martedì 27 marzo 2012

Professor Adorno vs. Sir Bacon

~ «CARO ‘ALMANACCO’, TI SCRIVO…» ~
~ CONSIGLI EPISTOLARI PER BEN PREPARARSI
ALLA ‘PROVA’ SULLA CITAZIONE ADORNIANA ~

Lettera di un lettore di «Almanacco Romano» sulla proposta del 24 marzo:

Nell’attuale, secolare, «sistema di non-cultura» (Nietzsche), dove non ha più senso neppure parlare di «barbarie stilizzata» (ancora Nietzsche), vale forse la pensa aggiungere qualche citazione per preparare gli aspiranti burocrati a far bene il temino che proponete. Anzitutto, riportando integralmente la frase contenuta a p. 141 dell’edizione italiana Einaudi di Dialektik der Aufklärung, Dialettica dell’illuminismo. Poi, raccogliendo dei frammenti da Minima moralia. Sperando dunque di non sentir parlare nei prossimi tempi di quanto la cultura faccia bene all’economia, alla salute o al buonumore, leggiamo quel che dice il duo Adorno-Horkheimer prima del celeberrimo passo sul «parlare di cultura [che] è sempre stato contro la cultura», frase che voi dell’«Almanacco» vorreste far commentare ai pubblici funzionari un po’ per sadismo e un po’ per vizio didattico: «La barbarie estetica realizza oggi la minaccia che pesa sulle creazioni spirituali fin dal giorno in cui sono state raccolte e neutralizzate come cultura. [...] Il denominatore ‘cultura’ contiene già virtualmente la presa di possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nell’amministrazione. Solo la sussunzione industrializzata, radicale e conseguente, è pienamente adeguata a questo concetto di cultura». Capiranno i promotori delle faccende modaiole che cosa c’è dietro quella parola che agitano tanto e che sembra loro così elevata? E si ricorderanno i militanti di sinistra ormai addestrati col metodo della Masochista serba quei discorsi lontani della Kulturkritik? Leggiamo infatti nelle righe seguenti, dove i due pensatori limano ancora quel «concetto di cultura»: «Subordinando allo stesso modo tutti i rami della produzione spirituale all’unico scopo di turare tutti i sensi degli uomini – dall’uscita di fabbrica la sera fino all’arrivo, la mattina dopo, davanti all’orologio di controllo – coi sigilli del processo lavorativo che essi stessi devono alimentare durante la giornata, essa realizza sarcasticamente il concetto di cultura organica, che i filosofi della personalità opponevano alla ‘massificazione’». Nonostante gli incisi, è chiaro che la mitica forza che elettrizza i recenti acculturati ha l’«unico scopo di turare i sensi degli uomini» fuori dalla fabbrica, nel cosiddetto ‘tempo libero’, ovvero l’ora d’aria dei carcerati. Parola di due accademici tedeschi, colti davvero, alle prese con l’entertainment americano. E dialetticamente ricordavano ai marxisti del loro tempo come «in nome della ‘tendenza oggettiva’» e «in atto di disperazione» finissero con l’«attendere la salvezza dal nemico mortale». Queste schegge di Minima moralia centrano la resa a ogni «contemporaneo», la «preoccupante affinità elettiva con l’economia politica» di cui pur si fa critica confusa, «un’affinità simile a quella tra polizia e bassifondi». D’altronde Adorno diffidava anche di coloro che si gonfiavano il petto con la cultura quale scudo onnipotente contro i totalitarismi: «L’affermazione che Hitler avrebbe distrutto la cultura tedesca non è che un trucco reclamistico di coloro che vorrebbero ricostruirla dai loro telefoni d’ufficio. Tutto ciò che – nell’arte come nel pensiero – era stato distrutto da Hitler, conduceva da tempo l’esistenza apocrifa e appartata di cui il fascismo spezzò gli ultimi angolini». Con buona pace dello stuolo di comici che credono di incarnare la Resistenza eterna soltanto per uno sberleffino al politicante di turno.

Un altro che se ne intendeva, avendo conosciuto il rigore di Degas come le dissoluzioni novecentesche, Paul Valéry, poteva riassumere: «Il fatto nuovo tende ad assumere tutta l’importanza che avevano fin qui il fatto storico e la tradizione». Solo per alzare il prezzo di molte novità, allora, ci si fa belli con l’aureola che ancora possiede agli occhi dei più semplici la cultura d’ogni tempo.

