venerdì 24 settembre 2010

Al termine della notte

BONNEFOY, L’ITALIA E IL SURREALISMO

A pagina 53 della «Repubblica» del 24 settembre c’è un’intervista di Franco Marcoaldi al poeta Ives Bonnefoy, esegeta di Piero della Francesca, che ricorda la sua ormai remota militanza surrealista mettendo in guardia sulla creatura di Breton: «Vede, bisogna prendere sul serio il surrealismo». Lo stesso avvertimento veniva dall’esorcista dell’antiarte contemporanea, Hans Sedlmayr, che insistette sempre sull’aspetto demoniaco, sul carattere sinistro, di quell’impresa. La setta che estetizzava la violenza («L’azione surrealista più semplice consiste nel riversarsi nelle strade, con le pistole in pugno, e sparare a caso in mezzo alla folla, il più possibile») non era certo un club salottiero. Chi ebbe la ventura di aderirvi la ricorderà per tutta la vita come una specie di malattia. Roger Caillois vi entrò giovanissimo, proveniente dal «Gran Jeu», un gruppo di soli tre membri, e poco dopo, nel fuoco della battaglia antinazista, ne guarì, lasciando una lucida testimonianza di quella esperienza in Babel e nel Dictionnaire esthétique (tradotto in italiano da Bompiani). Francis Ponge fu surrealista eterodosso e se ne liberò ricorrendo al classicismo francese del XVII secolo. Pierre Klossowsky si salvò immergendosi nello studio della scolastica ed entrò addirittura in un seminario domenicano. Jean Clair, che non fu un testimone diretto, scriverà sull’argomento un feroce pamphlet, Processo al surrealismo. Del surrealismo considerato nei suoi rapporti con il totalitarismo e i tavolini medianici. Bonnefoy ripete come gli altri risanati il racconto sulla cerchia magica dominata dall’incubo, dalle tenebre, dall’apologia del comportamento folle. Lui, confessa, riuscì a debellare il disturbo grazie all’Italia. «L’incontro con l’Italia è arrivato subito dopo la conclusione di questa esperienza. Il surrealismo ricorreva spesso a proposizioni confuse, informi, notturne dell’interiorità, mentre la grande arte italiana, al contrario, mi mostrava il valore, l’apporto significativo della luce sulle forme».

E con parole di riconoscenza che gli attuali iconoclasti non capiranno: «L’Italia è la terra delle immagini per eccellenza perché ha edificato un teatro in cui il pensiero e il sogno, la nostalgia dell’infinito e la percezione della finitezza, si confrontano in modo esplicito». Come non pensare a Giorgio de Chirico?