giovedì 31 marzo 2011

I tifosi bizantini

~ LA FINALISSIMA TRA BENE E MALE ~
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Ieri parlavamo di mostri vecchi e nuovi. Oggi ricorderemo le folle facinorose che urlano per incitare tali mostri. I tifosi della giustizia. Di un potere cioè che manovra uno dei più delicati strumenti sociali, il ciceroniano «habitus animi», una virtù quindi, una specie di arte che avrebbe bisogno della saggezza di Salomone, di calma, di voci basse, perfino di pudore (si sta inquisendo nell’intimità di sospetti innocenti), e che si è trasformato in una partita furibonda, la finalissima tra il bene e il male.

C’è una nuova voga in Occidente: il procuratore del re adesso dà scacco al re. Non è soltanto una questione italiana. Negli Stati Uniti, patria del puritanesimo, nessun giudice osò portare in tribunale i vizi privati consumati con celebri star dal presidente della «nuova frontiera», ma qualche decennio più tardi, per una disavventura con una ragazza qualsiasi, salita alla ribalta grazie allo scandalo, un presidente maldestro fu inchiodato alla pubblica tortura delle indagini sotto le telecamere, della inchiesta giudiziaria e giornalistica (che sempre più vanno di pari passo; la seconda, con prove arruffate e ignoranza del diritto, emette sentenze clamorose che anticipano e influenzano quelle in tribunale). Che cosa era dunque successo? Un diplomatico francese, Jean-Marie Guéhenno, pubblicava in quel tempo un libello, La fine della democrazia (Garzanti) in cui prendeva atto di questa nuova sovranità assai limitata. A cominciare da quella del popolo che la esercita attraverso il voto. Spiegava così come il rappresentante di una tale sovranità dimezzata fosse ormai un bersaglio degli umori dei media e dei magistrati: «la televisione impone il suo ritmo al dibattito politico», e «il dibattito su un problema si trasforma in dibattito sull’integrità personale dell’uomo, sul suo rispetto delle norme istituzionali, estremo criterio di giudizio in un mondo in cui il gioco politico non ha altro scopo che la preservazione della regola del gioco, unico standard accettato di funzionamento in una società senza scopo». Quello che sembra moralismo di massa può allora essere interpretato come una militanza di estremisti semiologi, di controllori delle regole di un gioco per il gioco, sulla falsariga dell’arte per l’arte. «Non si chiedono rendiconti di una politica, ci si assicura che siano state rispettate le procedure», una specie di gioco di società che «mette in scena, davanti all’opinione pubblica, e non più davanti a qualche giudice ecclesiastico, gli attori della vita politica. E l’emozione suscitata dalla trasmissione televisiva di un’audizione giudiziaria crea questa percezione collettiva di cui la società ha bisogno per continuare a considerarsi una società». Forti sconquassi sono dunque avvenuti in questo mondo progressivamente formalizzato per arrivare ad accontentarsi di uno straccio di rito come il cinico cerchio delle tricoteuses intorno alla ghigliottina (e senza l’odore del sangue, sublimato dallo schermo elettronico). Perciò «a un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti non si domanda di incarnare una visione del diritto, ma di essere una ‘vignetta’ della società quale essa sogna di essere».

Gli accusatori che vengono fotografati in piazza con la bocca sgraziata per l’invettiva si dovrebbero interrogare sulle trasformazioni che Guéhenno già intravedeva a ridosso dell’Ottantanove piuttosto che prestar fede infantilmente al Grande Complotto. «Il mondo diventa più ‘astratto’, più ‘immateriale’», il «circuito telematico» prescinde dal territorio, vecchie istituzioni crollano, e crollano gli imperi anche economici basati sul territorio. La politica risente di tutto ciò, la politica si smarrisce. I sondaggi in tempo reale, le campagne stampa, le raccolte di firme e oggi la rete universale umiliano il voto, la democrazia classica è ferita. «Il lavoro dell’uomo politico consiste nel giocare al meglio la sua parte per essere il più spesso presente in quei cinquanta psicodrammi che ogni anno riempiono gli schermi della televisione». Ne deriva una «frammentazione delle immagini e degli argomenti, uno sbriciolamento del tempo, una semplificazione delle percezioni…». Per tentare di riunificare un tale mondo in frantumi e senza più istituzioni credibili si ricorre alle procedure, ai protocolli. Se di questione morale si tratta non riguarda i singoli casi, i comportamenti dei personaggi politico-televisivi, bensì una miserabile umanità che si limita al regolamento come tanti neopositivisti, senza neppure conoscere l’obiezione di Popper.

Quando il nostro autore parla di vignette, di immagini – ‘icona’ è il termine di moda – , spiega che nel dibattito pubblico che accompagna i gesti dei procuratori in America come in Europa «non si dibatte sui principi del diritto e dell’etica […], si contrappone soltanto vignetta a vignetta». Ed è forse per questo motivo che la dialettica delle immagini, a contatto con la italica e antichissima faziosità, si tinge di violenza. Anche l’art pour l’art da noi, fortunatamente, fuoriesce dalla torre d’avorio e si sporca di realismi vibranti, non a caso l’astrattismo del dopoguerra finiva nelle discussioni accaldate delle sezioni Pci e un Mallarmé sarebbe inimmaginabile da queste parti. Così quando il tonfo del comunismo sembrò togliere di mezzo le ideologie, quando la politica si presentò dappertutto nuova e asettica, sulla questione delle regole e degli attori che dovevano recitare la parte dei potenti si accese in Italia un tumultuoso contrasto che non accenna a scemare. Un pretesto per l’eterna guerra fratricida, magari favorita dal maggioritario, dalla richiesta radicale di ‘carta vince e carta perde’. Una lotta da Azzurri e Verdi, le due fazioni dell’ippodromo di Bisanzio che animarono una guerra intestina nell’Impero, arrivando a incarnare la battaglia morale e teologica. Azzurri e Verdi di Bisanzio, Bianchi e Neri di Firenze, acromatiche folle minacciose davanti al Parlamento e ministri che scagliano insulti villani, trionfi anche emozionanti della partigianeria, ma perché invocare la divisione dei poteri, le leggi, la giustizia? Basta dirselo: i tifosi sono entrati nell’aula giudiziaria e compromettono l’arbitraggio del sommo derby. Quale figura può sospendere la partita?