giovedì 17 marzo 2011

L'Italia felix

~ PARLA DOSTOEVSKIJ ~

Una fanfara dei bersaglieri, qualche luminaria, i balconi delle scuole e degli appartamenti dei neo-patrioti impavesati con il drappo tricolore imposto dall’invasore francese: è la festicciola in economia, vago revival delle miserie ottocentesche, che stanotte e domani ricorda la piccola storia dello Stato italiano. Appena centocinquant’anni, un’inezia.

Poche generazioni fa, l’Italia veniva ‘piemontizzata’; press’a poco a ridosso di quegli avvenimenti Fëdor Michajlovič Dostoevskij scriveva nel suo Diario di uno scrittore:

«oh sì, [Cavour] ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea modiale alla fine si era logorata, stremata ed esaurita (era proprio così?), ma che cosa è venuto al suo posto, perché possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio il conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio al tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine» (da Diario di uno scrittore, a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, 1963, pp. 925-926).

Dostoevskij criticò l’Italia del conte di Cavour, «un regno di second’ordine» pieno di debiti, ma rese omaggio alla sua intelligenza politica. Adesso il premier sabaudo sarebbe insolentito come un volgare intrallazzatore, un mezzano che ricorre alle belle forme di una cugina, la celebre Contessa, servendosene per corrompere l’imperatore dei francesi. «Tutta Europa ci ride dietro con questa faccenda di letto», sarebbe il commento attuale. In effetti Metternich non aveva forse ironizzato pubblicamente sulla donna dello scandalo, definendola «una statua di carne»? Si era in piena commedia dell’arte. E non erano mancate le sonore risate degli alleati per quelle strane piume di gallo cedrone sui cappelli dei bersaglieri in Crimea. Non è escluso neppure che qualche magistrato pignolo incriminerebbe Cavour per prossenetismo.

Musil si divertì un mondo a costruire il romanzo di Ulrich, uomo pigro con le massime qualità, che impiega anni insieme al nobile comitato dei festeggiamenti per mettere a punto l’Azione parallela, una straordinaria celebrazione del giubileo imperiale che scocca proprio mentre giunge la data fatale della finis Austriae e la guerra mondiale sta cancellando gli Asburgo dal Novecento. Questo povero giubileo nostro è meno paradossale, lo Stato sta ancora in piedi e saldo nonostante tutto, però l’anniversario tondo atteso da lungo tempo, in particolare da chi lo voleva ritorcere contro ogni pur timido federalismo, viene a coincidere con una brutta crisi economica, forse con la fine della lunga stagione dell’entertainment estetico finanziato dai soldi pubblici, per cui mostre e party sono ridotti al minimo e per fortuna lesinati anche i tricolori. Meglio così, un vessillo asservito a quello di un altro Stato è cosa davvero buffa: i rivoluzionari francesi accostarono il rosso-blu del Comune di Parigi al bianco della monarchia borbonica, ma i nostri tre colori non avevano altro richiamo simbolico che il legame con la casa madre francese, e francamente il verde al posto del blu mortificava il risultato finale, producendo un richiamo pubblicitario per i maccheroni con pomodoro e basilico più che una bandiera nazionale. A garantirle un carattere rispettabile ci pensa il codice penale che commina multe salate a chi vilipendia il sacro cencio. Però dire che è brutto e che il paese della bellezza meritava ben altri drappi non deve suonare come una bestemmia né significa dimenticare che per quello strofinaccio morirono centinaia di migliaia di buoni italiani e buoni cristiani, stretti attorno ai loro cappellani militari, fedeli al papa e alla religione eppure ubbidienti alle autorità che li mandavano al fronte e in trincea; altri buoni italiani e buoni cristiani si fecero ammazzare in Africa e in Russia, nelle formazioni partigiane e nelle bande repubblichine, sempre innalzando il tricolore, appena cambiando lo stemma da collocare al centro. Ormai da un'eternità era tirato fuori solo per le partite, oggi tornano i suoi colori per gioco patriottico. È la festa più Kitsch di quante se ne son viste in una lunga vita. Tappiamoci in casa.