venerdì 20 agosto 2010

Vacanze

~ SE VIENE ABOLITO IL TEMPO DEI RITI E DELLE FESTE ~

Mancando ormai il tempo dei riti e delle feste, nell’assopimento dell’anno liturgico, nell’insignificanza dei giorni che scorrono sempre uguali, appena scanditi dal riposo ogni tanto, finita ogni teleologia, pure quella delle false speranze ideologiche che nutrirono altre generazioni, non resta che la promessa di grandi vacanze, in luoghi sempre più lontani ed eccentrici, a sostituire nello spazio – peraltro reso omogeneo dalle abitudini globalizzate – il tempo appiattito e vuoto di senso. Vacantia da vacans, participio presente di vacàre, esser vacuo. Inferiore all’otium dei latini, aristocratica attività degli esseri pensanti.

giovedì 19 agosto 2010

Politica versus Intrattenimento

~ IN RICORDO DI UN POLITICO UMANO, DI UNO STATISTA CRISTIANO, DI UN PERSONAGGIO D’ALTRI TEMPI ~

Pian piano si è passati dalla politica all’etica, quindi alla giustizia spicciola e facinorosa, all’illusione di un giudizio finale continuo, celebrato da omini patetici e senza quella pietà che è propria del Pantocrator. Nel contempo si celebra l’economico, come si trattasse di un’eterna quanto pomposa riunione di condominio. Quello che furoreggia adesso in Italia è l’oscillare tra il trionfo del corretto e il trionfo dell’utile, l’etico e l’economico mano nella mano. La sinistra perde definitivamente – si trasforma in un club snobistico – dal momento che accetta come criterio quello della ‘scienza triste’ senza il correttivo della politica. Carl Schmitt pensava che la coppia nemico/amico con cui tentava di definire la politica comportasse la più drammatica serietà di intenti, non a caso il nemico precedeva l’amico, come la guerra precedeva la pace, il bellum era infatti la massima espressione della politica, momento supremo della decisione, che coinvolgeva i corpi, il sangue, il dolore, le vite dei cittadini. Inimmaginabile la politica nel glamour della dimensione televisiva. «Il politico è ciò che è decisivo». Altrimenti la polarizzazione tra gli individui e tra i popoli si riduce a un isterico vociare di impotenti, al chiacchiericcio violento delle tricoteuses che s’eccita per il sangue e mai si placa se non per la noia della ripetizione insensata. Oppure al futile della fotogenia.

Ecco allora la pericolosità di una violenza senza un politico in grado di mettervi un freno. È inutile aspettarsi da un giornale, da un editoriale, da un movimento di opinione pubblica la forza (anche morale) per porre un argine alla aggressività umana. Soltanto il politico può tenere a bada la folla e i suoi umori. Questa appunto l’arte speciale che non confida esclusivamente nella repressione e nella prevenzione da parte della forza pubblica. Ecco perché un mondo interamente pacificato, senza contrasti, sarebbe assolutamente impolitico, non avrebbe più bisogno del politico come dei militari. E là dove regna, almeno a parole, il pacifismo, dove la guerra è ormai un tabù anche se il nemico ti attacca abbattendo aerei e grattacieli nel cuore della capitale dell’Occidente, la politica perde ogni chance: è inutile tentare di rianimarla con la buona volontà. Se si sopprime il politico, perciò, sopprimendo per esempio anche la sola possibilità della guerra (e non perché l’umanità si sia riconciliata in eterno, realizzando la profezia di Isaia che richiede un intervento messianico, ma solo per un gesto presuntuoso), si deve essere consapevoli di quello cui si va incontro. Del resto, in via teorica, la guerra dei pacifisti contro i non-pacifisti essendo l’ultima, la suprema, sarebbe per forza la più crudele. Forse interminabile. A sentire Aristotele, molto prima di Schmitt, se il destino dell’uomo è il politikon, l’antipolitica è l’antiumano.

