte di Chateaubriand: «A forza di declamare contro la superstizione, si finirà con l’aprire la strada a ogni crimine. Quello che stupirà i sofisti sarà il fatto che, in mezzo ai mali causati da loro, non avranno neppure la soddisfazione di vedere un popolo laico. Quando infatti questo cesserà di sottomettere il proprio spirito alla religione, si farà delle convinzioni mostruose. Sarà colpito da un terrore che gli sembrerà tanto più strano quanto non ne conosce l’oggetto: tremerà in un cimitero dove è inciso che la morte è un sonno eterno; e con l’aria di disprezzare la potenza divina si metterà a interrogare il ciarlatano e a cercare il destino nel colore di una carta da gioco». Due secoli dopo, un Occidente incredulo presta fede come mai agli indovini. Più sintetico era stato Novalis: «dove non esistono gli dèi governano gli spettri».

[1] L. Venturi, Il gusto dei primitivi, 1926, qui citato nella edizione Einaudi, Torino 1976, p. 102.

[2] Con fantasia barocco-napoletana, Vico descrive nella Scienza nuova i selvaggi giganti delle origini che vagavano sulla terra «per campare delle fiere, delle quali la gran selva doveva ben abbondare, e per inseguir le donne, ch’in tale stato dovevan esser selvagge, ritrose e schive, e sì sbandati per truovare pascolo ed acqua, le madri abbandonando i loro figliuoli, questi dovettero tratto tratto crescere senza udire voce umana nonché apprender uman costume, onde andarono in in uno stato affatto bestiale e ferino. Nel quale le madri, come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e lasciargli nudi rotolare dentro le fecce loro propie, ed appena spoppati abbandonargli per sempre; e questi – dovendosi rotolare dentro le loro fecce, le quali co’ sali nitri maravigliosamente ingrassano i campi; – e sforzandosi per penetrare la gran selva, che per lo fresco diluvio doveva esser foltissima, per gli quali sforzi dovevano dilatar altri muscoli per tenderne altri, onde isali nitri in maggior copia si insinuavano ne’ loro corpi; – e senza alcuno timore di dèi, di padri, di maestri, il quale assidera il più rigoglioso dell’età fanciullesca; – dovettero a dismisura ingrandire le carni e l’ossa, e crescere vigorosamente robusti, e sì provenire giganti…» (Scienza nuova, in Opere Mondadori, Milano 1990, tomo I, pp. 564-565).

[3] Venturi cit., p. 50.

[4] Savinio circonda la frase con questo discorsetto: «Al tempo di Stendhal, la pittura di Giotto era una pittura di cui non si parla. La conoscenza di Giotto è di fresca data. Essa dipoi è diventata amore, e infine è degenerata in mania. Alla conoscenza di Giotto, e così a quella di Piero della Francesca, di Masaccio, si opponeva il gusto più che le archeologiche difficoltà.[…] Al tempo di Stendhal, il gusto ingenuo e naturale mirava al centro ‘maturo’ delle cose, che in pittura è Paolo Veronese, ma non a Giotto, che è pittore periferico. Giotto o lo si guardava ‘per curiosità’, come ora si guarda il graffito di un convento dell’Aghion Oros, o non lo si guardava affatto. Doveva passare un secolo perché la parola ‘primitivo’ perdesse quel significato peggiorativo che faceva guardare i ‘primitivi’ al modo che un adulto guarda un bambino, un gigante guarda un nano. […] Per Stendhal la pittura pompeiana è un sottodomenichino. Doveva passare un secolo perché si sviluppasse il gusto del primitivo, il gusto del crudivorismo, il gusto delle cose non arrivate a maturità». Poi, con arguzia, aggiunge in nota una considerazione di buon senso: «Rimane da dire che il ‘giottismo’ d’oggi è meno la scoperta di una verità che una ragione pratica, perché è più facile rifare Giotto che Raffaello» (A. Savinio, Ascolta il tuo cuore, città, Bompiani, Milano, 1988, pp. 60-62). Nota a una nota: non è proprio vero che ai tempi di Stendhal non si parlasse di Giotto, anzi si può dire che il suo culto cominci proprio allora, ma Savinio non fa lo storico, si fida del romanziere francese e lo usa come un barometro del gusto.

