lunedì 30 maggio 2011

Le rose di maggio

~ PARLA NOVALIS ~

Rose che non profumano più – frutto di complicate ibridazioni che ne indeboliscono l’aroma (ma si dimentica anche, imperiti, che la fragranza ha le sue ore canoniche) – si scompongono nei nostri giardini dopo uno show mattutino, si sfrangiano e si dissolvono, spargendo intorno petali in funerei accenni alla caducità, secondo il loro destino assai effimero: è il mese di maggio, una malinconica festa della Primavera. Dimenticato ormai, anche nelle chiese di campagna, il mese mariano, quando quei fiori adornavano, ogni giorno nuovi, le immagini della Deipara, la Rosa Mystica per eccellenza. Avvolto completamente nell’oblio l’altarino domestico, il luogo aulentissimo della casa, gli esercizi devoti, il florilegio anche spirituale dei piccoli sacrifici quotidiani, i ‘fioretti’, in trobadorico omaggio alla Dama. Ecco la più gentile delle iconofilie. Così fu cristianizzato il «cantar maggio», un rosario quotidiano, una ghirlanda intrecciata per una donna celeste, quando l’«espace d’un matin» si cambiava in eternità. Risuonava l’antifona dell’Assunta: «Vidi speciosam sicut columbam ascendentem desuper rivos acquarum cuius inestimabilis odor erat in vestimentis eius. Et sicus dies verni circumdabant eam flores rosarum et lilia convallium» (Ho visto una bellissima venire su come una colomba dalle acque correnti di ruscelli, e i suoi vestiti emanavano un profumo inestimabile. E come in giornate di primavera, la circondavano fiori di rose e gigli di vallata). Piogge di rose trasponevano gli antichi culti nel socialista «May Day», come nelle incisioni di Walter Crane, aggraziando una sinistra ancora virtuosa e rispettabile.

«Nel tardo autunno ci si ricorda della primavera come di un sogno dell’infanzia» – scriveva Novalis nel suo grande sogno poetico Cristianità o Europa. Dove spiegava come la Catholica avesse civilizzato una umanità selvaggia, educando rozzi maschi a comporre serti fioriti e a deporli nelle edicole dedicate a una donna, a una regina. In questo modo «le inclinazioni più selvagge e struggenti dovevano piegarsi alla venerazione», mentre santi uomini «non predicavano altro che l’amore alla santa e bellissima Signora della Cristianità». E «con quale serenità si lasciavano le belle riunioni nelle chiese misteriose, che erano ornate di edificanti immagini, piene di dolci vapori e animate da una musica santamente esaltante». «L’antica fede cattolica [...] era cristianesimo applicato, divenuto vivo. La sua onnipresenza nella vita, il suo amore per l’arte, la sua profonda umanità, l’inviolabilità dei suoi matrimoni, la sua filantropica espansività, il suo amore per la povertà, per obbedienza, per la civiltà, lo fanno riconoscere come pura religione…». Di quel mondo già rimpianto dai romantici restava traccia, ancora nelle infanzie di noi più vecchi, nel maggio mariano, nelle rose di Venere che finivano sul capo di una vergine.

PICCOLA POSTILLA
A distinguere la rosa dagli altri fiori nell’austero paesaggio italico, soccorrono le sapienti parole di Rudolf Borchardt: «L’esclusione del fiore dai giardini dell’Occidente [fino al Quattrocento] era avvenuta per influsso dell’Italia. Italici, latini, romani, italiani, quando tornano alla natura – e lo fanno con tanta passione, come nessun altro popolo – sognano un paradiso perduto in cui possano sentirsi coltivatori; e, nelle loro tragiche sventure storiche di cittadini, si rivolgono agli antichissimi dèi dei loro antichi mondi contadini ordinati e severi che distinguevano nettamente tra stabilità e seduzione, cultura e natura. Presso Orazio, nulla fiorisce, anzi egli bandisce i fiori con la voce della antica religione italica della virtù contadina. Qui è ammessa soltanto la rosa, purché accompagnata al vino e all’olio sacro…» (Il giardiniere appassionato).