mercoledì 27 luglio 2011

L'intervista

~ CONSIGLI IN RITARDO MA SEMPRE VALIDI
PER REAGIRE ADEGUATAMENTE
A UN GAZZETTIERE CHE TI ENTRA IN CASA
E SI PERMETTE DEGLI INSULTI ~

«Confesso una certa curiosità mentale mentre mi avvio all’appuntamento col professor Roberto De Mattei, l’uomo che con le sue idee – professate in varie sedi e occasioni – ha vinto l’Oscar del ridicolo. Che linea tenere, che domande rivolgergli, in una parola che cosa ci si aspetta da un signore che, con tutti i distinguo, ha sostenuto tesi balzane e in ogni caso antiscientifiche, come il creazionismo, l’immutabilità delle specie, la datazione della Terra a soli 15-20 milioni di anni fa? Se insieme al taccuino avessi con me un bel ‘tapirone d’oro’, la questione potrebbe risolversi in pochi attimi. Ma in fondo, De Mattei non è un caso umano, è un affare più complicato: un uomo solo (o quasi) che sostiene certe idee. Non basta questo per farne un eroe della resistenza ottusa?». Avete mai letto su «Repubblica» un’intervista con un simile incipit? I gazzettieri di solito sono molto deferenti verso chi concede loro lo scambio di qualche battuta, e sempre rispettosissimi delle idee dell’intervistato, anche le più matte e violente, anche quando porgono il microfono ai più feroci assassini, ai canari della cronaca, agli sterminatori della famiglia, ma stavolta si tratta di uno studioso cattolico che «sostiene certe idee». Allora, «che linea tenere?», si arrovella il giornalista, fedele alla linea di ideologica memoria. Prova a ricorrere alla volgarità, evoca quegli attrezzi agitati dalla tv Mediaset, l’organizzazione a delinquere del capo del governo, i suoi arcana imperii con i quali lobotomizza gli italiani, evidentemente anche il giornalista è ormai lobotomizzato se cita un tale manganello elettronico nelle pagine culturali che sono la crème cui si nutrono gli intellettuali italiani. In nome di quella cultura, distribuisce quindi «oscar del ridicolo», lo consegna personalmente al paziente professore, che risponde mansueto alle sue domande insolenti.

Rileggete, per favore, quel ‘cappello’ all’intervista apparsa qualche tempo fa su «Repubblica» e che l’inattuale «Almanacco» ha scoperto per caso solo adesso. Dove altro mai si è visto tanto sprezzo per le idee di qualcuno? Il fatto è che questo qualcuno ha pronunciato «tesi antiscientifiche» a insindacabile parere del gazzettiere che parla a nome della Scienza. Anche un collaboratore di quel giornale, celebre per scrivere dei libri copiando dai libri degli altri, sostiene opinioni antiscientifiche, corroborate dalla filosofia esistenzialista che certo non concesse mai granché al pensiero calcolante, ma nessuno oserebbe attaccarlo con insulti grevi, anzi le pagine del quotidiano bilioso si sono aperte spesso alla divulgazione del pensiero heideggeriano, sicché i poveri lettori bigotti dello scientismo si appassionano anche per il filosofo di Meßkirch producendo una grande confusione nelle proprie teste. Allora la colpa gravissima del professore in questione è di essere antiscientifico e cattolico. Come può ricoprire la carica di vice-presidente del Cnr, di un istituto cioè che si occupa di ricerca, di apertura, di metodo antidogmatico? Anatema dunque per chi si permette di citare Salviano, un erudito del V secolo, piuttosto che il giovanotto quasi omonimo, star della fuffa culturale in televisione, anatema per chi ritiene addirittura, insieme ad antichi autori cristiani, che l’impero romano sia venuto giù per la corruzione dei costumi (discutibile tesi condivisa pure da un pagano come Giovenale, il poeta che metteva in scena la fine del mondo causata da omosessuali e donne lascive), anatema per questo eccentrico che non vuole piegarsi alla vulgata del pensiero unico di cui il quotidiano in questione è l’organo ufficiale.