[5] P. A. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, La Casa del libro, Roma, 1983, p.82. A Mosca, all’inizio del secolo, i rappresentanti più esuberanti dell’avanguardia dialogano con un giovane matematico, che sa parlare con sapienza di medicina, di biologia, di fisica, di linguistica, che stupisce con le sue invenzioni, che conosce come pochi la filosofia occidentale e sa riassumere tutta la tradizione patristica. Un giorno, l’eruditissimo interlocutore entra in seminario a studiare sistematicamente teologia e diventa prete, ma continua a parlare con rivoluzionari politici e artistici. Dopo la presa del potere dei bolscevichi, padre Pavel Alexandrovic Florenskij viene mandato a insegnare alla VChutemas, una scuola moscovita che voleva essere il corrispettivo sovietico del Bauhaus. Il nostro pope ha la cattedra di Analisi della spazialità nell’opera d’arte (specializzazioni vertiginose) e la onora con corsi dove il vorticismo della avanguardie entra in consonanza con la teologia bizantina. Ma pochi anni dopo, il geniale arciprete viene arrestato, poi inviato in un Lager e qui trovò la morte nel 1937, a 55 anni.

[6] P. A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano, 1977, pp. 63-75. Vale la pena riportare più estesamente il brano che sintetizza l’ostilità dei teologi ortodossi nei confronti dell’arte religiosa occidentale, anche perché ha sorprendenti somiglianze ai discorsi dei romantici tedeschi (ambedue prendevano spunto da un’opera postuma di Wackenroder): «La pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento, fu una radicale falsità artistica e pur predicando a parole la prossimità e fedeltà alla realtà raffigurata, gli artisti non avevano niente a che fare con quella realtà che pretendevano e ardivano di rappresentare, non ritenevano nemmeno opportuno osservare le norme della pittura di icone tradizionale, cioè la conoscenza del mondo spirituale quale era trasmesso dalla Chiesa cattolica. Viceversa la pittura di icone è la rocca delle figure celesti. […] Le icone, mediante questi testimoni che sono i pittori di icone, ci offrono le immagini - είδη, είκόν – delle loro visioni” (Ibidem).

[7] Zolla, curatore dell’opera, liquida in nota la faccenda: «Florenskij riferisce di un supposto manoscritto del Bramante. Si è tradotto con un discorso indiretto, non risultando il testo tra le collezioni consultate di scritti bramanteschi» (Ibid., p. 77). E men che mai in quelli raffaelleschi, raccolti attentamente nel volume a cura di Vincenzo Golzio, Raffaello nei documenti - nelle testimonianze dei contemporanei e nella letteratura del suo secolo, Città del Vaticano, 1936. Zolla non accenna neppure che la presunta esperienza mistica del grande pittore è nient’altro che la fantasia di uno scrittore romantico tedesco su una frase di Raffaello.

[8] P.A. Florenskij, La prospettiva rovesciata cit., p. 103.

[9] Secondo gli storici occidentali, le tende semiaperte, a somiglianza dei monumenti sepolcrali coevi, e i cherubini, che spesso venivano rappresentati sui sarcofaghi, indicherebbero una originaria destinazione funeraria del quadro.

[10] F. Milizia, Opere complete, Bologna 1826, vol. I, p. 260.

[11] Venturi, op. cit., pp. 47-48.

[12] Ibid., p. 48.

[13] Trad. italiana: Sansoni, Firenze1941-1978.

[14] Ibid., p. 9.

[15] Ibid., p. 8

[16] Ibid., p. 11.

[17] E. J. Hobsbawm - T. Ranger, The Invention of Tradition, trad. it. Einaudi, Torino 1994. p. 15. Va notato en passant che Engels parla di revolutionäre Tradition, speculare ossimoro del più celebre konservative Revolution.

[18] Hugh Trevor-Rope, «La tradizione delle Highlands in Scozia» in The Invention of Tradition cit., p. 21. Appena inventata, si traduceva in esotico abito ‘tradizionale’ con il quale, a Roma, Pompeo Batoni ritraeva sir Gordon con tanto di gonnellino scozzese sullo sfondo del Colosseo.

[19] Metternich, Mémoires, trad. it. Einaudi, Torino 1943, p. 217.

[20] Citato in Keith Andrews, The Nazarenes. A Brotherhod of German Painters in Rom, Oxford at the Clarenton Press, Oxford 1964.