Ruggero Antonio Valles

sabato 24 marzo 2012

Sir Bacon docet

~ UN’ALTRA MODESTA PROPOSTA
DELL’«ALMANACCO» ~

«Mi piacciono i contadini perché
non sono abbastanza istruiti da essere imbecilli»
MONTESQUIEU

Impazza da un mese la raccolta di firme sotto il «Manifesto per la Costituente della cultura», ovvero per la promozione di un carrozzone burocratico, come si diceva un tempo, dove allestire chiacchiere infinite. Promosso dal «Sole-24 ore», giornale della corporazione degli imprenditori, è naturale che riscuota successo: in tempo di crisi e di confusione, qualsiasi ricetta prometta una salvezza e soprattutto qualche quattrino ottiene credito, comunque interesse, anche quella dunque della «cultura necessaria allo sviluppo», del «volano», della «risorsa», secondo i termini fissi di una fantasia povera. Sai che scoperta, il capitalismo è nato prescrivendo una cultura nuova e a sé asservita, facendo fuori millenni di fantasie e magie, saperi ‘inutili’ e piaceri, il microcosmo che si specchiava nel macrocosmo, le analogie, le corrispondenze, la concezione vitalistica dell’uomo, la sintesi tomistica che fondeva l’universo, il Cielo e la Terra, l’idea unitaria per cui lo spirituale era il carnale... Francis Bacon, cancelliere del sistema economico che si andava affermando, coniò una parola d’ordine travolgente: «sapere è potere». Singolare che anche molti marxisti firmatari abbiano dimenticato tali passaggi e si ritrovino beati tra le beghine dello spirito, deferenti verso una parola-feticcio. Possibile che non si capisca come una cultura che serve a moltiplicare i soldi, che alimenta il progresso economico, che vivacizza le finanze sia assai diversa da quella della tradizione, e più che mai diversa da quella protetta dai signori rinascimentali? Signori, infatti, nella loro unicità e magnificenza mondana, non l’astratto potere del capitale e il misero gusto dei suoi impiegati: non c’è bisogno di aver letto Max Weber per intuire l’abisso che li separa.

Di fronte al binomio cultura-Pil, arte-Pil, musei-Pil (che è quanto di più nauseante sia dato concepire), concedendo pure che qualcuno ricorra a simili accoppiate soltanto per catturare consenso, alla maniera delle vecchie tecniche da oratorio, quando si prometteva la partitella per portare i ragazzi alle funzioni liturgiche (ma davvero si pensa ai signori della finanza come fessacchiotti manovrati dai poeti?), non ci resta che avanzare un’altra modesta proposta, come tutte le altre naturalmente senza esito.

Che ai prossimi concorsi per pubblici funzionari nei settori che più facilmente si prestano alle eccitazioni dei manifesti, all’orgoglio di casta (intellettuale, ça va sans dire, anche se spesso si tratta di semplici decoratori della vita industriale), si preveda un apposito scritto, un temino, così titolato: «Provi il candidato a spiegare e commentare la frase di Adorno e Horkheimer “Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura”». Magari, onde non fare un’ecatombe di concorrenti, si aggiunga a parte che Theodor W. Adorno e Max Horkheimer erano due filosofi ebrei e a modo loro marxisti, niente a che vedere con il nazional-socialista Baldur von Schirach che amava affermare «quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola» (celebre battuta spesso erroneamente attribuita a Joseph Goebbels).

martedì 20 marzo 2012

L'inflazione culturale

~ «TROPPI MUSEI, TROPPI TEATRI»,
SOSTIENE UN LIBRO TEDESCO. ~
QUALCUN ALTRO ANDAVA RIPETENDO
SIMILI PARERI MA IN UN ALTRO CONTESTO ~


Allarmatissimi i notiziari italiani nel parlare di un libro tedesco, Der Kulturinfarkt, scritto da quattro signori che si occupano di pubbliche istituzioni culturali. Da noi, ce lo ricordiamo bene, a ogni taglio dei fondi statali per musei e concerti, c’era chi additava l’esempio della Germania felice: laggiù – si diceva in tono celebrativo – sanno bene che «la cultura è un business», che fa crescere il Pil. L’affermazione era inquietante, che gli squisiti piaceri estetici fossero mediati dalle gabbie economiche e finalizzati a maggior gloria del capitalismo risultava una immagine da brivido, ma adesso i quattro tedeschi, dall’alto della loro esperienza smentiscono questa diffusa convinzione e confermano i sospetti dell’«Almanacco»: la spesa ‘culturale’ è ormai insostenibile e folle. Ancora più aberrante, dunque, l’accoppiata tra l’arte e la ‘scienza triste’.

