domenica 11 settembre 2011

L'amore della immortalità

~ ANCHE SENZA ESSERE CRISTIANI NON CI SI ARRENDE
FACILMENTE ALLA DAMA DEL NICHILISMO:
LA RESURREZIONE RACCONTATA DA MIGUEL DE UNAMUNO ~

«Di conseguenza, è naturale che si ami l’immortalità insieme al bene
se è vero che l’amore è amore di possedere il bene per sempre. Da ciò
consegue come necessario che l’amore sia anche amore dell’immortalità
»

Platone,
SIMPOSIO

Oggi che dei teologi sedicenti cattolici mettono in dubbio la resurrezione di Cristo che garantisce la resurrezione della carne di tutti gli umani, potrà sorprendere come all’inizio del secolo moderno per eccellenza, nel primo Novecento ‘laico’, Miguel de Unamuno, lo scrittore e pensatore spagnolo che annunciava l’«agonia del cristianesimo», riflettesse poi sull’antica fede nell’immortalità. Dal saggio Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, del 1913, nella edizione Rinascimento del libro, Firenze, 1944, riportiamo alcuni passi, tratti tutti dal IV capitolo, «L’essenza del cattolicesimo».

«La fede nell’immortalità dell’anima […] bisogna dire che è una specie di sottinteso, di supposto tacito, nell’Evangelo, ed è la situazione di spirito di molti di coloro che oggi lo leggono – situazione opposta a quella dei cristiani fra i quali scaturì il Vangelo, – che loro impedisce di comprenderlo. […] Scaturì il cristianesimo da una confluenza di due grandi processi spirituali, giudaico ed ellenico, ognuno dei quali era arrivato per parte sua, se non alla definizione esatta, alla esatta ansia di un’altra vita. Non fu tra i giudei né generale né chiara la fede in un’altra vita; ma li portò ad essa la fede in un Dio personale e vivo. […] La fede nel Dio personale, nel Padre degli uomini, porta con sé la fede nell’eternizzazione dell’uomo individuale». Una tale fede non c’è ancora in Omero, che chiude una civiltà, che precede il regno spirituale di Apollo. «”Nessun popolo venne sulla terra così sereno e soleggiato come il greco, nei giorni giovanili della sua esistenza storica…” [notava Pfleiderer] ma nessun popolo cambiò così completamente la sua nozione sul valore della vita. […] Così, ognuno per parte sua, giudei e greci, arrivarono alla vera scoperta della morte […]. La scoperta dell’immortalità, preparata dai processi religiosi giudaico-ellenistici, fu specificamente cristiana». La teologia della resurrezione fu opera di Paolo: «l’importante per lui era che Cristo si fosse fatto uomo, e fosse morto e resuscitato». Innumerevoli passi delle sue epistole confermano questa sintesi del pensiero paolino. «Partendo da questo punto si può affermare che chi non crede nella resurrezione carnale di Cristo potrà essere filocristo, ma non specificamente cristiano. […] Il fine della redenzione fu, nonostante le apparenze per deviazione etica del dogma, propriamente religioso, di salvarci dalla morte piuttosto che dal peccato, o da questo in quanto implica la morte».

«Dopo Paolo si successero gli anni e le generazioni cristiane lavorando intorno a quel dogma centrale e alle sue conseguenze, per assicurare la fede nell’immortalità dell’anima individuale, e venne il Concilio Niceno, e con esso quel formidabile Atanasio, il cui nome è già un emblema [è formato infatti dall’alfa privativo e dalla parola thànatos, morte, senza morte, immortale ndr], incarnazione della fede popolare. Atanasio era un uomo di poca erudizione e di molta fede, e soprattutto di fede popolare, e pieno d’ansia di immortalità. E si oppose all’arianesimo, che come già più tardi il protestantesimo unitariano e il sociniano minacciavano, per quanto senza saperlo né volerlo, le basi di quella fede. Per gli ariani, Cristo era prima di tutto un maestro, e un maestro di morale, l’uomo perfettissimo, pertanto garanzia che tutti possiamo arrivare alla somma perfezione; ma Atanasio sentiva che Cristo non poteva farci dèi se prima non si fosse fatto Dio egli stesso, se la sua divinità per partecipazione non avesse potuto parteciparla. “Non è che Cristo – diceva – essendo uomo si è fatto poi Dio, se non che essendo Dio si è fatto uomo per poi meglio deificarci”. […] Il Cristo atanasiano o niceno, che è il Cristo cattolico, non è il cosmologico né, in realtà, l’etico, è l’eternador, il deificatore, il religioso».

«Fra i protestanti, il Gesù storico soffre sotto lo scalpello della critica, mentre il Cristo cattolico, il Cristo veramente storico, vive nei secoli, mallevadore della fede nell’immortalità. […] A Nicea riportarono dunque la palma, come in seguito la riportarono in Vaticano, gli idioti – prendendo la parola nel suo senso primitivo ed etimologico – gli ingenui, i vescovi rozzi e testardi, rappresentanti del genuino spirito umano, del popolare, di quel che non vuole morire, dica quello che vuole la ragione, e cerca la garanzia più materiale e possibile, per il suo desiderio di immortalità. Quid hoc ad aeternitatem? [che cosa serve tutto questo di fronte all’eternità? potrebbe essere una traduzione ndr] Ecco la domanda capitale». E il Credo finisce con quel resurrectionem mortuorum et vita venturi saeculi […] O come dice il Catechismo, con gli stessi corpi e con le stesse anime che ebbero. La felicità dei beati non sarà del tutto perfetta, fino a che essi non ricupereranno i loro corpi: questa è dottrina cattolica ortodossa. […] E a questo dogma centrale della resurrezione in Cristo e per Cristo corrisponde pure un sacramento centrale, l’asse della pietà popolare cattolica, e cioè il sacramento dell’Eucarestia. In esso si somministra il corpo di Cristo che è il pane di immortalità. È il sacramento genuinamente realista, dinglich, si direbbe in tedesco, e che non è gran violenza tradurre materiale, il sacramento più genuinamente ex opere operato, sostituito tra i protestanti col sacramento idealista della parola. Si tratta, nel fondo, e lo dico con tutto il rispetto possibile, ma senza voler sacrificare l’espressione della frase, di mangiare e di bere Iddio, l’Eternizador, di alimentarsi di Lui. […] Lo specifico religioso cattolico è l’immortalità, e non la giustificazione alla maniera protestante. Questa è piuttosto etica. Ed in Kant, il cui protestantesimo, per quanto dispiaccia agli ortodossi, trasse le sue ultime conseguenze, la religione dipende dalla morale, e non questa da quella, come nel cattolicesimo. […] Il protestantesimo, assorto nel fatto della giustificazione, presa in un senso più etico, benché in apparenza religioso, finisce per neutralizzare e quasi cancellare l’escatologico, abbandona la simbolica nicena, cade nell’anarchia confessionale, nel puro individualismo religioso e in una vaga religiosità estetica, etica o culturale. […] La vocazione terrena e la fiducia passiva in Dio dànno la loro volgarità religiosa al luteranesimo, che fu sul punto di naufragare nell’età dell’illuminamento, dell’Aufklärung…».

«Per parte mia, non concepisco la libertà di un cuore né la tranquillità di una coscienza che non siano sicure della loro perdurabilità dopo la morte». I teologi protestanti si affannano invece a parlare di remissione dei peccati. «La nuova apologetica psicologica fa appello al miracolo morale, e noi, come i giudei, vogliamo dei segnali, qualche cosa che si possa afferrare con tutte le potenze dell’anima e con tutti i sensi del corpo». L’arte forse serve proprio a quello.