[21] Si potrà obiettare che il gusto per sinistri luoghi, tombe rovine e cimiteri, è già degli inglesi, del pre-romanticismo, in anticipo sullo scoppio della Rivoluzione francese, dimenticando che la fine dell’universo tradizionale non fu dovuta esclusivamente agli avvenimenti dell’estate parigina dell’89, che da qualche decennio in Gran Bretagna era in corso una rivoluzione senza squilli di trombe. Strappava gli uomini alla terra, quel sommovimento modificava il lavoro, lo spazio, il tempo, la vita dunque. Un protagonista del neoclassicismo come John Flexman già lavora per una fabbrica dominata dalla rigida divisione del lavoro, la Etruria ceramiche d’arte: ci sarà pure una differenza vitale tra il creare per un signore aristocratico, complice e mecenate con cui competere in fatto di gusto, e un anonimo pubblico da conquistare attenendosi alle regole commerciali o sottomettendosi ai cicli delle mode. Leggiamo in Die Wahlverwandtschaften di Goethe: «Questo è il guaio – esclamò Edoardo – , ora non si può imparare niente che valga per tutta la vita. I nostri avi si attenevano all’istruzione ricevuta in gioventù; ora invece dobbiamo rifarci da capo ogni cinque anni se non vogliano essere assolutamente fuori moda» (tr. it. Utet, Torino, 1933, p. 58). Per la prima volta nella storia umana il senex veniva spogliato di ogni virtù.

martedì 9 marzo 2010

Citazione Psicoanalisi e arte moderna

Jean Clair: «La psicanalisi, nel dopoguerra, ha potuto facilmente insediarsi negli Stati Uniti, conoscendo il successo che sappiamo, seguendo lo stesso percorso con cui l’arte ‘moderna’ è diventata l’arte ufficiale della nazione americana. Rifiutando infatti il godimento visivo, il piacere dell’occhio e l’eccitazione erotica della vista, quest’arte così lontana dal corpo incontrava e soddisfaceva con poca spesa le aspirazioni di una società che, nei suoi ideali puritani e di social welfare, era molto più disposta a ridurre l’opera d’arte al rango di una semplice decorazione o di uno strumento pedagogico, che non a riconoscervi quella produzione inquietante, sconvolgente, addirittura traumatizzante che l’esperienza estetica è sempre stata in tutte le culture, proprio per la sua capacità di far apparire sulla terra la dimensione del sacro e l’enigma del sesso». (da Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, p. 181)

lunedì 8 marzo 2010

Iconoclastia occidentale

~ LA TECNICA INDUSTRIALE, LA PSICOANALISI E L’ARTE MODERNA: ECCO I NEMICI DELL’IMMAGINE SECONDO CARL SCHMITT. ~ RIECHEGGIATO DA JAMES HILLMAN CHE PARLA DI «SIMULACRI, FANTASMI, INCUBI, MANIPOLAZIONI DELLA MENTE» A PROPOSITO DELLA NUOVA EFFIGIE ~

Al Nodo di Gordio di Jünger, Carl Schmitt replicò con un saggio uscito negli scritti celebrativi per i sessant’anni dell’amico. In elegante confronto con la polarità Est/Ovest ricordata su questo «Almanacco» l’altro giorno (L’enigma occidentale, 2 marzo 2010), il giurista propose la sua Die geschichtliche Struktur des heutigen Welt-Gegensatzes von Ost und West. Un dialogo a distanza che, in un secondo tempo, diventò un unico libro (in italiano edito da Il Mulino, 2004). In questa specie di appendice schmittiana troviamo altri spunti per riflettere sull’arte del nostro tempo. Uscendo anzitutto dallo schema facile per cui l’Occidente custodirebbe le immagini che agli antipodi vengono combattute.

Come già in Jünger, non si tratta infatti di una contrapposizione geografica tra due poli rigidi bensì di simboli in cui la stessa conflittualità psichica degli umani si può riflettere. Però, in piena ‘guerra fredda’, uno scienziato del diritto non voleva lasciarsi conquistare integralmente dai simbolismi, in guisa dello scrittore ‘alchemico’, confratello nei segreti esilî. Schmitt si àncora allora alla storia. Sulla scia del geografo ebreo-ucraino-francese Jean Gottmann, egli parla di «iconographie régionale», dove le «differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni, tradizioni, dal passato storico e dalle organizzazioni sociali, costituiscono spazi peculiari». «Iconografia» sembra al giurista di Plettenberg una «parola nuova» che può sostituire il termine logoro di «ideologia». In luogo di astratte visioni, di punti di vista, i repertori di immagini storicamente date. Ma la tecnologia sta già irrompendo e devastando le «iconografie tradizionali». Di passaggio, quindi, l’autore del breve scritto sfiora le avventure dell’immagine occidentale.

