giovedì 21 aprile 2011

La prima contemplazione

~ EMILIO CECCHI CELEBRA
LE IMMAGINI VELATE
DELLA SETTIMANA SANTA ~

In un appunto dei Taccuini di Emilio Cecchi leggiamo: «I ragazzi, la gente comune, non si sostengono nella preghiera. Ma guardano. E il lungo guardare produce una penetrazione delle cose più profonda» di quella intellettuale. «È questa la base delle scuole artistiche come erano praticate nel vecchio tempo […]. Mescolarsi quasi fisicamente alle cose dell’arte, assumerne un possesso sensibile». Di questa straordinaria pedagogia, l’arte sacra era il modello sommo. E le immagini velate nella Settimana santa facevano risaltare al massimo questa scuola dei sensi. In un articolo sul «Corriere della Sera» del 5 maggio 1935, intitolato «Piaceri della pittura», Cecchi torna su questo tema, rievocando la chiesa della sua infanzia.

«Senza ombra di esagerazione letteraria, posso dire che molte fra le più belle opere artisticamente dipinte o scolpite da quelli della mia terra [la Toscana], la prima volta m’apparvero come trionfali figure o processioni che camminassero su pavimenti o scalinate di nuvole d’incenso. […] Imbacuccati negli immensi mantelli d’oro, i preti cantavano davanti all’altare passandosi il turibolo. Le risposte dell’organo ai loro canti scoppiavano come ruggiti dentro la foresta di pietra. Nelle chiese la nera moltitudine odorava di freddo, di pioggia e di privazioni. Ma dagli affreschi e dalle tavole scintillanti, le Madonne, gli Angioli, i Martiri cercavano di farci coraggio, a noialtri laggiù in fondo inginocchiati». Beati quei poveri, beati quei bambini, confortati da affreschi e statue, andarono alla scuola della sensibilità, provarono il piacere della pittura, appunto; e doppiamente disgraziati i poveri d’oggi che devono pregare nella desolazione delle chiese contemporanee.

«… le maestose cerimonie della Settimana Santa. I tragici diverbi, le invettive, i clamori della Passione. Il giardino del Sepolcro, con le grandi siepi di camelie e le aiuole di vecce pallide, la veste nivea e la veste vermiglia, e il gallo a zampa ritta, in cima alla colonna nell’atto di cantare. I mortori che all’ora di notte entravano d’un passo strisciante, furtivo; l’odore catastrofico delle torce; i bianchi incappucciati che tristemente ci guardavano dai buchi della buffa, e la gente abbrunata dagli occhi rossi che si soffiava il naso dietro alla bara».

«Alzate sugli altari, istoriate sulle pareti, le immagini assistevano come da una sfera tranquilla e suprema all’avvicendarsi di tanti aspetti, gaudiosi, dolenti, terribili, del culto e della liturgia. Ora le indorava il raggiare dei ceri, nel respiro esaltato dei gigli e delle rose. Ora sopra all’altare spoglio, restavano solitarie e quasi neglette, come se tuttavia riempissero e signoreggiassero con la loro presenza la vastità della chiesa; anche quando, avanti Pasqua, goffamente fasciate di sacco, parevano fantasmi. […] Si pigliava contatto con qualcosa d’arcano, che a un tempo poteva chiamarsi divozione, arte, poesia. Proprio come avevano voluto quei nostri antichi, i quali prescrissero che, nelle loro tavole ornate e belle, i pittori ‘manifestassero agli uomini rozzi, che non sanno lettere, le cose miracolose operate per virtù e in virtù della fede’. […]

Nemmeno a’ vecchi tempi la chiesa dovette essere ricca. E s’era accontentata di pennelli mediocri. Quando, dopo tanti anni, ebbi curiosità di rintracciare glia autori delle immagini predilette, trovai sui cataloghi il povero Neri di Bicci, con l’arie afflitte de’ suoi santi dal colorito terreo, e le vermiglie stereotipie degli aloni intrecciati dall’ali dei cherubini. Trovai nomi che l’erudizione ha inventato per nomi che, insomma, non lasciarono neppure un nome. Lo ‘Pseudo-Pier Francesco’, il ‘Maestro della Natività di Castello’: timidi ritardatari, che riecheggiarono di tutto: il gesto d’un fanciullo, da fra Filippo; la piega d’un manto, dal Botticelli; un candelabro, il paesaggio, da qualche altro ancora, arrangiando con grazia da giardinieri, da fioristi. […]

O maestrucci! […] Consolatevi d’esserci andati diritto al cuore, o maestri elementari della pittura, o baloccai della nostra prima contemplazione».