sabato 31 luglio 2010

Il tempo, la polvere e la carne

~ VERSI IN OMAGGIO NEL «MERIGGIO DEL FULGIDO LUGLIO» ~
Per A. che oggi compie gli anni
Una poesia in queste pagine elettroniche, una sola, senza farci l’abitudine. Infatti, l’«Almanacco» iconofilo non riporta immagini, l’«Almanacco» poetico in senso novalisiano non trascrive versi: nel mare di figure e di assonanze e ritmi, preoccupato dei rischi di inflazione, vuole esser cauto, parsimonioso, intransigente, tanto è grande il suo rispetto per queste somme forme umane, «all’incrocio del tempo e dell’eterno» – come diceva Cristina Campo nel proprio Canone. Un’eccezione dunque, per un poeta dimenticato, Giorgio Vigolo (1894-1983), che incontriamo nei libri come traduttore di Hölderlin e curatore dell’opera di Giuseppe Gioachino Belli, dedito cioè alla polarità tra la Begeisterung, l’entusiasmo dello Svevo, e la diffidenza del censore papalino, nell’epoca in cui si affermava il moderno. I suoi versi rivelatisi tramite un graditissimo dono di una raccolta che ce li ha messi sotto gli occhi, nel «meriggio del fulgido luglio», erano coperti da un velo di polvere, «dentro gli oggetti c’è polvere. / Pulvis. Cetonia xilofaga…» – Brodskij spiega – «poiché la polvere è la carne / del Tempo. Carne e sangue».

Canto del destino si intitola il volumetto da cui citiamo, pubblicato da Neri Pozza in Venezia, nel 1959, con una copertina color malva. Nelle prime pagine contiene diversi riflessi verbali di paesaggi, chiese, palazzi di Roma – nella luce struggente degli anni di mezzo del Novecento, della pietas del dopoguerra – sui quali forse sarebbe bello ritornare.

DOLCE AL TUO LABBRO…

Dolce al tuo labbro e al mio
il confuso respiro
delle parole mormorate insieme,
e questo che ci tiene
in suo calmo potere
degl’inganni del tempo ultimo oblio.
Oh, nostre lunghe pene,
siete ora lievi a ricordarvi e care,
se in questo amato sogno avete sera;
se dalla mite sfera,
dal santo arco dell’ombra
pietà discende e quasi illude il cuore
che al nostro giorno breve
un dio la luce che mancò ci deve.

martedì 27 luglio 2010

Caravaggiomania

~ UN PUBBLICO INCAPACE DI «CAPIRE LA SUA ARTE», LA «MACABRA RIESUMAZIONE» DELLE SUE OSSA,
IL PAROSSISITICO RAPPORTO CON IL SUO NOME: RIPORTIAMO UN ESEMPLARE INTERVENTO DI ANTONIO PAOLUCCI SULL’«OSSERVATORE ROMANO» ~

A Roma, al numero 16 di via degli Astalli, di fianco a Palazzo Venezia, c’è l’Ingresso del Convento del Gesù. A quel numero civico ho suonato nel tardo pomeriggio di lunedì 19 luglio. Il mio amico Giovanni Maria Vian voleva che vedessi dal vero e da vicino il dipinto che – pubblicato a colori e in prima pagina su «L’Osservatore Romano» del 18 luglio – aveva suscitato una subitanea fiammata di curiosità caravaggesche. A onor del vero, occorre dire che l’autrice dell'articolo scritto per illustrare la foto di un inedito Martirio di san Lorenzo non si sbilanciava in attribuzioni azzardate. Con apprezzabile correttezza scientifica sospendeva il giudizio sulla paternità della tela, affermando essere un altro l’obiettivo della sua ricerca: studiare gli eventuali rapporti del Merisi con i gesuiti. In effetti, si tratta di una questione di grande rilievo che affatica da decenni gli storici dell’arte italiani e stranieri.