«Quando parliamo di iconoclastia – spiega Schmitt – immediatamente vien fatto di pensare ad avvenimenti della storia di Bisanzio, alla disputa sulle immagini sotto l’imperatore Leone, all’avversione dell’Antico Testamento e dell’Islam per le immagini e, di contro, al riconoscimento del culto delle immagini da parte di Carlo Magno». Più o meno, questo si studia nelle nostre scuole. Ma il concetto di «iconographie» introdotto da Gottmann rende tutto più sfumato. Schmitt se ne impadronisce da rapace qual è: «ovunque esistono icone e iconografia […] si presenta anche la possibilità di un’iconoclastia. Tutto ciò non è affatto limitato a Bisanzio e all’Islam». Comincia così l’excursus. «Proprio in Occidente hanno manifestato il loro spirito iconoclastico i seguaci di Wycliffe e di Hus, le sette battiste e i Puritani, riformatori religiosi o semplificatori razionalisti». Ancora una volta, per l’autore della Teologia politica, i fenomeni della secolarizzazione rivelano la trama religiosa. «La grande lotta politica mondiale che esplose all’epoca delle scoperte e della conquista di quello che era allora il Nuovo Mondo – prosegue il pensatore tedesco –, ossia il primo conflitto globale della storia mondiale, nelle rappresentazioni tradizionali appare un conflitto tra dogmi confessionali, una lotta tra Cattolicesimo romano e Protestantesimo nordico, o, più esattamente tra gesuiti e calvinisti. Il criterio crittografico ci spinge qui a una visione più approfondita…».

Il Professore si diverte a scompaginare i manuali di storia. «Le guerre civili di religione in Europa, compresa la Guerra dei Trent’anni combattuta tra il 1618 e il 1648 su suolo tedesco, in realtà furono motivate dall’atteggiamento ostile o favorevole al medioevale culto cattolico della Madonna, all’immagine di Maria. Dobbiamo allora considerare l’avversione dei Puritani inglesi per le immagini un tratto specificamente orientale di fronte al culto delle immagini professato in Paesi cattolici come la Baviera, la Spagna o la Polonia?». Si potrebbe rispondere che comunque il cattolicesimo mantiene un saldo legame con quella cultura romana, classica per antonomasia, che elaborò un atteggiamento avverso a tutti i fumosi misticismi e al culto dell’interiorità orientali; che perfino la contrapposizione Pietro e Paolo, accennata negli Atti degli apostoli, mette in luce una linea gerosolimitana vs quella greca, ma Schmitt qui maneggia i contrasti storici per definire piuttosto il conflitto tra America e Urss, ormai costretto a osservare da spettatore, confinato in un villaggio di una Germania vinta. Perciò insiste: «la disputa sulle immagini che si svolse a Bisanzio ebbe, come sfondo teologico, il dogma cristiano della Trinità, e come realtà spirituale la profonda distinzione iconografica tra Unità compatta e Triplicità divina. Anche qui non è possibile affermare che il dogma della Trinità fosse una faccenda essenzialmente occidentale e il monoteismo astratto una essenzialmente orientale». Di contro lo slancio islamico, orientale, verso un monoteismo astratto che separa terribilmente Dio e mondo, che allontana a distanze siderali creatore e creatura, senza mediazione alcuna, Schmitt con pedante erudizione porta esempi contrari, dai Padri della Chiesa siriani che abbracciano la formula Filioque nel Credo cristiano agli «ariani di stirpe tedesca» che negarono la natura divina di Cristo. Nella disamina delle immagini storiche contraddittorie non sembra sfiorato dal dubbio che gli echi ‘orientali’ si possano ritrovare in tutto quello che si oppone, qui in Occidente, a Roma, nei teologi nullisti germanici come nei rivoluzionari del puritanesimo inglese. Ma l’intento dell’autore, val la pena ripeterlo, è un altro, la storia delle immagini occupa appena due paginette del suo saggio.