Il libro ancora non uscito pare – secondo i riassunti delle agenzie – riporti cifre impressionanti: dal 1981 il numero dei musei è triplicato e, dopo la riunificazione tedesca, raddoppiato il numero dei teatri, con le sovvenzioni pubbliche che sono schizzate a 9,6 miliardi di euri all’anno. Jean Clair lo va dicendo da decenni, la proliferazione dei musei, non soltanto in Germania, la museificazione del mondo («all’alba del secondo millennio il monaco Glaber guardava con meraviglia ‘il bianco mantello delle chiese’ distendersi sull’Europa. Alla fine dello stesso millennio ci si potrebbe stupire nel vedere il grigio mantello dei musei coprire l’Occidente»), è un problema su cui riflettere, non un record per far emettere gridolini giulivi agli apologeti delle magnifiche sorti e progressive del museo. Addirittura all’inizio del Novecento, lo abbiamo ripetuto tante volte, Hermann Broch metteva in guardia su siffatti pericoli: «Assolvendo i suoi doveri nei confronti della tradizione Vienna scambiò per cultura la passione per i musei e divenne essa stessa […] un museo. […] La musealità era dunque riservata solo a Vienna; come segno di declino, come segno del declino dell’Austria. La decadenza verso la miseria porta alla degradazione nella vita puramente vegetativa, ma la decadenza verso la ricchezza porta al museo. La ‘musealità’ è appunto un vegetare nella ricchezza, un vegetare nella serenità. E l’Austria allora era un paese ricco…». Adesso però sono dei manager di musei e teatri che «chiedono di mettere fine allo spreco di fondi pubblici», e subito i media si inchinano devoti. Con la pedanteria dei tedeschi che controllano sempre lo scontrino all’uscita dei supermercati, gli autori fanno quattro conti e si pongono una domanda: «Sarebbe forse un’apocalisse se sparisse la metà dei teatri e dei musei e alcuni archivi e sale da concerto venissero raggruppate?». Sul libro ancora in allestimento si apre un dibattito, le pagine della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» ospitano degli interventi a favore di una soluzione drastica, l’eco arriva fin qui e terrorizza le corporazioni che su quei soldi pubblici campano e prosperano. Ma circa un anno fa, nel dicembre 2010, le stesse cose le aveva dette con garbo torinese e con linguaggio meno sociologico Guido Ceronetti in un articolo per «La Stampa»; furono rubricate tra le stravaganze di un vecchio. Chi si ricorda del suo amen di fronte al denaro che scarseggia per le imprese culturali? Provava a immaginare un’Italia priva della Scala, evitando le nostalgie delle soubrette in pensione: «Se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. […] L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile». Per concludere con una frase scandalosissima all’orecchio dei bigotti: «se la Scala chiude, che male c’è?». Questo «Almanacco» plaudì, quasi solo.

Un’altra discussione suscita il libro dei tedeschi, portando altre cifre che colpiscono come dardi l’opinione pubblica: «A interessarsi all’offerta culturale è solo un’élite colta e ricca, al massimo una percentuale della popolazione compresa tra il 5 ed il 10%», ma «i politici preferiscono inaugurare un nuovo museo o un altro festival, invece di chiedersi il senso di queste nuove istituzioni». Le centinaia di pagine dell’opera di Fumaroli sul senso del contemporaneo, ora uscita pure in italiano, lasciano indifferenti intellettuali e politici; forse l'élite è meno colta di quel che si pensa, forse solo ricca. Il birignao rococò sulla elevazione spirituale delle masse fa breccia.

All’origine dell’inflazione culturale troviamo l’assunto che l’arte è alla portata di tutti. Se si tratta di emozioni, chi non è capace di provarne? Ed ecco la ‘critica’ del «Corriere della Sera» informarci oggi sulla sua esperienza al Pac di Milano. Sotto la direzione di un’anziana punitrice di se stessa, del proprio corpo, anche lei come altri giornalisti e spettatori si è sottoposta a piccoli esercizi di molestia fisica per vivere il pathos di un artista corporale, convinta di essere stata ingranaggio di un’arte «che si è proposta di elevare lo spirito umano verso le cose ultime». Che esagerata: da una parte si trasforma in arte ogni batticuore, dall’altra la si eleva a qualcosa che soltanto la religione ambiva rappresentare, essendo l’arte tradizionale, quella di Tiziano o di Canova, tecnica elaboratissima, non ancora introduzione al Paradiso.

