lunedì 25 ottobre 2010

Le sorelle maggiori

~ LA DONNA NELLA LITURGIA EBRAICA E CRISTIANA ~

Nella messa domenicale di ieri in una chiesa romana si alternavano alla lettura dei sacri testi delle anziane signore in abiti assai vistosi, una arrivando a sfoggiare un corpetto in paillettes da Wanda Osiris che, sotto le luci sempre più teatrali che illuminano le nostre absidi, irradiavano strani bagliori in consonanza con il luccichio degli strass sparsi sulla pianeta del celebrante. Distratti dal fastidioso riverbero, tornavano alla mente delle letture pomeridiane proprio sulla distrazione nel tempio, in un numero della rivista «Rassegna mensile di Israel» del febbraio-marzo 1973, riproposto online.

Negli anni postconciliari in cui la parola d’ordine dei cattolici era aggiornamento, furioso aggiornamento, nel mondo ebraico – che pure conosceva le rivolte del riformismo, soprattutto in versione americana – si manteneva la fedeltà alla tradizione, alla lingua ebraica come alle regole liturgiche. Nella confusione di quel tempo, si continuava dunque a insegnare precetti che potevano suonare addirittura scandalosi per l’ideologia in voga. E più che mai indipendenti dal pensiero unico dominante oggi appaiono gli ammaestramenti del rabbino Menachem Emanuele Artom, pubblicati su quel numero della «Rassegna» di circa quarant’anni fa.

Vi si leggeva, per esempio: «la nostra tradizione stabilisce due elementi, per cui la donna si differenzia dall’uomo in campo rituale e liturgico; da una parte il gran peso, la grande importanza ed il grande valore che si dà ai suoi compiti in seno alla famiglia, e d’altra parte il massimo rispetto per la sua modestia, base fondamentale dell’altissima moralità a cui deve informarsi l’ebreo in tutte le manifestazioni della sua vita. E proprio tenendo ben presenti questi due principi potremo comprendere le limitazioni alla partecipazione della donna ebrea alle manifestazioni liturgiche, limitazioni che, a prima vista, possono sembrare rivolte a metterla in una condizione di secondo piano e che invece sono essenzialmente destinate a valorizzarla ed a rispettarla». Non sembra di leggere i più ‘conservatori’ dei teologi cattolici, i pochi che resistevano dopo il Concilio all’assalto della ‘novità’?

Ancora: «Si potrebbe obiettare che le parti che non sono strettamente obbligatorie […] potrebbero esser cantate anche da donne […]. E quindi, appunto molte parti cantate, che non fanno parte della Tefillà obbligatoria, potrebbero essere affidate a cori femminili, che hanno indubbi pregi artistici e danno un tono particolare di dolcezza e di sentimentalismo. Ed il ragionamento non farebbe una grinza, se non ci fosse anche un altro elemento, a cui pure abbiamo accennato prima. Il canto femminile, come ogni altro vezzo della donna, può indurre chi lo ascolta a pensieri lascivi, o comunque distrarre da quella serietà e da quella concentrazione che debbono sempre esser perseguite da chi si dedica alla Tefillà e che si trova nel Beth Ha-Keneseth [ovvero, casa di riunione, sinagoga, n.d.r]».

L’antica spiegazione – che potremmo ritrovare anche in san Paolo – viene ripetuta senza paura di apparire inattuali: «Dato che ognuno di noi – uomo o donna che sia – deve nella sinagoga dedicarsi esclusivamente alla meditazione religiosa, dobbiamo tenere lontana da noi ogni occasione di pensare ad altri argomenti. E chi di noi, anche se animati dalle più pure e oneste intenzioni, non può esser indotto dal contatto con persona dell’altro sesso a pensieri non adatti al luogo? Insisto sulle parole non adatti al luogo perché è ben noto che nell’Ebraismo non esiste l’ ‘orrore per la carne’ ed i rapporti sessuali, a loro tempo e a loro luogo e disciplinati dalla Torà, non sono nulla di sconveniente o di brutto - ma sempre ogni cosa a suo luogo ed a suo tempo».

C’è però un ulteriore chiarimento che complica il modello delle ‘sorelle maggiori’ nel campo cristiano: «negli ultimi tempi, poi, la avversione al coro femminile trova anche un altro motivo. Il coro femminile è caratteristica delle chiese cristiane, ed è stato introdotto, insieme ad altre innovazioni che ledono la pura tradizione ebraica, nelle così dette sinagoghe riformate, che, fonte specialmente nel secolo scorso in Germania, hanno adesso ripreso piede negli Stati Uniti ed in pochi altri Paesi. Orbene, il culto riformato non è un legittimo e naturale sviluppo delle tradizioni ebraiche, ma un’imitazione di quelle cristiane, una specie di sincretismo assimilato tra ciò che insegna la Torà e usanze ad essa contrarie; la conseguenza di quasi tutte le attività riformatrici è stata che i loro seguaci si sono in ultima analisi staccati dall’Ebraismo». Già, nonostante la comune concezione di una liturgia maschile, strada facendo il cristianesimo – la «modernità cristiana» che risale ai primi secoli dell’èra nuova – ha innalzato la donna sul modello di Maria, la Deipara. La riforma liturgica dell’ultimo Concilio voleva testimoniare questo straordinario ruolo femminile nella storia del cattolicesimo. Ma non seppe misurarsi con le miserie umane delle paillettes.

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