Utile e corretto, finalizzati al consumo, come pubblicità impone, producono invece un litigio sulle norme, sui codici che regolerebbero il mercato e i cosiddetti «stili di vita» derivati dal mercato. Questa l’Italia che occulta gli interessi nei valori, secondo la più triviale rappresentazione piccolo-borghese.

Ogni normatività è nient’altro che «finzione» contrapposta alla «possibilità reale dell’uccisione fisica» in mano al politico. Con tale suggestiva riflessione il grande costituzionalista tedesco apriva baratri concettuali. Nelle oscure pieghe del discorso si intravedeva la conclusione: quale legittimità potrebbe mai giustificare quest’immenso potere?

Il regno dell’intrattenimento è invece là dove il mondo appare senza più contrasti, dominio di Apollonio, il personaggio satanico che, nel libro profetico di Solov’ëv, si fa padrone del mondo, bello e giovane, cinico e seduttore, insensibile alle differenze umane ma protettore dell’animalismo, pacifista e universalista, che unisce la scienza occidentale e il misticismo orientale, conciliante e dialogante. Contro Apollonio, un vecchio papa invita alla lotta, non si arrende e convince i suoi amici dottori protestanti e rabbini ebrei a non cedere all’idolatria di questo Anticristo. Talvolta il presidente emerito citava nelle sue rutilanti interviste i personaggi di Solov’ëv, pur senza fare nomi sconosciuti agli intervistatori, senza sfoggio di cultura, come si conviene ai discorsi che attraversano i media, appena un accenno alla minaccia sotterranea, apocalittica, di cui parlavano «certi russi all’inizio del Novecento».

«La sola garanzia perché il mondo non divenga un mondo di intrattenimento, è politica e Stato; conseguentemente, ciò che gli avversari del politico vogliono va a finire nella produzione di un mondo di intrattenimento, di un mondo di divertimenti, di un mondo senza serietà» (Leo Strauss, Note sul concetto di politico, chiosando Schmitt). Proprio il saggio presidente che visse il tragico come nessun altro politico italiano dell’ultima parte del secolo capì che soltanto la maschera del trickster poteva consentirgli di rivolgere ai suoi connazionali un salutare avvertimento per difendere la politica dalle manomissioni della magistratura e di un’opinione pubblica abnorme e organizzata, contro l’arrendevolezza degli stessi politici. L’ultimo avvertimento.

domenica 15 agosto 2010

Topografia corporale

~ ROMA, I SANTI DEL CALENDARIO CATTOLICO
E LA FESTA DELL’ASSUNTA ~

Nel calendario ufficiale cattolico, quello che un tempo era in bella mostra anche nelle sacrestie, dove sono riportati i santi del giorno, c’è quotidianamente un riferimento che, se osservato con attenzione, metterebbe in fuga le tante fanfaluche sul cattolicesimo romano. Nell’indicare il santo da festeggiare, infatti, dopo l’apposizione che specifica la sua gloria (martire, confessore, dottore della Chiesa, vergine, papa…), c’è scritto sotto il nome del celebrato e la data approssimativa della sua morte la frase ricorrente: il suo corpo riposa a…, per lo più – visto anche il gran numero dei martiri dei primi secoli – nelle tante chiese di Roma, onde la città eterna è una specie di immenso letto per questi defunti speciali, una necropoli per eccellenza ma senza tristezza, perché i suoi abitatori già godono delle gioie del Paradiso. Ecco, a legger bene quel costante informare sull’ubicazione delle spoglie, vien fuori che il corpo ha una importanza rara nel mondo religioso, che il cattolicesimo non pensa solo allo spirito, che il suo culto si basa sulla venerazione dei corpi (altro che odio e repressione dell’aspetto fisico!), che l’antica liturgia stabilisce nel corso dei giorni il pellegrinaggio nei vari punti di questa singolare topografia corporale, comprendente anche i sepolcri che custodiscono resti più che millenari, povere ossa consunte, polvere, eppur segno prezioso di mediazione fisica con l’aldilà. Ma oggi è la festa dell’Assunta, di Maria Assunta, e il papa Pio XII, sessant’anni fa, ci disse con la solennità del dogma, che il suo corpo non è più qui sulla terra, che venne portato in Cielo dagli angeli, che sta accanto al corpo glorioso di suo Figlio, ambedue in trono, come li rappresentò per esempio Jacopo Torriti, inauguratore dell’arte italiana, nell’abside di Santa Maria Maggiore a Roma, ben sette secoli fa. Magari in una forma diversa, la Chiesa cattolica riesce a dire le medesime cose a una distanza temporale così imponente.