Quello che qui ci interessa è l’osservazione che sta al centro delle considerazioni schmittiane sull’immagine. Riferendosi ad Alessandro che scioglie il nodo gordiano, scrive: «Manifestamente, la psicoanalisi è un’irruzione iconoclastica in una vecchia iconografia. Manifestamente, la pittura moderna – sia essa realmente astratta o conservi ancora qualche residuo di oggettività – fonde la distruzione dell’antico mondo delle immagini e dell’antico modo di rappresentazione con il tentativo di creare qualcosa di nuovo». Con la precisione cui ci ha abituato, coglie quel taglio decisivo che gli apologeti dell’arte moderna, pur nell’enfatica esaltazione del carattere «rivoluzionario», tendono poi sempre a negare, cercando anzi una continuità con le figure dei massimi artisti della nostra storia e con le loro pratiche. «Distruzione» del mondo delle immagini, «distruzione» della rappresentazione sono tutt’uno – dice giustamente - , così come il nuovo, o meglio «il tentativo» di nuovo radicale sta a significare la fuoriuscita dalla millenaria storia dell’arte. Ecco dunque le tre iconoclastie d’oggi: la psicoanalisi, la nuova arte e la «tecnicizzazione industriale». Quest’ultima è «come la spada che taglia il groviglio delle antiche immagini e tabù…». Non è scontato che il giurista sia schierato dalla parte degli iconofili – anche se certi commenti favorevoli alla metanoia cattolica del suo amico Hugo Ball, fondatore del dadaismo e poi studioso delle vite dei santi e delle magnificenze bizantine, la dicono lunga in proposito – , va comunque rilevato il suo equilibrio e la sua esattezza nel presentare la situazione delle immagini a metà del Novecento, nonostante i segnali contraddittori che si avvertivano, nonostante le innumerevoli deformazioni ideologiche in corso.

Resta il dubbio sulla iconoclastia della psicoanalisi. Inganna forse il titolo della rivista freudiana, «Imago», la parola latina sta invece a indicare le immagini mentali, quanto di più lontano da quelle prodotte dall’arte. «Purtroppo la psicoanalisi ha pochissimo da dire sulla bellezza», confessò Freud nel Disagio della civiltà. Lo psicologo di scuola junghiana James Hillman, in una conferenza a Ferrara di una decina di anni fa, dunque circa mezzo secolo più tardi del dialogo Jünger-Schmitt, parlava dell’«interiorizzazione soggettiva della psicanalisi a scapito del contatto con la realtà concreta». A scapito pure delle immagini. Parlare di iconoclastia parrebbe tuttavia paradossale: non viviamo forse nell’èra delle icone d’ogni tipo, e la psicoanalisi non è l’interpretazione più corrente, spesso corriva, di questo immaginario? «Non siamo forse sommersi – si domanda anche Hillman – da ondate di immagini provenienti da schermi, cartelloni, video, vetrine, riviste? Il XX secolo non è forse l’era della Kodak? Iconofilia – non c’è dubbio. Se il nuovo ordine mondiale generato dagli Stati Uniti si potesse sintetizzare in una sola caratteristica, non sarebbe l’ubiquità dei media dell’immagine? Ma questi fenomeni non sono immagini. Sono simulacri delle immagini, fantasmi, incubi senza anima che dilagano come le tenebre del Sottomondo, alla ricerca di sangue ed emozioni umane e ci rendono immagine-dipendenti. Come se l’inondazione di immagini alla quale non possiamo sottrarci fosse una vendetta delle immagini stesse, milioni e milioni di immagini che tornano dopo secoli di repressione iconoclasta e, come Furie, chiedono riconoscimento e addirittura sacrificio. Sono numerose e onnipresenti perché vengono trascinate per i capelli nel baratro creato dall’espulsione delle vere immagini. Di qui la loro rapidità e fugacità». Il Giorno del Giudizio Postmoderno, un vortice dannato di figure un tempo assai avvenenti che ora si contraggono in una smorfia suprema.

Viene da pensare alle parole di Baudrillard sulle immagini-simulacro, alla sua suggestiva formulazione: «Come i barocchi, noi siamo creatori sfrenati di immagini ma segretamente siamo iconoclasti. Non di quelli che distruggono le immagini ma di quelli che ne fabbricano una profusione dove non c’è niente da vedere». (Immalinconiti dalla loro scarsa eloquenza – nell’attuale riproducibilità tecnica –abbiamo rimosso anche quella nella testata di questo «Almanacco», perché già troppe di esse cadono nella rete imbavagliate, mute, inespressive nonostante tutto l’Expressionismus di ritorno, brutte: malgrado lo splendore abbagliante dello schermo non ci sembra facilmente rintracciabile una bellezza elettronica, una luce diversa da quella della réclame. Segni, non immagini, secondo una vecchia e saggia distinzione).

