martedì 29 giugno 2010

Sotto il segno dei santi Dioscuri

~ LA FESTA DEI PROTETTORI DELL’ARTE
E DI QUESTO ALMANACCO ~

«Almanacco romano» è nato esattamente due anni fa sotto il segno dei santi Dioscuri, Pietro e Paolo, i «protettori dell’Alma città di Roma», come dice il calendario ufficiale cattolico. I Dioscuri del mondo pagano erano due fratelli, pugili e domatori di cavalli, che parteciparono all’avventura salvifica degli Argonauti e protessero le arti e la gente di mare.

Pietro e Paolo erano fratelli in Cristo, parteciparono all’avventura salvifica della Chiesa nascente. Insieme formano la Chiesa romana, simboleggiata dal «Principe degli Apostoli» con in mano le chiavi della Terra e del Cielo, e dall’«Apostolo delle genti» raffigurato con la spada e il libro. Guai a separare i due, come fecero Lutero e vari eresiarchi, contrapponendo la Chiesa paolina a quella petrina: è come squartare un essere umano per dividere il corpo dalla mente, l’amore dalla fede, il terreno dal celeste. Da simili lacerazioni disumane se ne ricavano soltanto fantasmi e mostri, esseri pneumatici e materialisti volgari. Si deforma la vita rendendola o tutta ascetica o tutta sensuale, con la solita conseguenza del desiderio angelico tramutato in matta bestialità e viceversa.

I Dioscuri cristiani proteggono le arti che nella città eterna a loro consacrata ebbero straordinaria affermazione, risuscitando i fasti classici con motivi umili e mediorientali. Solo due taumaturgici santi di tale statura potevano produrre questo miracolo.

Proteggono anche i marinai della Navicella ecclesiastica, di cui Pietro è il singolare skipper, sempre in acque tempestose. I due augusti patroni dell’Urbe conobbero la morte per uccisione e da quel loro martirio rinacque Roma. Il sangue fecondò bene. Dopo millenni la navicella romana regge e si mantiene a galla. Ed è un altro miracolo straordinario. Non basteranno le «amenità del Belgio», come le frustava profeticamente Baudelaire nella «Bruxelles capitale delle scimmie», a impensierire la Chiesa di Pietro e Paolo. Né vi riusciranno i giudici americani: sentenze ben più sanguinarie furono emesse dagli imperatori romani che provarono a soffocarla sul nascere; nel frattempo è cresciuta in saggezza, le avversità la fortificano e la scaltriscono. Abbiamo visto la persecuzione del XX secolo, mossa dai peggiori regimi della modernità, fermata da Karol Magno che in contropiede riuscì ad abbattere l’impero dei gulag. Adesso i nemici di sempre provano a intaccarne la memoria con risibili pettegolezzi e ad affondare la navicella a colpi di moralismo. Valentiniani del terzo millennio d.C., finiranno nel fango che agitano.

Ci preoccupa maggiormente che una giovane domestica rumena, dopo averci domandato notizie sulla festa del 29 giugno, quando nella basilica vaticana il bronzo di Arnolfo da Cambio con le fattezze di Pietro pescatore viene rivestito dei paramenti pontificali (compreso il triregno che il papa non indossa più), commentava pur senza la minima arroganza: «ma perché venerare una statua?». Già irretita nella curiosità cultural-turistica, le sfuggiva la fede degli antichi viatores in costante pellegrinaggio per le strade del mondo alla ricerca curiosa di immagini visibili del divino; si era fatta sottrarre la fede nel meraviglioso che si avvale dei sensi e cambia il marmo e le tele in segni del Cielo, in specchi dell’umanità redenta dove provare un piacere indicibile e trovare al contempo la salvezza eterna.