martedì 10 agosto 2010

Perseguitati dall'umor tetro

~ UNA EPIDEMIA DI PARANOIA? UNA GNOSI DI MASSA? ~

«Al giorno d’oggi, l’esperienza ferita
è il rifugio dell’ideologia…
»
Adorno

Vanità di molta indignazione: i più ingenui credono di attraversare l’epoca peggiore della storia e già a distanza di pochi anni spesso quelle crudeltà appaiono risibili, circonfuse pure da una certa nostalgia. Non perché quel che è venuto dopo sia per forza ancora più nefasto – il progressismo in chiave negativa è altrettanto stolto – semplicemente perché la historia è meno lineare di quanto si creda, con qualche smottamento qua e là. Prendiamo il caso dei progressisti-retrogradi del clima, che stabiliscono innumerevoli misurazioni per dimostrare che qualcosa è peggiorato negli ultimi duecento anni – da quando cioè le scienze esatte hanno messo a punto tutti i loro strumenti di rilevazione – malgrado non si sappia nulla di quel che accadeva immediatamente prima, ovvero senza potere confrontare quegli ultimi duecento anni con le epoche precedenti, talché ci si rivolge ai quadri o ai poemi per capire se nel Cinquecento facesse freddo o caldo. Non vale! Non si mettono accanto i giudizi sintetici dell’arte e i numeretti dei calcolatori. (Così come dovrebbe far sorgere il sospetto tanta analitica sui dettagli climatici e sulle statistiche minuziose – documentazione che proverebbe un aumento termico e conseguenti disastri negli ultimi vent’anni o giù di lì – quando soltanto attraverso l’informatica diffusa e la globalizzazione delle informazioni siamo in possesso dei dati su quante piogge si sono avute nell’altopiano siberiano o nel bel mezzo del Pacifico). Sono dunque escluse le controtendenze, tutto scivola verso il baratro o vola verso la radiosa aurora.

Altre genti devono aver provato come noi lo svilimento della religione, il relativismo cinico, la eclisse dell’arte (si pensi soltanto al papa fatto prigioniero dai napoleonici), ma una cosa è sicura: la forma delle lamentazioni è vieppiù degenerata negli ultimi secoli. Oggi, alla corruzione linguistica dei giornali scritti dai gazzettieri si è aggiunta quella, ancora più devastante, dei lettori che inondano le prose dei divulgatori con fiumi di commenti online; pallide e dignitose anticipazioni erano le lettere al direttore d’antan. Non è solo questione di sintassi, declinano all’unisono la lingua e i concetti. Oltreché ripetitivi, i messaggi appaiono più drammatici di quelli dei più neri momenti del racconto storico di questo paese, una eterna Caporetto, un eterno 1944, per cui viene da pensare a una specie di epidemia di paranoia. La lettura dei giornali non è più la versione hegeliana della preghiera mattutina ma la bestemmia biliosa contro il creato, il visibile, il rivelato.