Gli aggettivi «ottuso» e «ridicolo» non si possono però usare impunemente ad personam. Il professore gentile con gli intervistatori dovrebbe far tesoro del comportamento di uno scrittore cattolico che in situazioni del genere rispondeva colpo su colpo. Ecco il testo-modello dell’intervista apparsa sull’«Intrasigeant» del 2 maggio di cento anni fa esatti, intitolata «A casa di Léon Bloy».

«Arrampicatomi rapidamente sulla Collina [di Montmartre], mi fermai incerto al numero 40 della via del Chevalier-de-la-Barre, e confesso che fu con una certa apprensione che suonai al campanello del temibile antro. L’affabilità ben nota di Léon Bloy mi toglie ogni velleità di vantare una accoglienza calorosa; venne lui stesso ad aprire la porta, prese il mio biglietto da visita senza neppure leggerlo e mi chiese che c… venivo a fare a casa sua. – Per intervistarvi, caro Maestro! A queste parole, Léon Bloy si precipitò su un randello che probabilmente tiene sempre appeso alla maniglia della porta e fischiò a un molosso che arrivò ringhiando per mettersi al suo fianco. Poi lesse il mio biglietto, mi esaminò con curiosità accorgendosi della mia aria costernata, cominciò a sorridere, posò il randello, allontanò il cane e con una voce così dolce da procurarmi i brividi alla schiena mi disse: - Signor Toussaint, il vostro nome mi disarma. Sono un devoto, lo sanno tutti, e il richiamo di tutti i santi evocati dal vostro nome mi fa pensare al giorno dei morti. Entrate pure, uscirete vivo. Voi sembrate ignorare che io non mi presto a quelle luriderie che voi chiamate interviste, e che all’appellativo di ‘caro maestro’ preferisco i peggiori oltraggi. Tuttavia, per una volta, e soltanto per riguardo al vostro nome, vi ascolto.

– Si dice che stiate per lasciare Montmartre. Perché questo abbandono? – Perché ho avuto precise informazioni che Parigi sta per saltare in aria; e dal momento che devo ancora irritare i miei contemporanei non voglio servire da combustibile all’incendio che si prepara, e temo proprio che voi siate uno dei primi ceppi da ardere. – Che cosa pensate della Chiesa e dei suoi rapporti con il governo? – Non so che cosa intendiate per Chiesa, non tenterò di illuminarvi sull’argomento; la vita è troppo corta! Quanto al governo, sarò più esplicito. Da quarant’anni la Francia è governata da persone a cui nessuno affiderebbe il suo portamonete. – Vi interessa l’aviazione? Seguite i progressi degli aereoplani e dei dirigibili? – Appassionatamente! Ogni giorno vengo a sapere con la più grande soddisfazione che uno di questi acrobati si è fracassato la testa. – Avete un’opinione sulla questione marocchina? Temete una guerra per i vostri compatrioti? – Gli unici marocchini che conosco sono quelli delle rilegature, ma preferisco di gran lunga la pelle di scrofa per le mie edizioni di lusso. Quanto alla guerra imminente, l’aspetto con impazienza, persuaso che sarà sterminatrice e che il numero degli imbecilli – voi mi capite, signore – diminuirà considerevolmente. – E la giovane letteratura? – Non esiste la giovane letteratura, ci sono soltanto delle persone di talento e delle canaglie… Mentre diceva le ultime parole, mi fissò, aggiungendo: - Non so a quale delle due categorie apparteniate… Fu la sua ultima parola; la pazienza si stava esaurendo e il molosso, sorpreso dalla lunga cordialità del padrone, dava segni di impazienza. Presi la fuga» (da Il pellegrino dell’assoluto, Città nuova editrice, pp.175-176). Lo stesso Bloy annota nel suo diario: «divertente intervista messa su da Brou e da me stesso per liberarmi dall’incubo di un giornalista scatenato che non volevo far entrare in casa». Che i professori cattolici imitino il letterato che predicava la santità alla portata di tutti e comprino molossi o altri cani cattivi.

sabato 16 luglio 2011

Cerimonia funebre

~ PREZIOSI FRAMMENTI LETTERARI
NEL GIORNO DELLE ESEQUIE DI OTTO D’ASBURGO ~

Gabriella Bemporad con signorile sottotono le chiamava «note», senza alcun titolo, e le apponeva in guisa di postfazione a testi bellissimi che traduceva dal tedesco; vi concentrava le ultime stille di un’eleganza ormai introvabile nella consuetudine editoriale. In una di queste, che accompagnava l’hofmannsthaliano romanzo Andrea o I ricongiunti (Andreas oder die Vereinigten), a proposito della geografia culturale che aveva come poli Vienna e Venezia scriveva: «il più singolare luogo geometrico dei congedi e delle nuove partenze». Oggi a Vienna, dopo tredici giorni di lutto, ci si accomiata dall’ultimo imperatore, riconosciuto nella sua maestà solo dagli esuli, nobili ed ebrei.

