sabato 24 aprile 2010

I Dioscuri del Classico

~ MINIMA. ~ QUALCHE PAROLA E DIVERSI SOSPETTI SU UNA MOSTRA ROMANA DEDICATA A DE CHIRICO ~

È in corso a Roma una mostra sulla Natura in Giorgio de Chirico. Nelle sale del Palazzo delle esposizioni ormai consacrato a fotografi e installatori, indegne dunque del Pictor Optimus, sotto un titolo giocato su ambiguità scontate, curata da un personaggio che in un’occasione consimile ci sembrò evocare la maschera di Pappagone (v. «Almanacco Romano», La magia della linea), non invita ad accorrere in quella sede modesta per vedere tele per lo più conservate nella Fondazione di piazza di Spagna. Insomma, non la si è visitata ancora, pronti a ricrederci, per carità, ma con non pochi sospetti. E la certezza dell’irritazione del Maestro per un curator che si guadagna la vita caricaturizzando l’arte.

Per adesso ci piace trascrivere poche parole dell’altro Dioscuro, il fratello del pittore, a proposito del ‘classico’ nell’ardua rilettura del Novecento, visto che con il termine ‘Natura’ gli organizzatori dell’esposizione alludono alla dialettica Caos/Cosmo, senza però neppure un briciolo dell’ironia dechirichiana, piuttosto secondo l’andazzo dei comici che riducono tutto in farsa. Le frasi illuminanti sono tratte da un librone di molti anni fa, Giorgio de Chirico, Parigi 1924-1929 (Milano, 1982), curato da Maurizio Fagiolo dell’Arco e da Paolo Baldacci. Quest’ultimo vi scrive una utile definizione del ‘classico’ riscoperto dai due geniali fratelli italiani: «il continuo intervento dell’intelligenza sull’emozione, mentre le avanguardie tutte, anche la più acuta, la futurista, annegano nella emotività». Adesso che la parola ‘emotività’ invade le letture d’ogni genere, le citazioni saviniane suonano terapeutiche. Del resto, a chi va in cerca di emozioni, come se fosse al cinema o allo stadio, Cesare Garboli docet: «Destituire il fatto d’arte di qualsiasi referente psicologico e esistenziale». Il messaggio figurativo va riportato ai suoi valori formali, «l’arte è solo forma, e nella suprema realtà della forma tutto l’ossigeno che appartiene alla nostra esperienza di comuni viventi viene pompato senza lasciare residui» (Scritti servili). Quell’ossigeno pompato dai bravi artisti riesce però come gas di scarico nel campo della critica. Ci si sguazza in quest’aria calda e intossicata: emotiva, appunto.

Leggiamo il giovane Alberto Savinio che nel 1919, uscito il mondo dallo sconvolgimento della Grande Guerra, sa parlare con saggezza: «Ogni inquietudine s’avvia fatalmente a una calma in cui quella sostanza stessa che provocò l’urto inquietante si spiana e si distende in tutta la sua verità: è il processo che conduce dal barbarismo al Classico» (Anadioménon). Purché con «calma» non si intenda distrazione piccolo-borghese. Si augurava quindi che tutta la spinta alla ricerca, al rompere, al decostruire si direbbe oggi, che è come una nuova barbarie, potesse trovare una ragione in un «seguente compimento». Magari sotto la spumeggiante protezione di Venere Anadiomene.

Unico rimedio al Caso, sarà l’ordine dato dall’artista alla sua opera. Baldacci, riprendendo i pensieri di Giorgio de Chirico, li riassume così: «L’impulso creativo giunge al suo più alto grado non quando è una forza primordiale governata dal caso, ma quando ad esso si aggiunge la ragione, la forza intellettuale, lo ‘stato di intelligenza’. Quindi in arte nulla deve essere lasciato al caso, al semplice istinto, nulla deve essere trascrizione immediata, nulla deve essere romantico nel senso di ‘stato naturale’, ma tutto dev’essere ‘classico’ nel senso di stato non naturale e quindi superiore, stato immediatamente susseguente al romantico, stato cerebrale in cui il pathos non è sinonimo di movimento e di tempesta, ma di calma e di immobilità».