venerdì 25 giugno 2010

Il mito non attecchisce al succedaneo

~ METAFORE PEDESTRI SULL’ECLISSE DELL’ARTE. ~
Prendiamo un esempio assai popolare in queste ore. Delle miserie calcistiche italiane in molti cercano la consolazione con un realistico abbraccio del fato: «ducunt volentem fata, nolentem trahunt» si sussurrano gli idolatri del pallone asciugandosi le lacrime. Ovvero, se Eupalla – dea generata dalla scrittura di Brera – nega il talento a una generazione, attendiamone un’altra con santa rassegnazione. Il mito non attecchisce al succedaneo. La medesima considerazione andrebbe fatta per l’arte. Se le nove Muse nove hanno strappato grazia e techné alla generazione contemporanea, aspettiamo anche qui con uguale pazienza. E come non conviene nel calcio scambiare le «goffe scarponerie» con l’opera dei fuoriclasse schiumanti, così non è onesto in campo estetico spacciare per artisti dei ronzinanti raccattapalle. Domani il pubblico degli stadi cercherà nuove distrazioni e nuove speranze ma non potrebbe mai mettersi l’animo in pace con delle squadre che, per esempio, invece di calciare, con la scusa che nei nostri tempi il genio latita, si limitassero a correre senza palla, così per pura mimesi. Perché il pubblico dei musei si accontenta allora di tutto quello che parodia l’arte e la sua mancanza? Non basterebbe prendere atto dell’eclisse e attendere mesti piuttosto che muoversi disordinatamente con un riso da ebeti?

mercoledì 23 giugno 2010

Nessun piacere

~ «SOLO LAVORO E RICREAZIONE»: QUANDO IL PESSIMISMO
DI LEO STRAUSS PENETRA NELLA «NOTTE DEL MONDO» ~

A proposito di piacere. Nonostante le autorità scolastiche abbiano scomodato Andrea Emo, l’inquieto interlocutore di Cristina Campo, l’aristocratico veneziano che sembrava uscire da un racconto di Hofmannsthal, e lo abbiano posto in una singolare compagnia che andava da Botticelli a d’Annunzio per disquisire delle umane godurie e dare così un titolo alquanto articolato all’esercitazione pubblica di componimento in lingua italiana, se ne sono ricavati verbosità e tono burocratico per poi avallare una vaga ideologia edonistica. Sintetica invece, superbamente sintetica la visione pessimistica del filosofo ebreo Leo Strauss che riassume il pessimismo di Heidegger: «Sembrava approssimarsi una società mondiale controllata o da Washington o da Mosca. Per Heidegger non faceva alcuna differenza se il centro fosse Washington o Mosca. L’America o la Russia sovietica sono metafisicamente lo stesso. Decisivo per lui è il fatto che questa società mondiale è peggio di un incubo. La chiamava la ‘notte del mondo’. Essa implicava infatti, come Marx aveva predetto, la vittoria di un Occidente sempre più completamente urbanizzato, sempre più completamente tecnologico sull’intero pianeta – livellamento e uniformità totali, indipendentemente dal fatto che a realizzarli fosse la coercizione ferrea o la réclame edulcorata dei beni offerti dalla produzione di massa. Significava unità di razza umana al più basso livello, completa vacuità della vita, auto perpetuazione della dottrina senza capo né coda; niente piacere, niente concentrazione, niente elevazione, niente distacco; niente altro che lavoro e ricreazione; niente individui e niente popoli, ma invece ‘folle solitarie'» (in Gerusalemme e Atene, Torino,1998, p.373).

Perfette le ultime righe, l’ultima proposizione. «Lavoro e ricreazione» nel tempo della solitudine di massa, una definizione secca senza l’ipocrisia del valore socialista del primo e senza l’inganno altisonante del ‘tempo libero’. Strauss scriveva queste righe (meglio, le pronunciava in un’aula universitaria) nel 1950. Poco credibile invece l’uguaglianza ‘metafisica’ di Russia e Usa: discorsi paradossali che non potrebbe mai fare un padre che dovesse scegliere dove far vivere il figlio ancora bambino. Eppure un geniale rumeno, perseguitato da una feroce amarezza, diceva da Parigi la stessa cosa ai suoi connazionali rimasti in patria sotto la dittatura comunista, in una «lettera a un amico lontano»: «Noi ci troviamo di fronte a due tipi di società intollerabili. E quel che risulta più grave è che gli abusi della vostra permettono a questa di perseverare nei suoi e di opporre assai efficacemente i propri orrori a quelli coltivati da voi» (Emil Cioran, Histoire et utopie, Gallimard, 1960, p. 23). Ma in questa simmetria, «il rimprovero principale che si può muovere al vostro regime è di aver mandato in rovina l’utopia, principio di rinnovamento delle istituzioni e dei popoli. […] lo spettacolo di una grande idea sfigurata, la delusione che ne derivava, impadronendosi degli spiriti, finiva con il paralizzarli. […] Chi poteva indovinare, nel secolo scorso, che la nuova società avrebbe, con i suoi vizi e le sue iniquità, consentito alla vecchia di sopravvivere e anche di consolidarsi, che il possibile, una volta realizzato, sarebbe corso in aiuto del rivoluzionato» (p. 24). Una bella critica per i tempi, quando gli scrittori optavano in genere per l’«idea sfigurata». Simili parole sembrano però ancora dei conforti per la coscienza di chi siede in un caffè parigino, benché inconsolabile. Proveremmo vergogna a ripeterle oggi, di fronte a una badante o a una domestica rumena.