Come l’arte moderna – fondata, grazie a Caravaggio, sulla terribile modalità del Vero visibile svelato alla luce – abbia incrociata e fatta propria la moderna religiosità nata dal concilio di Trento e divulgata dai grandi ordini ‘nuovi’: gli oratoriani, i gesuiti, i cappuccini. Questo è in sintesi l’assunto storiografico da tempo affrontato e vivacemente dibattuto. Solo in parte risolto o avviato a soluzione. Che Caravaggio fosse in documentati rapporti con la comunità oratoriana della Chiesa Nuova, è noto. La Deposizione della Pinacoteca Vaticana ne è la prova più eloquente. Che conoscesse e frequentasse i circoli gesuiti è possibile e persino probabile. Tuttavia, va dimostrato. La presenza al Gesù di Roma di una tela di impianto stilistico caravaggesco può essere un indizio e gli indizi, si sa, sono i primi passi per arrivare alla verità. Questa era ed è l’ipotesi di lavoro di Lydia Salviucci Insolera, autrice dell'articolo sopra citato. Il quale articolo, nel pomeriggio di sabato 17, ha incendiato i telefoni degli storici dell’arte di mezza Italia (il mio fra gli altri) pressati tutti da giornalisti che, con la brutalità e l’impazienza necessari al loro mestiere, volevano sapere subito se si trattava di un Caravaggio vero oppure no. D’altra parte, le pressioni della stampa sono ben comprensibili. Viviamo tempi di parossistica «caravaggiomania». I quasi seicentomila visitatori alla mostra delle Scuderie del Quirinale, la macabra riesumazione delle (presunte) ossa del pittore che ha riempito le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, ce lo fanno capire.
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Cento anni fa Caravaggio era così poco apprezzato che, al momento dell’acquisizione da parte dello Stato della Collezione d’arte del Principe Borghese, la stima ufficiale valutava la Buona ventura un terzo della Madonna col Bambino dipinta dall’oggi pressoché incognito Sassoferrato. Ai nostri giorni, al contrario, il Merisi tocca l’acme dell’universale consenso. Non perché il popolo delle mostre dei musei sia in grado di capire davvero la sua arte, ma semplicemente perché la sua storia e il suo destino di «pittore maledetto», di trasgressore e di eversore, si riflettono come in uno specchio nel temperamento, nelle attese, nelle simpatie delle donne e degli uomini di oggi. Il che dimostra, posto che ce ne sia bisogno, come gli artisti e le opere d’arte non siano valori assoluti e immodificabili ma cambino a seconda del mutare delle culture e della sensibilità di chi le guarda. Ma, questo è un discorso complesso che ci porterebbe lontano. Conviene quindi chiuderlo subito.
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Torniamo dunque alla sera del 19 luglio scorso quando, accolto dalla squisita e colta cortesia di padre Daniele Libanori, ho potuto vedere il Martirio di san Lorenzo. Al momento è conservato nella sagrestia della Cappella dell’Assunta alla Confraternita dei Nobili, un luogo meraviglioso a me fino a quel momento incognito. Un teatrino barocco, ancora saltuariamente officiato (per i «Nobili», mi è stato detto), arrivato fino a noi miracolosamente intatto dopo quattro secoli. Varrebbe la pena di andare lì solo per vedere le dieci sculture mezzane in bronzo dorato (alcune di Alessandro Algardi come ha studiato e capito la Montaigue) raffiguranti immagini di santi. È la gloria della Ecclesia triumphans consegnata alla dimensione privata di un aristocratico luogo di culto. È l’idea che negli stessi anni o poco dopo Gianlorenzo Bernini affidava alla Chiesa universale nelle sculture di coronamento a piazza San Pietro. Nell’un caso e nell'altro intuizione formidabile, qualità progettuale ed esecutiva semplicemente superba! È importante l'accenno alla qualità perché (più della diagnostica sui materiali e sui pigmenti oggi tanto usata e abusata, persino più degli stessi supporti bibliografici e documentari) è il rilevamento della qualità il vero consenso che certifica dell’autenticità di un’opera. Ebbene, il livello qualitativo della tela che si conserva nella sagrestia della Cappella dei Nobili al Gesù di Roma è modesto. Bella l’idea del san Lorenzo drammaticamente dialogante sulla graticola del suo martirio, suggestivi i ceffi dei manigoldi impegnati nell'esecuzione atroce. Poi però guardi da vicino e vedi mani prospetticamente sbagliate, anatomie goffe e disarticolate nei nudi in secondo piano sulla destra, panneggi incerti, stesura pittorica inadeguata. Insomma, la qualità non c’è mentre in Caravaggio c’è sempre e altissima anche quando (si pensi all’Amorino dormiente o al Wignancourt di Palazzo Pitti) egli usa il massimo della sprezzatura e il minimo delle risorse espressive. Che dire allora? La mia opinione è che si tratti di una copia antica da un originale non di Caravaggio (altrimenti ce ne sarebbe traccia nelle memorie documentarie e nelle fonti) ma piuttosto di un suo «creato», forse di ambito napoletano, alla Battistello Caracciolo. Un caravaggesco di qualità, negli anni fra i Venti e i Trenta del XVII secolo, ha voluto dare al Martirio di san Lorenzo la smagliante evidenza del Vero, il valore esemplare in certo senso catechetico del martirio. La memoria di un dipinto che deve essere stato comunque notevole e che per qualche ragione è andato perduto, è oggi consegnata alla tela, oggettivamente modesta, che sta al Gesù di Roma.