Ad ascendenze più rustiche sembra invero richiamarsi l’usanza del pubblico costretto a esibirsi. Già una trentina di anni fa il teatrino di Raimondi e Caporossi bendava e chiudeva in un sacco lo spettatore ancora fuori dell’edificio per trasportarlo impacchettato in un luogo misterioso. Un passo successivo potrebbe essere la bastonatura crudelissima, chiamiamola body art, il salto mortale che risolve annullandolo il complicato concetto di rappresentazione. Il passo precedente era quel che capitava agli ingenui disposti a salire sul palco dell’avanspettacolo, a far da cavia all’elettricità della platea trucida. Si ricorda al liceo un professore di greco che, spiegando il teatro antico, le lascivie delle rappresentazioni pagane vituperate da sant’Agostino, si raccomandava: «ragazzi, non vi prestate mai a essere il parafulmine dei lazzi del pubblico», chissà forse memore di un’esperienza personale in cui magari l’Angelo Azzurro si era posato su di lui. Fellini aveva messo in scena nelle Notti di Cabiria la sventurata donna che faceva il passo fatale, lasciando il suo posto in platea per offrirsi alle luci del varietà, manipolata dal mago e dagli spettatori complici. Performer borgatara, era l’eroina di un racconto cinematografico, non «si ribaltavano le parti», come direbbe la signora sul «Corriere», il pubblico non giocava all’artista secondo vecchie inversioni romantiche, secondo «il teatro nel teatro», una trovata di Ludwig Tieck nel 1797.

venerdì 16 marzo 2012

L'urto della magnificenza romana

~ UNA GRANDE INVENZIONE CATTOLICA:
IL BAROCCO. NELLE PAROLE DI LORENZO GIUSSO,
SCRITTORE DIMENTICATO ~

Lorenzo Giusso (Napoli, 1900 – Roma, 1957) fu pensatore, letterato, ispanista. I brani del fiammeggiante saggio che riportiamo sono tratti dalla sua relazione su 'cultura cattolica e barocco' che tenne, nel 1954, a uno dei congressi internazionale di studi umanistici, i leggendari appuntamenti organizzati dal conte Enrico Castelli Gattinara (in Retorica e Barocco, atti del convegno, Roma 1955). Neppure sul web si fa cenno a questo scritto di Giusso, nessuna bibliografia lo menziona: sepolto. Appena un aperitivo le righe che qui mettiamo on line, per invogliare a leggere le sue opere rintracciabili con un po’ di buona volontà in qualche pubblica biblioteca: Spagna e Antispagna (da Calderón a Ortega Y Gasset, di cui fu amico), Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Il viandante e le statue, con uno strepitoso saggio sul personaggio dannunziano, le poesie del Don Giovanni ammalato…).

«Il barocco emana da sé un radicale ampliamento dei canoni estetici, un’indiscriminata accettazione dell’apparenza. Quel suo straripare dai canoni rettilinei, quella sua infatuazione per parabole ed iperboli, quella sua ornamentazione agglutinata di sarmenti, di viticci, di nasse, di raggi transveberanti, di genii o di teschi, quelle sue cupole a spirale dove traspare qua e là la sagoma del tempio orientale, attestano la volontà di comprendere Iddio nell’infinità dei suoi modi, una volontà non diversa da quella che protende i suoi pinnacoli concettuali nel De Infinito, Universo et Mondi di Bruno o nell’Ethica di Spinoza. Il barocco architettonico e plastico procede alla riabilitazione di tutte le forme, al censimento di tutte le credute irregolarità o aberrazioni. È la mobilitazione di tutte le apparenze mondiali, compresi i cadaveri e i mostri. La natura e l’animalità, fino allora sottoposte a rigorosa quarantena, irrompono in massa. La pampa e il deserto, le cordigliere rocciose e le costiere oceaniche, la fauna selvaggia, i primitivi giganti dagli smisurati bicipiti forzano il tempio, già aristocraticamente selettivo come un teatro palladiano, della figurabilità. Quella fiera campionaria di mostri, di fiere, di centauri, di sileni, di colossi mitologici, dalle schiene traboccanti di pigmenti, quegli inarcamenti di groppe e di addomi stanno ad indicare nella pittura di Rubens, come nella prosa di Bruno, l’approssimazione del ferino al Divino, e viceversa.