La nobiltà è una maschera – spiegava la eccelsa germanista – evita la rude socievolezza dell’homo homini lupus. L’ingenuità dei repubblicani dal volto nudo, dell’uomo senza passato che perciò deve rinunciare anche alle meraviglie sperimentate nell’infanzia, conduce al puritanesimo triste, senza ornamenti (o con ornamenti rubati ai re spodestati). I riconciliati con il passato, con la tradizione, con il mondo aureo, possono credere alla sapienza delle fiabe.

Della scrittura del Maestro delle maschere diceva: «la pagina – che pure narra incertezze e angosce esistenziali e le intuizioni confuse […] – appare difesa da una superficie liscia come uno specchio, priva di crepe o spiragli, da un fluire ininterrotto ma mai turbinoso […]. La materia appare pacificata…». La forma – politica, imperiale, e letteraria – rappacifica. La signora fiorentina parlava con garbo di «quel felice componimento delle dissonanze che è il fine della narrazione». Estraneo adesso ai più che trafficano con la scrittura e con il pensiero.

E celebrando la «sobrietà del ricco», la «semplicità del raffinato», l’amica di Cristina Campo sempre in quella stessa Nota citava una frase di Hofmannsthal nella parte incompiuta dell’Andreas, riferita al Cavaliere di Malta: «Mania di perfezione: immaginare splendide feste conduce a non trovare perfetta alcuna festa, salvo le esequie di un monaco certosino».

Avvolta nella bandiera imperiale giallo-nera, la salma dell’ultimo imperatore senza impero, di un fantasma imperiale, è tornata a Vienna. Il corteo funebre si snoderà nel centro storico della città per portare Otto nella cripta imperiale dei Cappuccini, dove dal 1633 sono sepolti più di cento suoi antenati. Al termine del tragitto – raccontano i cronisti – l’araldo busserà con la mazza alla porta della chiesa. Dall’interno, come è sempre avvenuto nei secoli, un cappuccino chiederà: «Chi vuole entrare?». L’araldo risponderà: «Otto d’Asburgo, erede al trono d’Austria e d’Ungheria, dei regni di Boemia, Croazia, Dalmazia, Slavonia, Galizia, delle contee di Gorizia e Gradisca...». «Non lo conosco» dirà il frate. L’araldo ci proverà di nuovo annunciando «l’erede al trono di Austria e Ungheria». E riceverà un altro rifiuto. Alla fine annuncerà semplicemente: «Otto, un povero peccatore». E la porta della chiesa si aprirà all’ultimo Asburgo, che ha vissuto la fine dell’impero. Barocco asburgico, particolarmente funereo.

A pochi passi dalla Cripta, c’è la chiesa di Sant’Agostino, l’imperiale Augustinerkirche, il tempio che conserva i cuori asburgici e dove si celebrarono le nozze di Sissi con Francesco Giuseppe e quelle di Maria Luisa con Napoleone Bonaparte nemico dei re. Lì Antonio Canova, in un’èra rivoluzionaria, senza fondamento, innalzò una sepoltura tragica, tradusse in scabro moderno il barocco lugubre degli Asburgo. La giovane Maria Cristina si avvia sola, patetica, verso il mistero cupo del tenebrosissimo Ade. La si vorrebbe abbracciare e confortarla con la «lux perpetua» che invochiamo nel Requiem. La piramide del mondo pre-cristiano però accenna a morti pagane. Forse Canova vi ha messo in scena il contrappasso per l’egoismo moderno.