Strauss comunque, non credette a quella simmetria metafisica di cui parlava a proposito del filosofo esistenzialista. Lui fece la sua scelta, emigrò in America. E rimase con il suo sconforto.

lunedì 21 giugno 2010

Sacra anatomia

~ PICCOLO CONFRONTO TRA PIETISMO E CATTOLICESIMO
SULLE QUESTIONI DEL CUORE ~

Quando il luteranesimo, dopo neppure due secoli di vita, virava già verso la piattezza spirituale che avrebbe poi suscitato l’indignazione di Kierkegaard, nacque per soccorrerlo il pietismo, un movimento formato da piccole comunità vagamente salottiere, incentrate sul culto del cuore, della interiorità, della introspezione. Religiosità dal sentimentalismo esoterico che avrebbe avuto un ruolo importante nella genesi della Romantik. Ai pre-romantici che sprofondano in una intimità ineffabile, ai protestanti che non hanno il dono delle apparizioni, delle vive immagini offerte allo sguardo dei semplici, agli iconoclasti che a furia di spiritualità ossessiva arrivano a cancellare l’aspetto fisico, il corpo, Roma sembra rispondere con il culto del cuore divino.

Antico era questo interesse. Già i Titani volevano divorare il cuore di Dioniso, impediti all’ultimo momento da Zeus che li fulminò, permettendo la rinascita del dio proprio dal suo cuore ancora intatto e palpitante. Boccaccio fa mangiare a una donna ignara il cuore del suo amante cucinatole dal marito geloso, lì era simbolo della forza, della vita. Dante nella Vita nova descrive una visione: una figura maschile, «ne l’una della mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum» [Guarda il tuo cuore]. E […] pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le fece mangiare questa cosa che in mano le ardea…». I cuori del mondo latino sembrano prendere una forma precisa, non sono inconscio tenebroso, piuttosto simboli fiammeggianti, oriflamma del sommo sovrano, immagine scaturita da innumerevoli visioni mistiche. Il cuore, metafora pietista dell’interiorità, nella concezione romana viene al massimo esteriorizzato, esposto, venerato insieme alla sacra anatomia (dissezione dei corpi per trarne delle reliquie – in primis le sante piaghe, il costato, ecc. –, in generale il bisogno vitale di segni corporali che il libertino confonde con il feticismo); il Salvatore strappa dal petto il suo cuore e lo offre alla devozione dei fedeli.

I giansenisti gridavano allo scandalo, all’idolatria, papa Pio VI tirò dritto e istituì ufficialmente il culto del sacro cuore, la adorazione del cuore carneo, del cuore amante. A Roma, esso non significava i segreti dell’anima bensì l’organo fisico che pompa il sangue nel nostro corpo. Giovanni Maria Lancisi, medico al Santo Spirito e archiatra pontificio, oltre a curare esemplari tavole anatomiche e a dire parole decisive sulla malaria, lasciò un trattato innovativo, De motu cordis et aneurysmatibus, uscito postumo nel 1728, con il quale contribuì allo sviluppo della fisiopatologia cardiocircolatoria mettendo in luce l’origine degli infarti e degli aneurismi. Una trentina di anni più tardi, Pompeo Batoni, il rivale di Mengs, il ritrattista romano dei protagonisti del Grand Tour, diede forma pittorica a questo muscolo del Dio fatto uomo dipingendo su rame la celeberrima immagine conservata nella chiesa del Gesù e riprodotta in milioni di esemplari: Cristo è con il cuore in mano, con il cuore coronato di spine, una metonimia, una parte per il tutto, ma quella parte non concede nulla alle sfumate introversioni romantiche: sanguinante, realistico, anatomico e fiammeggiante. Così gli Herz-Jesu-Feuer, ovvero i fuochi del Sacro Cuore di Gesù, istituiti in Tirolo durante la resistenza delle popolazioni montanare e cattolicissime alle truppe napoleoniche, non hanno nulla a che spartire con le meditazioni pietistiche: è ricordo di battaglia accesa, con la figura araldica del cuore, segno di fedeltà al visibile, nella lotta ai piccoli segreti della teosofia böhemiana, alle massonerie del sentimento, alle gnosi comunque mascherate. Battaglia che si rinnova nelle notti ardenti di giugno, mese dedicato appunto al cuore divino.

