mercoledì 23 febbraio 2011

Schiavi e sibariti

~ L’ODIUM THEOLOGICUM SERPEGGIA
ANCHE TRA GLI AMANTI DEL BELPAESE ~
~ RUSKIN vs L’ARCHITETTURA CATTOLICA ~

Parlando dell’architettura del Rinascimento, John Ruskin scriveva nella sua opera più celebre, The Stones of Venice: «è la natura morale di essa che è corrotta». Un giudizio netto: pure gli edifici del Palladio, le goethiane «case con alte colonne», sono sotto il segno della corruzione per questo sensibilissimo vittoriano che amava l’Italia – sul mito del Belpaese tra i vittoriani si è appena inaugurata una mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma – ma che aveva ereditato dalla madre una rigida cultura puritana. Il peccato originale che scopriva nella penisola era come al solito il cattolicesimo, o meglio, secondo la vulgata di romantici e post-romantici, il cristianesimo paganeggiante. «Pagana di origine, presuntuosa e irriverente nella sua prima riesumazione delle forme antiche, paralizzata nel suo invecchiare, è un’architettura inventata, a quanto sembra, per fare dei plagiarii dei suoi architetti, degli schiavi dei suoi artigiani, e dei sibariti dei suoi abitatori; un’architettura in cui […] si fa concessione ad ogni lusso, e in ogni insolenza si fortifica. La prima cosa che si debba fare è bandirla e scuoterne per sempre la polvere dai nostri piedi». Una vera e propria crociata, una «guerra degli stili», come fu detta. Fare precipitare le costruzioni di Palladio e dei palladiani perché neo-pagani usi a mettere in bella forma il lusso e l’insolenza dei loro committenti sibariti: piuttosto che un equivoco, l’incomprensione di una cultura singolarissima, sembra un delirio. Quell’arte che adesso ci appare come la più sovraumana, all’alba del Novecento aveva ancora bisogno di un avvocato difensore nel processo secolare intentatole dal partito dei moralisti.

E lo trovò, in terra britannica, nella persona di Geoffrey Scott, giovane allievo inglese di Berenson, che nel 1914 pubblicò una perorazione a favore di Palladio in un librino intitolato Architecture of Humanism nel quale commentava così le parole di Ruskin: «L’odium theologicum è venuto a stimolare le controversie tecniche dell’arte. […] I poeti e i professori della costruzione hanno dichiarata questa architettura sterile per l’immaginazione, assurda per l’intelletto: ora la si scopre ripugnante alla coscienza e pericolosa per l’anima» (esiste una traduzione dell’Architettura dell’umanesimo a opera di Elena Croce, edita da Dedalo di Bari, da cui prendiamo questa e le altre citazioni).

Nell’avversione per chiese e palazzi rinascimentali non si tratta quindi soltanto di una faccenda di gusto, nella fattispecie del gusto romantico, «v’è anche la tendenza a giudicarla dal punto di vista etico». Nell’isola britannica prende corpo un possente movimento d’opinione che in nome della morale puritana attacca l’architettura e l’arte del Rinascimento italiano, il suo significato cattolico. «Il vecchio puritanesimo del secolo XVII – scrive Scott –, fatto un calcolo complessivo dell’influenza dell’arte sulla vita, l’aveva condannata ed esclusa dalla sua repubblica con altrettanta fermezza e meno cortesia di quella usata da Platone contro i poeti. Il puritanesimo del secolo XIX tentò invece, frenando l’arte e innalzandone la dignità, di governare le sue manifestazioni, di guidare i passi errabondi dell’impulso creativo, e anche di interpretare la sua storia». Ne venne fuori un culto della cristianità precedente la Riforma e il rifiuto più netto dell’arte e della civiltà contro cui era insorto Lutero: la Roma dell’umanista Leone X, le mirabilia del Rinascimento, la provvidenziale compresenza di tanti geni in una stagione. Raffaello, idealizzato e trasfigurato da Winckelmann e poi dai romantici, diventa lo spartiacque. Dopo di lui il déluge, ovvero la Controriforma. Scott è stupito dal fatto che, agli occhi dei neo-puritani, «l’architettura romana rappresenti la Chiesa di Roma», ma è davvero tanto ingenua una tale sovrapposizione?

«Empi», «perversi», «insinceri»: si tratta degli artisti manieristi come dei loro committenti, ecclesiastici e principi romani. Per l’«arte gesuitica» poi lo sdegno è speciale. Inoltre, un motivo di ‘classe’ intensifica l’odio: l’architettura del Rinascimento ha radici nell’aristocrazia, naturale quindi che dopo l’Ottantanove anche l’arte debba subire un processo di democratizzazione. Come poteva, dice Scott, sopportarsi un’architettura che «aveva esaltato principi e servito papi, sosteneva la subordinazione del particolare al disegno, dell’artigiano all’architetto, della coscienza all’autorità, del capriccio alla civiltà, della volontà individuale al controllo organizzato, tutte cose che riuscivano odiose alla filosofia della rivoluzione», ed ecco che i borghesi protestanti reagiscono con il fiele etico, con gli eterni sospetti nei confronti della bellezza, con la paura del denaro ostentato senza troppe ipocrisie. L’esperimento neo-gotico, il collettivo che anticipa la forma settaria delle avanguardie, si presta meglio alle utopie del capitalismo. Generalizzando la presunta comprensione dell’arte medioevale da parte del contadino – secondo una facile raffigurazione in voga nel tempo – si voleva adesso che tutta l’arte fosse alla portata dei contadini e degli operai dei nuovi complessi industriali, si pretendeva di offrire al popolo «i privilegi della cultura senza richiedere la pazienza che la cultura richiede».

Come avrebbero reagito i diretti interessati, i Michelangelo e i Palladio, buoni cristiani, di fronte agli attacchi etici dei puritani moderni? Sicuri della dottrina cattolica, non avrebbero dato peso a tali accuse, ritenendole probabilmente nient’altro che ossessioni ereticali. E magari se fosse loro capitata l’occasione di osservare le opere di questa congrega neo-gotica, per esempio certi quadri di Ruskin esposti nella mostra di questi giorni alla Gnam, avrebbero sorriso della sua capacità di trasformare le splendenti creature di Botticelli in figure afflitte. La pia confraternita, sapiente nell’arte degli ornamenti, non riusciva a rendere credibili i personaggi che dipingeva: c’era, al contrario dei volti eloquenti ritratti dai cinquecenteschi, un qualcosa di disumano, di meccanico, di immobile; truccati per avere un’espressione, risultavano sempre incerti nel sesso, talvolta grevi.

I mazziniani faranno da sponda alle accuse di corruzione lanciate da Ruskin e dai suoi sodali verso la civiltà italiana. Disposti anche essi a rinunciare alla grande architettura, alla grande arte, scaturite dalla civiltà papista, che cosa restava di notevole nella penisola? Forse quel poco che la rendeva simile agli altri paesi europei già modernizzati, per i quali gli apostoli del Risorgimento si struggevano. Un bell’affare: come aveva notato Dostoevski nel suo Diario di uno scrittore, erano riusciti a svendere un giardino paradisiaco, patria di tutti gli europei, per un piccolo Stato, calco di quello francese.
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[Si veda su questo «Almanacco», anche come preambolo alla mostra della Gnam, «Nazareni e Preraffaelliti»
Come antidoto invece ai puritani inglesi è sempre utile Chesterton (su «Almanacco», «Venere e Maria secondo Chesterton», http://almanaccoromano.blogspot.com/search/label/Venere%20e%20Maria%20secondo%20G.%20K.%20Chesterton]

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