In un balenio di spirito aristocratico, di irriproducibile, di unico, Sacramozo, personaggio dell’Andreas che «conosce la potenza dell’azione creatrice» dice: «il rapporto più sacro è quello tra apparenza e sostanza – e come viene incessantemente ferito! si può pensare che Dio l’abbia nascosto tra aculei e spine –. Noi possediamo un arsenale di verità, forte abbastanza da ritrasformare il mondo in un pulviscolo di stelle, ma ogni arcanum è chiuso in un crogiolo di ferro, per colpa della nostra durezza e della nostra stolidità, dei nostri pregiudizi, della nostra incapacità di concepire l’irripetibile».

martedì 5 luglio 2011

L'Impero dei sogni

~ LA MORTE DELL’ARCIDUCA OTTO D’ASBURGO ~

Si legge nella rete: «Nella notte tra il 4 e il 5 luglio il Signore ha chiamato a Sé l’anima buona e fedele dell’ultimo figlio vivente del beato Imperatore Carlo d’Asburgo e di Zita di Borbone-Parma, S.A.I.R. l’Arciduca Otto d’Asburgo-Lorena, ultimo discendente della dinastia imperiale d’Austria. Nelle sue vene scorreva il sangue di tante famiglie reali e imperiali (Asburgo, Lorena, Borbone, Braganza, etc.). Le esequie saranno celebrate a Vienna il 16 Luglio. Riposerà con i suoi valorosi avi nella Cripta del Cappuccini (Kapuzinergruft). Con lui, grandissimo patriota europeo, scompare l’ultima nobile e tangibile vestigia di una delle più gloriose monarchie. In memoria aeterna erit justus: ab auditione mala non timebit. Requiescat in pace».

Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius von Habsburg-Lothringen aveva 99anni. Era stato un vero avversario dei nazisti, un pericolo per la loro Anschluss. Nel dopoguerra fu deputato e eurodeputato del Partito popolare. Condannato all’esilio per aver perso la guerra mondiale che la massoneria e i nazionalismi mossero nel 1914 all’impero davvero multietnico (cattolico), dovette chiedere la patente democratica agli austriaci che avevano votato in massa l’annessione alla Germania hitleriana. Ma era un garbatissimo signore e come tutti i gentiluomini d’un tempo sapeva sorridere generosamente davanti ai piccoli imbrogli politici. È morto in Baviera dove visse per mezzo secolo.

Joseph Roth, in fuga dai nazisti, si convinse che l’Arciduca fosse l’unico che potesse salvare l’Austria dalle camicie brune. In quegli anni il romanziere esaltava Pio XII come il provvidenziale difensore degli ebrei e si faceva paladino dell’erede degli Asburgo, ossia del protettore cattolico delle minoranze. Ci siamo ormai dimenticati che alcuni letterati ed artisti nella prima metà del Novecento seppero resistere alle sirene chiassose degli espressionismi d’ogni sorta, alle grida delle avanguardie, o talvolta superarono certi entusiasmi giovanili, per riscoprire il gusto elevato, la forma eterna. Per dei Brecht e dei Céline che mettevano il proprio talento al servizio della plebe, mimando il gergo grossolano che diventava il loro stigma, c’erano gli Hofmannsthal e i Borchardt che inseguivano un sogno antico più nobile d’ogni utopia moderna. Fantasticavano un’araldica del cuore, coniugavano in modo novalisiano Europa e poesia.

«Il plebeismo delle idee moderne è opera dell’Inghilterra», sosteneva Nietzsche, «il plebeismo dell’agire moderno è opera della cosiddetta arte contemporanea», si potrebbe aggiungere, ma un drappello di letterati, artisti e musicisti si schierò con l’aristocrazia anche nel Novecento. Da Baudelaire in poi, lungo è l’elenco dei pugnaci conservatori. Dall’«interiorità protetta dal potere» alla mobilitazione della interiorità per proteggere il potere: era lo schizzo per ricostruire un passaggio fondamentale della cultura europea tracciato dal nostro Marianello Marianelli, chiosatore di Borchardt. E quest’ultimo, prendendo a pretesto il giovane Kaiser germanico che nel 1908 compiva vent’anni, considerava l’imperatore un oggetto della «fantasia utilizzatrice dei popoli», la «figura che non invecchia mai», «il giovane re che esercita tutto il suo dominio sugli oscuri sentimenti, che una volta era proprio delle figure mitiche e poetiche» (in indubitabile assonanza con Stefan George). E ancora Marianelli, commentando il borchardtiano Der Fürst (dell’anno fatale 1933) spiega come «il principe, il monarca non ha più nulla di istituzionale, di storico: è, semmai, una delle figure fisse dell’umanità, come l’‘eroe, il santo, l’amazzone, il poeta, il giocoliere, il veggente, l’aedo’. Si tratta ovviamente delle figure riprese dal 'teatro del mondo', dal carillon di archetipi del suo amico Hofmannsthal…».