martedì 20 luglio 2010

I tagliatori di feste


~ NESSUNA PROTESTA PER QUEL CHE ACCADE
ALLA BIBLIOTECA NAZIONALE CENTRALE DI ROMA ~

Altro che tagli alla cultura, come piace recitare, a mo’ di giaculatoria, ai perdigiorno di una certa parte politica, qui si tratta di ferite profonde, di sbudellamenti vigliacchi, di attentati che colpiscono i bibliofili (nel senso etimologico, gli amanti dei libri). Si è dunque realizzata la distopia ingenuotta di Fahrenheit 451? È il potere oscuro che cerca di soffocare il pensiero libero? La televisione che duella con il suo avversario? No, altro che fantascienza, piuttosto l’eterno film in costume italico: i sindacati che mettono al primo posto i comodi dei propri affiliati, la mancanza di senso organizzativo in molti dirigenti statali, la strafottenza delle pubbliche istituzioni rispetto a quella che in burocratese si chiama utenza. Tutto questo insieme di cause sta uccidendo la Biblioteca nazionale centrale di Roma. Da anni, esattamente da quando con l’abolizione del servizio militare obbligatorio sono scomparsi i volenterosi ‘obiettori di coscienza’ che collaboravano a riempire i buchi lasciati dalla pletora di impiegati, la maggiore biblioteca italiana (più o meno alla pari con quella di Firenze), interrompe la distribuzione di libri alle due del pomeriggio (v. a questo proposito «Notturno veneziano», pubblicato da «Almanacco romano» il 15 giugno 2010). Ma in questi giorni succede di peggio: a chi si precipita dopo mezzogiorno per ordinare in fretta e furia qualche titolo da consultare nel pomeriggio, càpita di essere bloccato sull’ingresso, il custode accaldato risparmia il fiato e si limita a indicare un cartello. Nell’avviso è scritto che durante il periodo estivo, praticamente per una intera stagione dell’anno, la somma biblioteca chiude i battenti al termine della mattinata. Poi, nel mese di agosto, si arriverà allo sbarramento completo. Nessuno grida allo scandalo, nessuno medita sul fatto che il più imponente patrimonio librario italiano è sottratto al suo pubblico per tanti giorni all’anno. Nessuno si commuove ricordando come, fino a qualche tempo fa, l’estate fosse il periodo ideale per gli insegnanti d’ogni dove e soprattutto del Sud che approfittavano delle vacanze scolastiche per fare le loro ricerche erudite alla Nazionale di Roma e buttar giù magari un libretto sulla cattedrale del paese o su una questione storica minore. Ma non solo gli insegnanti, tutti i ricercatori per diletto avevano diritto di attingere a questo immenso deposito che faceva leccare i baffi a ogni studioso: 7.000.000 di volumi a stampa, 2000 incunaboli, 25.000 cinquecentine, 8.000 manoscritti, 10.000 stampe e disegni, 20.000 carte geografiche, 1.342.154 opuscoli. L’estate romana, prima che una fiera rumorosa, era un sogno da umanisti: starsene alla Nazionale con l’aria condizionata a leggere per piacere libri inattuali. Adesso non più, adesso non si studia e neppure si protesta per il furto che ci hanno fatto.

Come mai coloro che si riempiono la bocca con la parola cultura qui non manifestano la loro rabbia tanto schiumante per i ‘tagli’ governativi? Semplicemente perché la cultura che piace loro è quella delle feste, dei frizzi e dei lazzi, dei concertini e dei balli, del contemporaneo e dell’estemporaneo, dei cocktail e banchetti a spese del pubblico, degli eventi esclusivi cui partecipare su e giù per la penisola alla faccia dei poveri di spirito che debbono pagare, senza consumare, i godimenti di élites autoproclamatesi tali. Che gliene importa a questi gaudenti coatti dei libri estranei all’attualità? Come è démodée la carta polverosa!

