mercoledì 13 ottobre 2010

Il dito nell'occhio

~ LA TRAGEDIA DI UN FATTO RIDICOLO ~
~ E ALTRE DIVAGAZIONI ~

Se sotto la tua casa collocassero un altoparlante e per tutta la giornata venisse ripetuta la battuta di un comico, sia pure una bella battuta, sonora, crassa, ma sempre quella, presto la faccenda ridanciana si trasformerebbe in incubo. E se lo strazio comico-drammatico durasse non un giorno ma per sempre, «fine pena mai» come nel vecchio ergastolo, la faccenda evocherebbe le pene dell’Inferno. Commiserate chi abita o chi lavora nella piazza di Milano dove lo snobismo piccolo-borghese ha consentito che fosse fissata nel marmo una battutaccia, che divenisse anzi un monumento (cioè memoria e monito). La risatina che dovrebbe suscitare lo sberleffo dell’autore miliardario alla Borsa prospiciente si gela in bocca per la reiterazione forzata. Altro non c’è.

I pernacchi – futuristi – risalgono a oltre un secolo fa. Vien da dire con garbo: non spernacchiate più – siete diventati petulanti – soprattutto non chiedete per farlo l’autorizzazione e i soldi delle autorità. Abbiamo capito che ormai sprezzate l’atto istintivo, che credete sia una mossa astuta, per li rami situazionisti, irreggimentare il gesto scurrile nell’ ‘evento’; che vi sembra maggiormente ridicola, e quindi da coltivare, la trovata per cui il turpiloquio ottiene la benedizione del sindaco. Ma le istituzioni non sono la controparte, da tempo il primo cittadino non porta più baffi e cilindro e scodinzola devoto a ogni proposta ‘culturale’. Non finge neppure di scandalizzarsi, piuttosto si sente complice, anche perché paga. Nel caso specifico, si considera pure competente: il dito centrale rivolto al cielo per minacciare una sodomizzazione all’avversario è il suo gergo preferito, lo rilancia nei comizi, eccita il suo pubblico. Facile convincere tutti i politici alle più umilianti posture pur di partecipare al gioco. Voi non svelate il trucco dei poteri, come qualche ingenuo pretendeva all’inizio, confermate l’ansia di condividere il cheap degli «spettatori della domenica». L’eccentricità di massa: ciascuno può far parte dell’immensa élite, basta dire sì. In confronto, le concorrenti di «Miss Italia» sono ancora delle ascete.

Un vecchio che ha superato i cent’anni dovrebbe possedere la saggezza: non si strappa invano il tempo al destino. Gillo Dorfles invece ha evidentemente ancora molto rispetto umano se si limita a commentare l’impresa milanese con una frasetta pilatesca: «un’opera brutta per una piazza brutta». Quando basta la grazia di un albero o di una statua o perfino di una panchina per correggere le brutture architettoniche di un luogo. Altrimenti, la decorazione a che serve? E la senilità a che serve? Uno dei massimi ingegni del Novecento, Ernst Jünger, eroe del germanesimo pagano, a 101 anni ebbe l’ardimento di scegliere la Chiesa di Roma.

Nel vuoto aperto dalla morte, l’arte può fare da surrogato della religione. Meglio di niente. Nella civiltà cristiana diventa l’aspetto sensuale della fede; per dirla con un esempio facile, la Pietà michelangiolesca consola, accarezza e dà corpo alla speranza. Ma una installazione è morta cosa.

E se un tempo questa anti-arte si giustificava esibendo almeno la disperazione di non poter più consolare, né celebrare, né trascinare la fantasia dell’epica, né suscitare i pensieri gentili dell’idillio, oggi si propone soltanto come goliardia. Roba per ventenni, a occuparsene a trenta è da rimbambiti.

C’è chi confonde la risata di Zarathustra con quella scaturita dal più triviale filmetto italiano. Prendiamo sul serio lo scherzo, il denaro pubblico investito in simili pasquinate è ‘serissimo’, ma dov’è l’arguzia?

Uno dei boss dei musei contemporanei romani ammonisce un povero cristo che si è attaccato una sua ‘opera’ da solo e clandestinamente alle pareti del Macro, pensando di fare un’azione anarcoide: «c’è una procedura per esporre» dice con tono burocratico. Ecco, il nichilismo del comico di successo ha invece rispettato la procedura, compilato i moduli: voglio esporre in piazza Affari un dito medio, chiedo perciò per l’opera tot euri. Che performance la contrattazione al rialzo negli uffici municipali, quella sì!

L’aforisma del coatto non è esattamente la stessa cosa di un linguaggio franco, oggidì intrappolato nei continui richiami alla correttezza ideologico-politica. C’è un po’ di confusione in giro: rifiutarsi di ripetere quelle parole insapori, neutre, false (gaio anche per l’omosessuale mesto), non vuol dire ridursi a un’espressione sguaiata. Le circonlocuzioni tipo ‘non vedente’ per cieco son roba da précieuses ridicules onde imbellettare la morte, il dolore, il tragico, il sangue, il sesso. Per troppo espressionismo però si diventa spesso villani.

Gli stessi che si rallegrano per la triste statua, il giornale che esalta «il coraggio» di chi si lascia provocare contento, pone poi limiti ad altre barzellette peraltro meno capziose e meno aggressive, sicuramente non monumentali, private. Sarebbe curioso se un dito come quello in questione, magari collocato vicino a una moschea muovesse una fatwa: che reazione avrebbero gli amanti del dito? I buoni, si sa, hanno molta comprensione per la violenza dell’Islam. Ma gli estetisti del contemporaneo sono furbi, lo notava Arbasino già molti anni fa: su Gesù e Israele ci si può permettere ogni insulto, ogni blasfemia, ma sul profeta islamico meglio tenersi alla larga, lì infatti non si scherza. Su Maometto poi si è già pronunciato Dante, senza peli sulla lingua, anzi con figure più dirompenti dell’allusione di un dito. Nel più profondo dell’Inferno, secondo gerarchica e ragionevole concezione dell’orrore, nel XXVIII canto, il corpo dell’eresiarca appariva spaccato dalla testa all’ano, tra le gambe gli pendevano le budella, tutte le interiora venivan fuori, «e ‘l tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia». L’oscena visione testimoniava la fiera avversione per i nemici della religione, per i seminatori di scandalo. Non stava raccontando un «motto di spirito», stava scuotendo lo spirito con la forza dei versi; con arte nutrita dalla teologia di Tommaso.