In quale jardin des supplices saranno mai immersi questi scriventi? Ci si riferisce ossessivamente a un fascismo metastorico, che sopravviverebbe per generazioni, che perderebbe anche i suoi innegabili tratti di grandezza tragica per assumere il carattere caricaturale del carognesco, del Male assoluto in versione cinematografica ultrapopolare. Si attende solo la catastrofe. E ogni sguardo verso il potere non è quello pur sospettosissimo dei filosofi ‘francofortesi’, che possedevano una forma ricercata in grado di raggelare ogni coinvolgimento emotivo, bensì una scossa panica che non riesce a essere mai critica e finisce per feticizzare quel potere da cui si resta soggiogati. Un tale pensiero stereotipato si articola in termini di bianco e nero, bianco il proprio e nero quello di tutti gli altri (i più perversi possono invertire magari i colori). Ma ciò che maggiormente impressiona in queste reazioni del pubblico, aizzate da abili giornalisti, è la coprolalia che accompagna costantemente i giudizi, l’aggressività anti-politica in cerca di espressioni puerili, la volontà di lordare l’avversario, più o meno quel che si otteneva con la somministrazione forzata dell’olio di ricino.

La comicità che dovrebbe produrre risate liberatorie lega ancor di più ai dettagli delle onnipresenti caricature – anche qui, come in tutta la cultura contemporanea, domina la parodia –, ripropone l’asservimento alle frasi fatte, senza alcun discernimento; non ambisce a incattivire gli animi, si limita a istupidirli, gioca sulla ripetizione, sul ghigno sempre uguale.

Si sentono perseguitati a vita, mentre i cristiani dei primi secoli, appena terminato un ciclo di sofferenze, che comprendevano decapitazioni e crocefissioni, torture e clandestinità nei sotterranei delle catacombe, tornavano a collaborare con il potere imperiale, mostravano un atteggiamento costruttivo, riconoscevano l’autorità, ne rispettavano il senso. Viene allora da pensare che tale cedimento patologico, il gridare scomposto che pervade il web tradisca una gnosi di fondo che si mescola sottilmente con le varie credenze spiritualiste. Il mondo è frutto di un demiurgo malvagio, perciò risulta brutto e sozzo. Le tecniche che un tempo si dicevano ‘alternative’ servono a sottrarsi al destino di corruzione, il prefisso bio si infila in ogni dove per combattere il mondo necrotizzato del dio cattivo. Che indichino indifferentemente nel piombo presente nell’aria o nell’attuale presidente del consiglio la causa di tutti i mali, dall’Alzheimer all’impotenza sessuale, è la prova che stanno cercando una eziologia metafisica. La teoria del complotto, naturalmente, li aiuta nella ricerca. Basterebbe ricongiungere la giustizia al creatore per vanificare lo scenario miserabile. La bellezza della luce, che consacra tutte le cose del mondo, comprese le più infime, conforterebbe a ogni risveglio, ma è da questi tristi figuri respinta in nome di un fioco bagliore interiore, con il quale disprezzare un universo che vedono sempre tenebroso.

Invece di restare sorpresi e ammirati dallo spettacolo insolito di un caldo avvolgente o di una bella nevicata, di un giorno ventoso d’estate o di una temperatura mite d’inverno, li si considera dei segni apocalittici. Soltanto gli strateghi delle coscienze che credono di poter speculare sul malessere dei più si illudono che questo doloroso sguardo sul mondo abbia un carattere politico. In momenti ben più gravi, il capo dei comunisti italiani, chiamava «fratelli fascisti» quelli che aveva appena risparmiato, tendendo loro la mano. Ma i nuovi isterici non vogliono stringere la mano a nessuno, temono di macchiarsi con il peccato, di prendere il contagio del male teogonico. Sanno soltanto loro i segreti di tutte le mafie, spiegano la teoria della corruzione come se i vaneggiamenti ereticali non fossero cosa nota da secoli. Scriveva Gadda, per stigmatizzare quel «tono asseverativo che non ammette replica»: «nell’inferno dantesco si incontrano uomini che credevamo in paradiso: e nel purgatorio, avviati al paradiso, uomini che credevamo sicuramente all’inferno». Ma loro incarnano il supremo Giudice della fine del mondo, loro sanno chi dannare per l’eternità.