Quando governava il centro-sinistra, il professor Luciano Canfora, un sapiente d’altri tempi, un maestro della cultura classica, un saggista battagliero e caustico, un comunista severo, redarguì dalla prima pagina del «Corriere della Sera» la maestrina della cultura di allora, una ministra tutta canzonette e calciatori, spiegandole l’importanza delle biblioteche pubbliche e della Nazionale in particolare, esortandola a intervenire in gran fretta per risolvere una delle periodiche crisi di questa gran casa dei libri. La solenne strigliata sortì il suo effetto. Adesso, invece, l’assessore alla cultura del Comune di Roma, un ex fascio che ha scoperto la dolce vita dei modaioli, parte all’assalto dei tagliatori di feste, i biechi governativi: basta con i tagli, urla con tutti i radical poco chic, ridateci i soldi per il Maxxi, per il Macro, per tutte le nostre sigle vezzose, per le adunate intorno ai totem delle installazioni. I restauri del Colosseo, la Domus Aurea che cade a pezzi, la Nazionale ormai a porte chiuse non sembrano suscitare il suo interesse. No Contemporary, no Party è il motto della allegra combriccola.

sabato 17 luglio 2010

Il ventilatore dell'arte


~ UNA STRANA FESTA PER IL CARAVAGGIO ~

San Michelangelo da Caravaggio, canonizzato dai sottosegretari, dai sovraintendenti e dagli assessori, hanno cercato le tue ossa come si fa per i santi e, una volta trovatele, le hanno esposte come reliquie, tra poco ci costruiranno pure un santuario. Quando mai i cadaveri dei pittori interessano qualcuno? Ma di te raccontano una specie di passione, la tua morte diventa un martirio. Stanotte ti celebrano per Roma, nelle chiese ornate dalle tue opere, scegliendo per data della festa, come si fa per chi sale alla gloria degli altari, il giorno della tua morte, il dies mortis, che corrisponde per gli eletti della Chiesa romana al dies natalis in Cielo. Noi non sappiamo se dopo la morte di febbre nella selvaggia Maremma tu sia immediatamente rinato in Paradiso, senza un giorno di Purgatorio, a noi ci sembri comunque un buon cristiano, e cristianissima, anzi cattolica controriformista, appare l’arte tua. Ma gli organizzatori della festa son gente un po’ ipocrita, di quel genere che avrebbe suscitato la tua rabbia irruenta e forse anche la violenza di cui raccontano i biografi. Siamo certi che non ci avresti messo molto a malmenare chi ti chiama «intrattenitore» o i feticisti del culturame che scrivono lo slogan della serata: «rinfrescarsi con l’arte all’ombra del Caravaggio». Al ministero dei Beni culturali ti trattano come un ventilatore o un pinguino dell’aria condizionata. Con te ci hanno preso gusto perché attiri le folle attaccate alle figure, alle storie, alla verosimiglianza, alla fisicità, alla somiglianza miracolosa con il creato. Sì, son quelli i tuoi miracoli da pittore. E con te è sempre successo grande, i soldi si fanno facilmente: basta il tuo nome per smuovere chi è nauseato dai concettualismi e vuol vedere la carne dipinta, la carne peccaminosa e redenta. Così hanno incassato molto con la mostra alle Scuderie, la cui notte finale sorprese anche i più ottimisti, e ci riprovano subito, con scarsa fantasia e molta ingordigia. C’è, soprattutto tra i gazzettieri, chi ti invoca come una rockstar e chi ti considera un succedaneo delle notti bianche, in ogni caso una trovata per richiamare i turisti annoiati o per movimentare l’estate romana. Una parte degli incassi che ricavano con questa pittura realistica saranno dirottati per nutrire la bestialità del ‘contemporaneo’, cosicché servirai ad arricchire gli iconoclasti con la sceneggiata in tuo onore. Del resto i burocrati e i mercanti dell’arte sanno bene che non si vive di incerti sperimentalismi e che ci vuole la vecchia pittura, magari anche per allontanarsene a menar scandalo. Siccome poi, quando ti hanno accostato all’isterico Bacon, le cose non sono andate troppo bene, adesso la nuova sovraintendente sta attenta a non mescolarti più con chi vive di luce riflessa, non conviene. Noi abbiamo la tua opera sparsa per le chiese romane, grazie a committenti – preti, cardinali, confraternite e nobili papalini – ben più abili di quelli attuali – pubblici, laici, modaioli – , che comprano a carissimo prezzo delle inutilità che si dimenticano in un battibaleno. Ma alla fine saranno loro a cantare vittoria confondendo i numeri dei tuoi pellegrini notturni con quelli del Maxxi e del Macro, facendo come al solito d’ogni erba un fascio, cercando in ogni modo di gabbare il santo.