martedì 15 giugno 2010

Notturno veneziano

~ IL PRIVILEGIO SULLA LAGUNA, LA SVENTURA A ROMA
E A NAPOLI ~

A Venezia – ci racconta una giovane amica che studia lassù – le principali biblioteche pubbliche e private sono aperte fino a mezzanotte e pure la domenica pomeriggio. Ecco la cultura sempre invocata astrattamente – una nuova religione del sacrificio – che una volta tanto invece fa pensare a cose piacevoli, buone, utili. Così chi non ha il privilegio di possedere a casa milioni di libri o di giorno lavora e non per questo si sente di appartenere alla parte degli iloti o è semplicemente un nottambulo per vocazione può compulsare in ore segrete volumi d’ogni epoca e forse trovare con un pizzico di fortuna più una certa intuizione, in pagine che non basterebbero molte vite a leggere interamente, le parole nascoste della salvezza, quantomeno della consolazione. E passare all’enoteca per l’aperitivo e poi tornare, lasciare un libro aperto e ritrovarlo in un eccentrico dopocena.

A Roma, metropoli sbandata, non è concesso un tale beneficio, anzi la Biblioteca nazionale accetta le ultime richieste all’ora di pranzo e già nel pomeriggio, abbandonata e sonnolenta, invoglia alla fuga. Qui cultura non fa rima con piacere e l’assessore municipale addetto a simili affari si bea delle code per visitare musei vuoti, del presenzialismo di massa, degli obblighi imposti da Madama Moda. A Napoli, dove si spendono venti milioni di euri per la cultura della parodia, coloro che l’hanno governata durante un ventennio non si sono mai sognati di organizzare in modo proficuo quello che appunto si chiama un servizio pubblico, neppure la spazzatura riuscivano a raccogliere, con il rischio di colera, figuriamoci far spingere di notte un carrello con dei libri. Ma soprattutto la logica dominante, contemporanea, mediatica non pressa mai per simili iniziative. Del resto, provate a immaginarvi un camorrista aprire con circospezione un libro, non i romanzetti che cantano le sue gesta e di cui parla divertito al cellulare con gli amici, sopraffino ermeneuta di ogni allusione criptica, no, sfogliare nel silenzio severo di una biblioteca un’opera inattuale. Poco verosimile. Ma è facile vederlo mischiarsi con gli abiti firmati tra i visitatori del Madre. Magari addirittura mimetizzato tra i venditori di opere al museo, tra i mediatori che fanno crescere i prezzi, forse addirittura tra i ‘creatori’ che stabiliscono la cifra e incassano direttamente dallo Stato.

venerdì 4 giugno 2010

Il dubbio di Wittgenstein

~ SULLA SOGLIA DI UNA DIMORA SPLENDENTE ~

Ludwig Wittgenstein, cresciuto tra i Rodin e i Klimt, i Segantini e i Klinger, in una dimora principesca visitata da Brahms e da Clara Schumann (che fu anche insegnante di musica delle zie del filosofo), frequentata dal Quartetto Rosé, dal giovane Pablo Casals e da Bruno Walter – giusto per citare dei nomi che poi entreranno, o erano già entrati, nella storia – ebbe, una volta congedatosi da un simile mondo dorato, un forte dubbio. Si trovò a pensare che la cultura aveva perduto quella integrità per cui valeva la pena che i migliori si rivolgessero alle arti. Più tardi annotò nei suoi Quaderni 1914-16: «L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis: questa è la connessione tra arte e etica». Adesso che tale connessione non esiste più, e in luogo dell’eterno trionfa il contemporaneo, il dubbio si fa estremamente più grande: conviene a un giovane per bene dedicarsi a delle arti così ridotte?