L’ebreo Borchardt auspicava un Terzo Reich, un Regno dello spirito che gli fu rubato nel nome da violenti demagoghi, il cattolico Hofmannsthal predicava la Rivoluzione conservatrice. In Der Fürst, Borchardt ragionava: «Annientata, la regalità nutre di sé ogni secolo e perfino le repubbliche sue naturali nemiche: le repubbliche francesi si sono protette dalle conseguenze della loro decadenza solo in grazia di un concetto di monarca nato nel medioevo. L’immagine di un universo fondato sulla giustizia romana, nato entro l’occhio regale di Cesare, ha costretto un millennio di storia europea a conformarsi su quella». Sembra di leggere Carl Schmitt. E aggiungeva un ammonimento: «il mondo intero sta diventando conservativo per autodifesa, per difesa della propria eredità». La regalità dipende dalla sua vitalità, non certo dalle sue fortune e sfortune storiche. La regalità dipendeva dal ‘clima nobile’ ricreato da Hofmannsthal che lo scopriva in quegli anni nei personaggi di Shakespeare come nella geografia teresiana che trova il suo vertice nella Venezia fuori del tempo del romanzo di Andreas. Se Roth aveva narrato l’epopea asburgica moderna e Musil ne aveva contemplato ironicamente il tramonto (ma in quell’ironia, nel sorriso mentre ci si inabissa, era nascosta la cifra aristocratica e cattolica), Hofmannsthal aveva parlato del sistema asburgico quale «imperio non solo temporale ma anche sacrale che si sovrappose alle nazioni». Abituati questi signori a pensare «sub specie aeternitatis», riuscivano a vedere il carattere sacrale della forma imperiale. Tuttavia, in quell’epoca incerta e carica di pericoli, l’impero era alla ricerca di un casato e con esso la piccola folla di letterati e artisti. Roth, con il senso pratico degli esuli inseguiti, lo trovava nel giovane arciduca scomparso l’altro giorno. Hofmannsthal in modo più letterario riprendeva da George tale ricerca e la trasformava nella versione calderoniana del suo ultimo dramma, Der Turm. Borchardt la rievocava, piuttosto, in quel possente canto d’amore dedicato a Pisa, città imperiale.

Ma in cerca di una aristocrazia 'moderna' furono pure i pensatori francofortesi che inventarono antenati alto-borghesi in luogo dei loro genitori bottegai, per ricreare una civiltà delle buone maniere novecentesca, un gusto aulico raggiunto con i più severi ascetismi, un understatement che li portò a nascondersi nei panni prosaici dei sociologi pur di non concedere nulla allo snobismo proustiano: era la nuova nobiltà degli ebrei. Else Lasker-Schüler ne tracciò alcune figure suggestive con le corone di latta benché assai eleganti. Gottfried Benn si spingeva fino ai Dori, Ernst Jünger con più cinismo lasciava da parte la ricerca di un casato e si limitava ai geniali cavalieri che salvano l'Occidente nella geografia tormentata intorno alle scogliere di marmo...


Un culto democratico ormai secolare ha cancellato questo tema. Forse anche a causa della vulgata di Hermann Broch sul mondo decadente delle gaie apocalissi, degli ebrei amici di sovversivi, di freudismo, di modernismi, di cancellazione degli ornamenti, perfino di nostalgie asburgiche che si colorano di folclore, di rimpianti della Vienna degli ufficialetti, viene nascosto il tormento di coloro che lavorarono con le parole, i pensieri, i suoni e le immagini, alla restaurazione. La notizia della morte dell’ultimo erede di quel mondo, del prodigo amico dei letterati, finito con loro nell’esilio interminabile del nostro tempo, ne ha risvegliato per una notte il ricordo.