venerdì 16 luglio 2010

I contraffattori

~ LA PARODIA NELLO SPAZIO DEL LAGER
E UNA VECCHIA DIAGNOSI DI JOSEPH ROTH ~

Immaginate lo scandalo delle coscienze democratiche e l’indignazione degli editorialisti sui giornali se dei ragazzotti in gita scolastica ad Auschwitz se ne tornassero con un video, girato magari con il telefonino cellulare, nel quale suonano e ballano il rock sul terreno ricoperto dal massimo tabù, ovvero nel luogo ‘sacro e proibito’, nello spazio simbolo del nichilismo occidentale. Ci si scatenerebbe nel gridare alla disumanizzazione crescente, al fallimento del sistema scolastico, al nazismo rinascente, alla demenza dell’attuale gioventù, al sorriso ebete di delinquenti lombrosiani, forse anche alle colpe del totem televisivo. Ed ecco che per una strana ‘legge’, di cui si è detto negli ultimi due articoletti su questo «Almanacco», una autoproclamatasi ‘artista’ australiana ha fatto un video nel quale si suona e si balla il rock degli zombie nel Lager, naturalmente con un certo successo mondiale – sulla pelle degli scannati si acquista facile notorietà – e un certo rispetto: è arte, ripetono come oche le gazzette. Tutta una questione di intenzionalità? C’est la faute à Brentano e à Husserl? O la sola tonalità possibile all’estetica contemporanea è quella della parodia?

Già negli anni Venti, e in un romanzo che si rivolgeva a un pubblico popolare, Joseph Roth scriveva: «’Questa vecchia cultura ha ormai mille buchi. Voi li rattoppate con i prestiti dall’Asia, dall’Africa, dall’America. I buchi si fanno sempre più grossi. Ma voi mantenete l’uniforme europea, lo smoking e la carnagione bianca e abitate in moschee e in templi indiani. […]’. ‘Facciamo qualche concessione, nient’altro’, disse il direttore d’orchestra. ‘Il mondo è diventato più piccolo, l’Asia, l’Africa, l’America si sono avvicinate a noi. In tutti i tempi sono state accettate usanze straniere e le si sono inserite nella cultura’. ‘Ma dov’è la cultura in cui volete inserirle? Non avete altro che contraffazioni di un’antica cultura. Sono forse gli studenti coi berretti colorati a sghimbescio a rappresentare l’antica cultura tedesca? È la vostra stazione, il cui miracolo più grande è che i treni vi partano e vi arrivino? […] Sta, questa antica cultura, nei vostri cari tetti a cuspide in cui abitano operai, non artigiani, orefici, orologiai, maestri cantori, ma proletari che vivono nelle miniere e stanno a proprio agio sui montacarichi elettrici, non in mezzo agli intellegibili caratteri gotici? Questa è una mascherata, non la realtà’» (Fuga senza fine, Adelphi, p. 97). In quel mondo delle «contraffazioni di un’antica cultura», in questo mondo senza neppure più l’uniforme dell’abito da sera, anche l’arte è una mascherata, parodia della parodia.

P.S. Il dettaglio che l’autrice del video e i suoi familiari che lo interpretano siano ebrei dimostra soltanto che anche i parenti delle vittime non riescono a sottrarsi all’unico linguaggio dominante in campo estetico, al punto da prendere in prestito per ricordare i morti perfino le sue forme più scurrili.

mercoledì 14 luglio 2010

Gli intoccabili (2)


~ ALTRE ASSOLUZIONI IN NOME DELL’ARTE E DEI CATALOGHI AL SEGUITO ~

I ragazzi di strada che insudiciano i muri con i loro scarabocchi – somiglianti l’un l’altro come diari di adolescenti melensi – e che chiamano tali villanie con il pomposo nome di Street art (la parola inglese è il latinorum di tutti gli importatori), finiscono ogni tanto in tribunale. L’altro giorno, per esempio, si è tenuto a Milano uno di questi processetti, conclusosi è inutile dire con una assoluzione. Che non càpiti al vostro palazzo di essere preso di mira, ché i giudici non vi faranno giustizia. Se da una grondaia che funziona male si produce sull’intonaco di casa una macchia di muffa, prima o poi qualche responsabile vi risarcirà, ma se la macchia di colore acido l’ha fatta uno sciagurato che si ritiene un artista il giudice gli riconoscerà il privilegio di imbrattare. Un diritto estetico. Imporre figurine ingenue quanto aggressive a sguardi che ne farebbero volentieri a meno.