Davvero un commento alle parole di Schmitt sulla iconoclastia del freudismo risultano queste riflessioni di Hillman: le immagini psicoanalitiche «sono state private dell’anima. Vanno alla deriva, prive di riferimenti all’immaginario, e della loro autentica sostanzialità; meri servi delle manipolazioni della mente, nominalisti anonimi, significanti privi di significato, forme immaginifiche delle sigle e delle astrazioni della neolingua».

L’iconoclastia non si limita a distruggere le immagini, «quello è il danno minore, contingente. La catastrofe più grande, ontologica, consiste nell’eliminazione di quel terzo spazio dell’immaginazione compreso tra le funzioni dello spirito e le sensazioni del corpo».

domenica 7 marzo 2010

Citazione L'avanguardia e la morte

Jean Clair: «Lo sguardo con cui l'artista nel mondo occidentale si era reso padrone delle apparenze si avvia verso il significato di riguardo che, mortifero o perlomeno rischioso, costringerà colui che se ne rende detentore a quel balzo in avanti, a quell’accecamento chiamato ‘avanguardia’, la cui finalità in fondo consiste nel negare l’esistenza stessa della morte. L’arte moderna diviene l’estrema illusione che ci permette di credere di poter evitare la morte e non vedere mai Medusa. La modernità è la negazione della morte nella società moderna. Ma costituisce ormai, al contempo, la mortificazione della natura dell’arte.

Lungi dall’essere quella marcia trionfale verso il futuro che la vulgata applaudirà, al contrario la modernità è la tetra macerazione di un ritorno che non smette di rinnovarsi e di essere colpito da sanzione. L’arte era sorta dal bisogno di scongiurare la minaccia della morte e gli artefatti prodotti dalla sua prâxis, i talismani che, posti accanto al corpo del defunto, lo avrebbero accompagnato nell’altro mondo. Sono ormai merci esposte in pieno giorno nei musei che, vistose e cangianti, ci permettono di credere, a prezzo della morte dell’arte, che riusciremo a sfuggire al fatum edipico». (Medusa, p. 159).

venerdì 5 marzo 2010

Criminalità estetica

~ MINIMA ~ I CLAN DEGLI INSTALLATORI, LE DELIBERE NAPOLETANE, IL CADAVRE EXQUIS A MILANO ~

Marc Fumaroli sostiene che il sistema della cosiddetta «arte contemporanea» è la nuova mafia. Capitali russi e cinesi, cinismo cosmopolita. Anche gli scenari si sovrappongono. I vicerè di Napoli che decretano a fine mandato la strepitosa somma di venti milioni di euri per le imprese di Palazzo Donnaregina somigliano impressionantemente alla Giunta comunale che sfornava migliaia di delibere notturne nella Palermo d’antan. Le cronache di ‘nera’ ci aggiornano. A Milano, un ‘noto gallerista’ – come scrivono i resocontisti dei fattacci – è stato ucciso a mani nude e fatto a pezzi, i resti buttati giù in un canale del Naviglio. Truciderie da Ottocento gothic. La polizia ha già arrestato l’assassino, un collega in affari più o meno loschi. Alle origini della violenza vi sarebbe una mostra di falsi nella Reggia di Caserta (quale benemerito funzionario riuscirà a sottrarre quei luoghi aulici all’invasione dei malavitosi?). Ormai nei clan delle installazioni si comincia ad assumere anche la forma efferata delle attività mafiose. Dopo la criminalità esotica, quella estetica. Arrivano i cadaveri eccellenti ma non sono i giochi verbali dei surrealisti. Negli ambienti dove si guadagnano molti soldi senza talento, senza lavoro, senz’anima, dove l'oggetto da spacciare - come la droga - si fa bello di un esorbitante valore aggiunto, il delitto è di casa.

martedì 2 marzo 2010

L'enigma dell'Occidente

~ ILLUMINISMO E CRUDELTÀ.~L’ARBITRIO NELLA CONQUISTA DEMOCRATICA DEL MONDO. ~ SI DOVREBBE FORSE TUTELARE IL DISPOTISMO ESOTICO COME UN BENE CULTURALE? ~ L’ARTE DEI BARBARI NEI NOSTRI MUSEI E L’ODORE DI SANGUE CHE SI DIFFONDE ~