Come antidoto a una simile patologia lamentosa proponiamo una citazione di Jünger, tratta da un libro assai divertente, Il problema di Aladino (Adelphi), ma non siamo certi che il rimedio funzioni con malati tanto gravi. «Io non sono un liberale – almeno non nel senso che per questo scopo ci si debba mettere insieme e si debba votare. La libertà la portiamo dentro di noi; un buon cervello la realizza in ogni regime. Riconosciuto come tale, avanza dappertutto, passa qualunque linea. Non è lui a traversare i regimi, sono loro che lo traversano, quasi senza lasciar traccia. Può fare a meno di loro, non loro di lui. Se sono duri, ciò affina l’intelligenza».

domenica 8 agosto 2010

Il South Bronx sul Tevere

~ TROPPI «AMERICANI A ROMA» COME QUELLI SBEFFEGGIATI DA ALBERTO SORDI. ~ E IL «WALL STREET JOURNAL» RICORDA

LA DELUSIONE DEI TURISTI ~

Sindaci, assessori, consiglieri regionali e provinciali, il piccolo esercito arruolato dalla fantasia burocratica non ha occhi per vedere negli spazi pubblici quel che gli farebbe orrore a casa propria: se ogni ospite di una cena, per esempio, lasciasse come ringraziamento estetico una sbaffo sui muri delle stanze, subito lo sfortunato anfitrione imprecherebbe incollerito, affrettandosi a chiamare una squadra di imbianchini per coprire l’impataccamento, certo non consolandosi con la sciocchezza che adesso le pareti sono così vitalizzate dalla creatività degli invitati. E invece la città eterna è ormai tutta sfregiata dalla furia degli imbrattatori, lo spray che nelle altre capitali lorda casomai le estreme periferie e i ghetti qui si sparge sui palazzi rinascimentali e barocchi, nel cuore di Roma, magari a pochi passi dal Campidoglio, ma le giunte si susseguono senza vedere, parlando sempre d’altro, cioè di cultura, quando si tratta di scope, pulizia, nettezza urbana. In nessun’altra città al mondo, sindaci e assessori incapaci di far passare gli autobus in orario e di togliere l’immondizia dalle strade si mascherano da mecenati, dissertano in modo ridicolissimo d’arte classica e contemporanea, promuovono musei del nulla, si gloriano se un giornale straniero loda una loro inaugurazione, pensano che ci si muova dalla California o dall’Australia per vedere davanti alla tomba di Augusto un garage da telefilm anni ’50 o che ci si metta in fila per ammirare il Maxxi piuttosto dei Musei vaticani. Caudillos ciechi, son sordi anche a quel che si dice nella metropolitana e sui pullman turistici, non sanno nulla dello stupore per la deturpazione di ogni dove a opera dei graffitari, né delle risate per le imitazioni penose dell’arte made in Usa.

Ed ecco il giornale statunitense «Wall Street Journal», poco incline alle smancerie degli snob, ricordare come «un’ondata di graffiti si sia riversata sulle strade del centro storico di Roma negli ultimi anni». Le nostre gazzette, che trepidano per ogni concertino in piazza, per ogni mostra di elucubrazioni, per ogni installazione, fiera del contemporaneo e altre calamità del genere, non se ne erano accorte, anche esse non hanno occhi per vedere lo scempio, anche a esse il quotidiano newyorkese riporta il «disappunto dei turisti» che arrivano aspettandosi le meraviglie del passato e trovano invece la street art dei loro slums o le tristi costruzioni di Meier. I nostri telegiornali non ci hanno raccontato la notizia che ci rimbalza dal servizio del «WSJ»: «Negli ultimi mesi un gruppo di diplomatici americani e altri volontari hanno creato una 'brigata anti-graffiti', in missione con pennelli e vernici per strappare Roma ai graffitari». Già, ricordate il tono derisorio dei diplomatici Usa per il giovane Sordi nel film Un americano a Roma?