I poveri giornalisti, che sono i primi a piegarsi di fronte alle cose che non capiscono, riportavano con devozione la notizia che gli squadristi della fantasia avevano tanto di cataloghi o di articoli dedicati alle loro gesta, mostrando così di riconoscere un nuovo dogma: il diritto perde la sua cogenza di fronte agli elogi del reo su carta stampata. Non ha alcuna importanza se il libro sia una cialtronata, se l’autore sia un compare dell’insolente che vuole imporre la propria fantasia squadrata, se il giornalista sia l’ultimo – per la sua scrittura approssimativa – a poter parlare d’estetica. L’ipse dixit adesso non si riferisce ad Aristotele ma alle sciurette della critica. Il feticismo del libro entra nelle aule dei tribunali. Tutti i parvenus della cultura se la fanno sotto.

domenica 11 luglio 2010

Gli intoccabili

~ IL NUOVO SACRO. ~ DOVE LA LEGGE
SI ARRESTA RIVERENTE ~

Soltanto una minoranza mostra indignazione per giudici e poliziotti belgi – da barzelletta francese – che inquisiscono vescovi vivi e morti onde scoprire fosche trame a sfondo sessuale. Eccitati ormai dall’informazioni a senso unico, l’opinione pubblica vorrebbe che le indagini sul male sociale non avessero più alcun limite, calpestando secoli di giurisprudenza, accostandosi inconsapevolmente alla barbarie della inquisizione spagnola (che i più confondono con quella, assai moderata, di santa romana Chiesa). Si chiede la scure della pena per sanzionare la pur minima violazione formale in campo politico come in quello religioso. Ma c’è una categoria di intoccabili, qualsiasi cosa facciano: la legge non può intervenire, l’umanità si piega atterrita come davanti a una visione numinosa, i giudici si fanno riverenti e si tirano indietro. È il nuovo sacro, con dei sacerdoti alquanto rozzi e spregiudicati. Lo chiamano anche «contemporaneo» mentre i suoi eletti officianti son detti «artisti» benché non mostrino di possedere alcuna arte (ma questo è il gioco dei paradossi).

I giornali online riportano stasera la notizia che a Poznan, in Polonia, un italiano (l’officiante in questione) ha fatto un collage con una donna nuda e una svastica sullo sfondo della bandiera rossa nazista. Una bella originalità nella composizione, non c’è che dire. Sennonché la galleria che ospita tale geniale accostamento ha pensato bene di ingrandire l’immagine e di ricoprire a scopo pubblicitario un intero edificio. E i polacchi che passano per quella strada non hanno affatto gradito simile porcata e l’ancora più volgare giustificazione dell’autore. Così un consigliere comunale si è rivolto alla magistratura per rimuovere la fastidiosa pubblicità. E i giudici hanno risposto come Pilato. Loro non ci possono fare niente, «non possiamo incriminare nessuno perché quella presente sul cartellone è un’opera d’arte». Ora, in ogni caso, quella sul cartellone sembra essere una riproduzione, una réclame piuttosto che un’opera d’arte, ma non sottilizziamo, quand’anche fosse l’originale, che cosa significa questa forma di comunicazione intoccabile? Ritroviamo la vecchia domanda che più volte ci siamo fatti in questo Almanacco: dov’è che scatta la cosiddetta arte che sottrarrebbe i suoi contenuti ai rigori della legge? Che cosa bisogna escogitare di ‘artistico’ per pubblicizzare messaggi ripugnanti? Se un altro ‘artista’ domani esalta Hitler e dopodomani Stalin e poi la mafia e lo stupro dei bambini, bisognerà sopportare pazientemente in nome di un’arte che non si capisce proprio dove sia? Si sa invece che l’arte, quella vera, è prosperata dove c’erano regole e proibizioni, mentre è morta nella libertà senza limiti, al punto da ridursi a esporre continuamente il proprio cadavere e i suoi miasmi per suscitare un tenue interesse in un pubblico di esteti ridicoli. Lo sa pure la gente comune di Poznan che è passata alle vie di fatto e ha provato a distruggere il cartellone. La direttrice della galleria che accoppia svastica e figurina nuda, secondo vecchie pratiche porno, ha parlato di «atti di vandalismo».

venerdì 9 luglio 2010

Minestre

Un amico ci scrive a proposito della minestra Rumford citata da Heine e di cui si parlava la volta scorsa (Il museo apocalittico): «La minestra Rumford o zuppa Rumford deve il suo nome a un bizzarro colono britannico del Nuovo Mondo. In realtà il personaggio in questione si chiamava Thompson e abbandonò il suo Massachusetts, ormai distaccato dalla madre patria, per fedeltà al re di Londra. Riparato in Baviera ebbe il titolo di conte e scelse il nome del luogo sulla costa atlantica dove era vissuto. Il conte Rumford fu dunque un filantropo che si occupò di camini, di fornelli e di cucina. In particolare escogitò una minestra energetica e poco costosa per nutrire i poveri nelle mense pubbliche facendo a meno della carne. Heine, che aveva assaggiato l’uguaglianza democratica che ammazza l’arte, intuì la modernità dispiegata, la geometrica potenza dello squallore e la sintetizzò nella minestra Rumford, utile a riempire la pancia ma di gusto cattivo. Sembrava così anticipare la Campbell’s Soup con la quale un pubblicitario americano-polacco avrebbe tentato di parodiare definitivamente l’arte e di simboleggiare la miseria della sua epoca».