Per tentare se non di capire almeno di formulare l’enigma dell’Occidente dei diritti e dei piaceri, che in nome dei primi muove la guerra e in nome dei secondi la rifiuta, costretto proprio per questa sua natura a espandersi e a imporre con la forza al resto del mondo i suoi caratteri, è bene prendere come guida un saggio guerriero, Ernst Jünger, nel suo Il nodo di Gordio (con una risposta di Carl Schmitt, edito in italiano da Il Mulino). Scritto più di mezzo secolo fa, ricco di anticipazioni («i simboli rossi hanno una durata breve» o «verrà il giorno in cui i Russi avranno bisogno di noi»), soltanto adesso sembra entrare nei nostri dibattiti più urgenti. Dice Jünger: «È importante chiedersi se l’europeizzazione introduca un nuovo ethos, oppure se l’arbitrio conservi, nonostante tutto, il suo rango o se addirittura, acquisendo mezzi più potenti, non acquisti portata più ampia. L’introduzione del pensiero e dei metodi occidentali avverrà sempre sotto costrizione, giacché in altro modo non sarebbe possibile distruggere l’atmosfera dominante, patriarcale e ortodossa. Un tentativo esemplare è quello di Pietro il Grande, che presenta una mescolanza, sorprendente per noi, di illuminismo e crudeltà. […] In Paesi ancora arretrati e con una società poco articolata, questi cambiamenti, a quanto sembra, incontrano una scarsissima opposizione; il nuovo ordine pare nascere dal nulla. Per quanto riguarda Pietro il Grande, la totalità del piano risulta particolarmente chiara, se si pensa che gli mancano ancora gli strumenti che saranno disponibili in seguito. Verranno poi le ferrovie, la cui rete coprirà tutto il Paese, l’elettrificazione, le piste di volo, gli aeroporti. Con un ristretto stato maggiore, oggi è possibile imporre in scarsissimo tempo ad un Paese che si trova ancora a livello di Medioevo, ad un’isola rimasta ancora all’età della pietra, uno stile di lavoro che da noi si è formato nel corso di decenni, anzi di secoli. È uno spettacolo che possiamo osservare ogni giorno». Il lavoro di Pietro il Grande è portato a termine dagli attuali satrapi russi; l’Afghanistan, tra i più resistenti alla modernità, già domani offrirà un simile spettacolo. Ogni giorno del resto assistiamo alla vertiginosa concentrazione della storia nei paesi ‘giovani’; il supplemento culturale del quotidiano degli imprenditori ci assicurava, domenica scorsa, che basterà un bancomat per fermare l’avanzata dell’Islam. I mercanti di schiavi seguivano gli eserciti vittoriosi per fare incetta dei vinti ridotti in catene, nel Novecento sono piuttosto i rappresentanti della Coca Cola che giungono con le armate americane a imporre un gusto. L’imperatore che ha conquistato anche il premio Nobel per la pace e che bombarda contadini confusi e guerriglieri feroci come combattenti preistorici, è un forte segno di contraddizione. Più in generale, ci si ripete dai tempi delle guerre napoleoniche: è giusto esportare la democrazia o i paesi extraeuropei vanno abbandonati al loro destino che li mantiene fuori la storia? Il terrore fa parte del paesaggio orientale ed è un peccato mortale tentare di rimuoverlo? Si dovrebbe forse tutelare il dispotismo esotico, proteggerlo come una cultura della differenza? Meglio i «tiranni che si succedono» laggiù piuttosto che i dominatori stranieri, estranei a quel mondo? Basta volere il bene per poter conquistare il mondo alle proprie idee? Non è forse una passione smisurata, più violenta ancora dei maggiori egoismi, quella volontà missionaria di portare il bene? E non ne deriva una guerra totalitaria come nessun’altra? Che cosa c’è di più sanguinoso di una ‘guerra etica’?

«Il desiderio di innalzare la guerra al di sopra del piano zoologico, dello scontro tra branchi e orde, porta a stabilire regole […]. Sopra ogni cosa si fa distinzione tra il nemico armato e quello inerme». Di questo si nutre la storia dell’Occidente, dalle guerre dell’Iliade alla nascita e sviluppo della cavalleria. Ma il senso critico che l’accompagna ricorda anche che Achille fa scempio del vinto Ettore, inerme ormai perché morto. E se i cimiteri di guerra, rispettati e onorati dai nemici di un tempo, sono un esempio della civiltà occidentale, restano fuori dalle regole e dal rispetto i morti (e i vivi) delle guerre civili. Da quasi un secolo è tutta una guerra civile che si impone, lo scontro tra l’Occidente dei diritti e l’Oriente delle tirannie.