giovedì 5 agosto 2010

Parole sante di un giudice

~ FINALMENTE UN MAGISTRATO CHE NON SI LASCIA
INTIMIDIRE DALLO SQUADRISMO ESTETICO ~
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Avrà pure la patente di «artista», concessa dalla cricca dei critici, ma già solo il fatto che il graffitaro modifichi la fisionomia estetica (bella o brutta che sia) legittimamente scelta dal proprietario di quella superficie, commette il reato di imbrattamento. I giornali riportano con stupore la motivazione di una sentenza che mette al bando anche i graffiti che si vogliono «artistici», rovesciando l’andazzo presente. Per il giudice Guido Piffer – citiamo questo magistrato che non si lascia intimidire dallo squadrismo estetico – la questione non è affatto se i graffiti possano essere o meno «arte», e se l’imbrattatore denunciato possa o no trarre la propria legittimazione artistica dall’aver esposto delle sue opere al Palazzo Reale di Milano: il reato non si può misurare su una pretesa «natura artistica dell’opera», perché una tale categoria è «troppo legata all’indefinibile coscienza sociale di un certo momento storico». Del resto, il fatto che Marinetti manifestasse per Milano con la pistola in pugno, in una azione futurista, non dovrebbe autorizzare ogni rapinatore a richiamarsi all’estetica per agire armato. Ciò che invece è rilevante sul reato di imbrattamento (chiarito dalla Cassazione nel 1989 come lo «sporcare l’aspetto dell’estetica o la nettezza del bene senza che il bene nulla abbia perduto della sua funzionalità»), per il nostro giudice è piuttosto «la tipologia della cosa su cui ricade la condotta» di chi fa gli scarabocchi indelebili: «la fisionomia estetica e la nettezza attribuite al bene da chi ne ha legittimamente la disponibilità, per quanto magari opinabili come del resto opinabile è lo stesso valore estetico dei graffiti realizzati».
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Se dunque qualcuno realizza un disegno («magari da taluno apprezzato») sulla facciata di un palazzo appena rinnovata dai proprietari «secondo i criteri estetici che più aggradano loro, non potrà negarsi che la facciata è stata ‘deturpata’ e ‘imbrattata’ in quanto ne è stata alterata la forma estetica e la nettezza legittimamente scelte per quel bene dai suoi proprietari». Sostenere (come fa la difesa dell’imbrattatore) che il ‘graffito artistico’ possa costituire imbrattamento soltanto se realizzato «su opere di interesse storico-artistico o su monumenti», per il giudice è una contraddizione viziata da uno speculare «criterio assai vago ed estensivo»; e si risolve in «una arbitrarietà che rischia di avallare forme di indebita prevaricazione ai danni di chi non ha prestato il proprio consenso alla modifica della forma estetica e alla compromissione della nettezza del bene legittimamente scelta». Tutto l’opposto della «Repubblica» che canta le lodi degli inguacchiatori quando intervengono nei quartieri popolari e sulle case private mentre si indigna se qualcuno osa disegnare sul nuovo ponte di Venezia o sul garage di Meier all’Augusteo.
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Bastava leggere i commenti online sui giornali a simile sentenza per capire da che parte stia il buonsenso. I più invocavano i «lavori forzati» per chi insudicia: naturalmente, semplici lavori di ripulitura dei muri. Oppure si invitavano gli amici degli writer a farsi ornare le loro villette capalbiesi. Con l’autorizzazione scritta, onde non truffare quei poveri ragazzotti illusi sulla loro talentuosità.
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In ogni caso, gli argomenti portati in tribunale somigliano a chiacchiere di adolescenti, rivelano la miseria del dibattito estetico contemporaneo. Per fortuna che il giudice controcorrente ha sottratto per una volta la legge alle mode.

lunedì 2 agosto 2010

Citazione L’arte vivente

«C’è un’arte che è morta nel momento stesso in cui viene creata. Ce n’è un’altra vibrante e viva anche a distanza di secoli. L’arte è un fenomeno che esiste da trentamila anni. Di solito evito di concentrarmi sugli ultimi dodici mesi». John Berger intervistato da «Il Giornale» sul contemporaneo (30 luglio 2010).