sabato 3 luglio 2010

L'apocalisse nel museo

~ L’ABIURA DELL’ARTE NEL RACCONTO
DI UN ANONIMO ROMANTICO ~

Un ex poeta finito a fare il guardiano notturno per fallimenti politici (dopo la Rivoluzione francese) e per soffuso nichilismo, un testo assai suggestivo del romanticismo tedesco e dell’«abiura dell’arte» seguìta a una intensissima stagione che voleva estetizzare tutto, a cominciare dalla vita (ad alcuni marxisti del Novecento andò più o meno alla stessa maniera). Apparso nel 1804, in anni ancora caldi,
Nachtwachen von Bonaventura (nella traduzione italiana: Bonaventura, Le veglie, a cura di P. Collini, Marsilio 1990, da cui citiamo), fu attribuito a tutti i grandi del romanticismo e anche a qualche minore. Secondo il curatore di questa edizione italiana – che esalta «Bonaventura l’iconoclasta», ossia il poderoso anticipatore della dissoluzione moderna dell’immagine – è a causa di un tale libro sinistro se, anni dopo, Hegel dirà: «Il nostro tempo, per la sua situazione generale, non è favorevole all’arte… Il pensiero e la riflessione hanno sopravanzato l’arte bella». Musica per le orecchie dei concettuali d’ogni guisa e delle avanguardie in genere che si appoggiano tutte alle elucubrazioni dei pensatori teutonici giammai sfiorati – storicamente dunque – dalla grazia dell’arte ‘bella’, dell’arte tout court. Dunque, dopo Novalis che voleva poetizzare il mondo, l’ex poeta che vive nelle tenebre annuncia l’apocalisse, l’avvento dell’impoetico. Heine ne darà una ragione sociale: «Verranno i radicali e prescriveranno una cura radicale […]. Anche se riuscisse loro di liberare l’umanità sofferente dei suoi più fieri tormenti, ciò accadrebbe soltanto a spese delle ultime tracce di bellezza rimaste al paziente; si alzerà dal suo giaciglio di malato, orribile come un filisteo guarito, e dovrà aggirarsi per tutta la vita nella orribile divisa da ospedale, nella veste grigio-cenere dell’uguaglianza. Tutta la tradizionale allegria, ogni dolcezza, ogni profumo e poesia, saranno eliminati dalla vita e non resterà che la minestra Rumford dell’utilità. Per la bellezza e il genio non ci sarà posto nella comunità dei nostri nuovi puritani, entrambi saranno scherniti ed oppressi, giacché la bellezza e il genio sono una sorta di regalità che mal si adatta a una società in cui ciascuno, insofferente della propria mediocrità, cerca di abbassare al livello comune tutte le doti più alte» (Heine, Ludwig Börne, 1840).

Nella tredicesima Veglia, nel Museo dell’arte che si apre nel Museo della natura, non ancora fusi come negli spazi attuali della Land Art, appaiono gli estetismi moderni, gli dèi con gli attrezzi ortopedici che saranno raffigurati da de Chirico, gli heiniani «dèi in esilio». Il nichilismo dell’Anonimo spiega le frasi foucaultiane: «l’uomo non serve a niente, perciò lo cancello». E avanzano «immagini nebbiose», «ombre», mancando la capacità di «dipingere con sufficiente chiarezza», alla maniera di Hogarth.

Entriamo nella tredicesima Veglia, nel mondo museificato.

[…] Sul monte, in mezzo al museo della natura, ne avevano costruito uno ancora più piccolo per l’arte, nel quale stavano ora facendo il loro ingresso parecchi conoscitori e dilettanti con torce accese, per immaginarsi nel modo più vivo possibile, a quel bagliore tremolante, i morti che vi erano custoditi. Anch’io ho di tanto in tanto i miei capricci artistici, a seconda della maggiore o minore cattiveria che sento in me, e passo spesso dalla grande stanza dell’arte a quella più piccola, per vedere come l’uomo, pur senza sapervi fondere la parte essenziale di ogni forma vivente – la vita stessa – tuttavia modella e intaglia in modo molto garbato un qualcosa di cui poi pensa che sia addirittura superiore alla natura.
Seguii i conoscitori e i dilettanti.
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Davanti a me stavano gli dei in pietra come storpi senza braccia e senza gambe, ad alcuni mancava addirittura la testa; quanto di più bello e sublime in cui la maschera umana avesse preso forma, l’intero Olimpo di una grande stirpe, sprofondata, dissepolta, come cadavere e torso da Ercolano e dal letto del Tevere. Un ricovero per invalidi, pieno di dei immortali e di eroi, costruito in mezzo a un’umanità miserabile. Gli artisti antichi che avevano pensato e plasmato questi torsi di dei sfilavano velati davanti al mio spirito.