Nella polarità balugina la diversa immagine della virtù militare. A Oriente il signore può ordinare la morte sicura per il suo soldato, in Occidente gli si lascia una pur minima chance di sopravvivenza, l’ethos occidentale rifiutando il suicidio; nonostante le teorizzazioni degli stoici, esso resta un atto estraneo, un’ombra nella vivida luce che si oppone al regno ctonio. «Già per i primi Cristiani il martirio cercato era il meno pregevole». Jünger si sofferma a riflettere ancora sui kamikaze giapponesi che avrebbero prodotto un ritorno di fiamma con il gesto di Mishima, il drammaturgo autore della messa in scena della propria morte, che scuote il mondo dolciastro delle rivoluzioni desideranti. La riflessione sul sacrificio umano senza scampo si può quindi concentrare sullo shaid che si lascia esplodere per la gloria dell’Islam. La morte che oggi chiamiamo assistita, per gli eufemismi di moda, entra in contrasto con la nostra tradizione: non ci si rende nemmeno più conto di urtare contro un tabù fondamentale.

Un altro lampo sull’oggi, un altro esempio di sguardo acuto che sa intravedere il futuro remoto dell’Europa come se fosse già compiuto: «i suoi imperi sono in decadenza, le sue frontiere sono ormai inesistenti». Gli extraeuropei si impadroniscono dei nostri «elementi stilistici», vestono all’occidentale, ne imitano le abitudini più vacue, non la libertà. Gli aspetti «titanici» pertanto non sono mitigati da una «volontà superiore».

L’Occidente è consapevole dell’arbitrio a cui ricorre di volta in volta e in tal modo lo riscatta. Qui l’arbitrio «esclude la grandezza, o almeno vi imprime una macchia oscura». Si è detto del Nobel per la pace che ordina bombardamenti a tappeto e ha fatto crescere le spese militari come nessun altro presidente bellicista: non per questo dobbiamo metterlo sul medesimo piano dei carnefici, dei criminali d’Oriente (che non coincide, certo, con quello geografico, basti pensare per esempio al vecchio tiranno di un’isola all’estremo ovest, di fronte alle coste degli Stati Uniti, che si incrudelisce progressivamente mentre si avvia alla propria morte naturale e tenta come tutti i criminali politici di sopravvivere in una specie di gara macabra ai suoi oppositori più liberi). L’errore dei giovani generosi e dei fanatici d’ogni età è quello di livellare tutti gli avversari in nome della morale, senza riuscire a stabilire gradi e ragioni, rifiutandosi di «sedere a tavola» se non con i propri amici. Ai fedeli obamiani che credettero appena un anno fa nell’avvento del Regno della Giustizia e della Pace dovremmo limitarci a dire che si tratta al massimo di un 'falso messia' come se ne sono affacciati tanti nella nostra storia.

Il discorso di Jünger approda repentinamente all’arte e alla non-arte di oggi. «Se la coscienza della libertà, se la pace devono diffondersi, non può mancare il freno interiore. Lo stesso vale anche per l’arte. […] Esiste una giustizia delle forme e delle linee che noi percepiamo come bellezza. […] Il gusto barbarico invece ci offende. Il mondo è pieno di opere che soggiacciono alla suggestione esercitata da dei, demoni e forze naturali, senza che l’uomo possa rispondere con la libertà. La cupezza, la pesantezza terrena, l’assenza di occhi, la stridente vivacità, la confusione, le dimensioni colossali, la forza lussureggiante, il volto da maschera ci opprimono: avvertiamo infatti che tutto ciò è collegato a sacrifici di sangue».

Il ritorno della barbarie assume un tono particolarmente agghiacciante perché in queste considerazioni la parola ‘barbaro’ non si confonde con l’insulto: «nelle metropoli e negli imperi sta facendo ritorno la barbarie. […] Chiunque voglia dominare […] ripercorrerà l’esperienza dei Romani, che furono costretti a esportare in una cerchia sempre più ampia il loro diritto civile, mentre tra di essi si insinuavano i costumi, le arti e i culti stranieri». Sennonché adesso non si bada troppo al diritto, lo scambio resta più in superficie.

«Se esistesse una metropoli in cui fossero ufficialmente adottati modelli e colori dell’antico Dahomey oppure edifici secondo l’antico stile messicano, ben presto vi sarebbero ufficialmente istituiti i sacrifici umani. Tuttavia non vi si vedrebbero l’orrore e il fasto di quegli antichi imperi, bensì una barbarie nuova, riscoperta». Solo chi ha un fiuto speciale per l’odore del sangue, sviluppato sui campi di battaglia, sa riconoscere quello che gli stolti scambiano per ludo nei musei degli orrori.