mercoledì 2 giugno 2010

Un'esperienza estetica alla toilette

~ IN COMPAGNIA DI KARL KRAUS ALLE INAUGURAZIONI
DEI MUSEI ROMANI ~

I «pacifisti-linciatori» sono una nuova categoria, appena aggiunti alla corte di Ubu Roi. I demagoghi, invece, sono eterni e chiedono di devolvere ai bisognosi i soldi per la sfilata dell’esercito italiano testé tenutasi ai Fori. Pronti a cancellare con una scusa filantropica lo spettacolo coreutico della disciplina, felici anzi di nascondere il simbolismo guerresco, si guardano bene da avanzare richieste simili per le inaugurazioni a catena di musei costosissimi a Roma. Trattasi in questo secondo caso di cultura – come dice peraltro il bonario ministro ricoperto di sputi – ovvero di un nulla così sacro che guai a bestemmiarlo. Anche perché ha il consenso democratico: le folle che nello scorso fine settimana, tralasciando per una domenica i pellegrinaggi con tutta la famiglia ai centri commerciali, si sono messe in fila davanti agli specialissimi supermercati Maxxi e Macro, facevano una solenne processione del loro Corpus Domini, culto degli inafferrabili oggetti che le dominano misteriosamente. Sembra che al vecchissimo Karl Marx l’idea dell’epifania della merce gli fosse venuta in una visita al londinese Crystal Palace e alle sue esposizioni. Neppure mezzo secolo dopo al vecchio Karl Kraus erano chiare le conseguenze di questi estetismi di massa. Lasciamolo parlare, è il migliore commento ai contemporanei littoriali dell’arte, alla fiera romana.

«Due princìpi tra loro avversi muovono il nostro spirito: il senso del pittoresco e il piacere del necessario. Io vorrei scommettere cento contro uno che l’uomo che, per così dire, vegeta, e cioè il filisteo, dà la preferenza al pittoresco, mentre il poeta si accontenta del necessario. Il poeta difatti ha bisogno di avere via libera nella vita esterna per poter arrivare a quei miracoli che egli tira fuori da se stesso. Egli porta nella sua testa tutte le stelle del cielo e, per godere bene di esse, ha solo bisogno di una lampada che funzioni bene. Il fatto che esistano delle vetture pubbliche che lo conducano rapidamente e comodamente al suo tavolo di lavoro è per lui più importante che il sapere che nel museo della sua città è appeso un autentico Correggio. Per il filisteo invece il Correggio è indispensabile anche se non è in grado di distinguerlo da un autentico Knackfuss. Il filisteo vive in un presente costituito da attrattive turistiche; l’artista invece tende verso un passato dotato di tutti i comfort dell’epoca moderna. Quello non fa caso agli impedimenti della vita esterna perché non ha una vita interiore che possa essere minacciata da essi. E se ciononostante la sua scorza dura li avverte, gli rimane pur sempre una consolazione: l’arte. Essa è per il filisteo l’ornamento della sua fatica e dei suoi tormenti quotidiani: egli sbava dietro agli ornamenti, come il cane dietro alla salsiccia. Perfino gli ostacoli della vita lo attirano per il loro carattere pittoresco» (da I pittoreschi - (Fantasie di un viaggio in Italia) in Die chinesische Mauer (trad. it. La muraglia cinese, Roma, 1989).

«Tempo libero» si chiama infatti questa concessione al carcerato, al forzato del lavoro per il resto della settimana, al cane che corre dietro alla salsiccia. «È molto meglio immaginarsi i viaggi» che affrontarli davvero, sosteneva Kraus che possedeva la ricchezza del tempo in abbondanza e che non doveva ingannarlo. Il povero filisteo che viaggia sempre più e che ‘consuma cultura’ piuttosto che le suole delle scarpe ha il problema del museo e delle cose che vi sono appese, anche se non le capisce. Problema che si complica terribilmente dal momento che gli assessori che dovrebbero occuparsi di vetture pubbliche e di traffico, di illuminazione e di spazzatura, fanno, diciamo così, gli esteti e con il loro gusto impiegatizio finanziano i mercanti per la loro mercificazione del mondo. I giornali discettano quindi dell’arte degli assessori e stabiliscono quando l’evento è «imperdibile». Ancora Kraus, in un suo scritto contro il giornalismo letterario, sembra avere già letto La Repubblica di domenica scorsa, almeno la pagina eccitata per i cessi neri della francese che ha ideato e arredato un’ala del Macro (forse aveva intravisto l’originale in qualche reportage primo Novecento di quella Neue Freie Presse che lo mandava in bestia): «Questi giovani vanno la prima volta in bagno quando ci sono mandati come inviati. Può essere un’esperienza. Ma loro la generalizzano» (Heine e i successori in La fine del mondo, Firenze, 1994) .