Un piccolo dilettante fra i presenti si arrampicò a fatica, con la bocca protesa in avanti e quasi lacrimando, su una venere medicea senza braccia, per – come sembrava – baciarle il deretano, notoriamente la parte meglio riuscita della dea. Ciò mi fece montare in collera, perché in questa età senza cuore, niente sopporto di meno della smorfia d’entusiasmo in cui si possono contrarre alcuni volti, e così salii sdegnato su di un piedistallo vuoto per sprecare qualche parola.

«Giovane fratello d’arte! – lo apostrofai –. Il divino deretano sta troppo in alto per Lei, e con la Sua bassa statura non può arrivare fin lassù senza rompersi il collo! Parlo per amore degli uomini, poiché mi dispiace che Lei voglia rischiare la pelle per arrivare così in alto. Dal peccato originale, prima del quale – assicurano i rabbini – Adamo misurava cento braccia, siamo diventati sensibilmente più bassi e, con il passare del tempo, diminuiamo sempre di più, cosicché nel nostro secolo si deve seriamente mettere in guardia nei confronti di tutti i tentativi spericolati come lo è il presente. Cosa vuole mai dalla vergine di pietra che, in questo istante, potrebbe per Lei trasformarsi in una di ferro [la vergine di ferro è uno strumento di tortura n.d.t.], se solo non le mancasse le braccia per abbracciarla? Con quelle che le sono aggiunte non c’è infatti alcun pericolo; esse non bastano neanche per fare un pugno di Berlichingen [celebre cavaliere tedesco con una protesi di ferro, n. d. r.], e assomigliano piuttosto a quelle di legno che vengono attaccate ai corpi dei soldati mutilati. Amico, per quanto i medici dell’arte dei nostri tempi possano curare e ricucire, non riescono affatto a rimettere in sesto gli dei mutilati dalla perfidia del tempo, come ad esempio il presente torso, ed essi dovranno rimanere per sempre qui in pensione come invalidi e emeriti. Un tempo, quando essi stavano ancora eretti, e avevano braccia, gambe e teste, una intera stirpe di eroi si prosternava nella polvere dinanzi a loro; adesso avviene il contrario ed essi giacciono al suolo, mentre il nostro secolo se ne sta ben eretto e noi stessi ci sforziamo per spacciarci per dei passabili.

Amico dell’arte, a che punto siamo arrivati, se osiamo razzolare in questi grandi sepolcri divini e riportare alla luce i morti immortali, benché sappiamo che presso i Romani veniva punito duramente il semplice oltraggio delle tombe umane? Certamente alcuni spiriti illuminati considerano oggi questi defunti alla stregua di idoli, e l’arte non è nient’altro ormai che una setta pagana, penetrata furtivamente nel nostro mondo, che li divinizza e adora – ma che ne è poi di essa, amico dell’arte? Gli antichi cantavano inni e Eschilo e Sofocle composero i loro cori in lode degli dei; la nostra moderna religione dell’arte prega in critiche e ha la devozione nella testa come i veri religiosi l’hanno nel cuore.
Ah, bisogna disseppellire gli antichi dei! Baci il deretano, giovanotto, baci pure e facciamola finita! […]

Terminai impaurito, perché al bagliore cangiante delle torce, l’intero Olimpo mutilato parve improvvisamente prender vita intorno a me; l’irascibile Giove cercò di alzarsi dal suo trono, il severo Apollo afferrò l’arco e la lira risuonante, possenti si inalberavano i draghi intorno al Laocoonte che lottava tra i figli morenti, Prometeo plasmava uomini con i moncherini delle sue braccia, la muta Niobe proteggeva il più giovane dei suoi figli dai raggi del sole che dardeggiavano dall’alto, le Muse senza mani, braccia e labbra si agitavano confusamente, come se si sforzassero di cantare e suonare antichi canti ormai spentisi – tutto, però, rimase silenzioso all’intorno, la scena ricordava l’ultimo veemente guizzare di membra su un campo di battaglia; solo lontano sullo sfondo, non illuminato, stava un coro di Furie rigido e pietrificato, e fissava cupo e terrificante il tumulto».