L’epoca del Cavaliere

[Bernini] si professa disperato di raggiungere i Greci, si atteggia ad imitatore mentre è veramente il genio dell’immaginazione che mobilita tutto il magazzino delle sue risorse. Non gli bastano i corpi. Mette a contributo l’elemento ondoso, gli sciacquii della luce, fa entrare nella sua giurisdizione i vortici delle fiamme e le ondulazioni dell’etere, gli inturgidimenti della morte e gli sfioccamenti della spuma. Le sue fontane monumentali sono capricci naturali dove stanno in bilico quadrighe solari, cavalli natanti e colate e cascate di marmo divallano, e tripudi muscolari accerchiano i geroglifici degli obelischi […]. Il mondo di Michelangelo è un mondo austero: i suoi personaggi esprimono grandezze imperiose e legislative, comminano sanzioni e intonano versetti biblici. In Bernini l’immaginazione adora se stessa in una sorta di impersonalità scintillante, in un galleggiamento oceanico di tutte le apparenze e di tutte le forme.

La Controriforma è una grandiosa riconquista del mondo attraverso la taumaturgia dell’arte. Nei primi decenni di quest’epoca soprattutto, arti plastiche, eloquenza, musica, regìa spettacolare, vengono precettati ad majorem Dei gloriam. Germania, Olanda, Scandinavia non producono che commentari irosi, sillogi giuridiche, controversie o trattati delle rivoluzioni. […]

Duro è l’urto della magnificenza italiana contro quella che Bruno qualificò la ‘ribaldaria’ e cioè la mutria aggressiva protestante. È una suprema mobilitazione degli dèi e mostri, un sistema di fortificazioni delle montagne classiche, dell’Elicona e del Parnaso, ribenedette di incenso e di benzoino, contro il rigore della scienza. […]. Descartes, pur confessandosi cattolico, si allinea coi Bilderstürmer, coi rovesciatori di immagini. È forse questa la frattura del Rinascimento. La meccanica celeste surroga nel dominio degli spiriti il panpsichismo pagano. Egli vive in un mondo senza immagini, in un mondo di parallassi, di sezioni coniche di spirali, di rondelle e di particelle bislunghe […]. Prima di Wagner, Bernini ha concepito una sorta di cooperazione magica di tutte le arti: le negromanzie di Bayreuth sono state anticipate in grande scala da certi suoi monumenti (come nel grande concerto fluviale di Piazza Navona) i quali sono rocce e bacini, caverne e cascate rifabbricate dall’arte. […] Roma diventa così una serie di convegni mitologici, di grovigli spettacolari, di girandole e di fuochi d’artificio solidificati.

I diritti dell’immaginazione

Questo mondo monumentale e impressionistico, questa avventura colorata in marmo e travertino, questa mobilitazione di divinità, di obelischi, di gravitazioni statuarie e di frontespizi ellittici – è quanto l’Italia e la Controriforma hanno opposto alla critica biblica e alle controversie del diritto ecclesiastico. Alla vita come ragione si contrappone una immensa e ilare spettacolarità. Roma diventa una centrale di meraviglie immaginative e di magie sincretiste. […] Ciò che rende affascinante per gli stranieri il cattolicesimo dell’epoca del ‘Cavaliere’ e di Urbano VIII, ciò che determina il flusso delle conversioni dei protestanti olandesi e tedeschi è questa solidarietà del Verbo Cattolico con l’architettura, con le arti e con le umane lettere.

Il Romanticismo, in numerosi suoi esponenti – Novalis, Schlegel, Schelling – cattolicizza. […] Buon numero degli scrittori pre-romantici guardano all’Italia come a una terra d’elezione. […] Potremmo dire che Cristina [di Svezia] presenta, in pectore, Le Génie du Christianisme (cioè la sua apologia autorizzata dai diritti dell’immaginazione), come in lei sono presentite tutte le apologie disingannanti dell’illuminismo. L’orrore da Cristina professo per i ‘predicanti’ riformati diventerà ai primi dell’Ottocento, l’insofferenza dei poeti e ideologi romantici per le disseccate analisi del pensiero, rinvilito a sensazione trasformata che i monotoni procedimenti dell’‘ideologia’ ricondussero alla religione o, quantomeno, a un dialettismo religioso di tipo di quello di Hegel».

martedì 6 marzo 2012

La prosa di un santo

~ QUANDO ELÉMIRE ZOLLA PRESENTAVA PADRE PIO AI COLTI
E CRISTINA CAMPO NE CONVERSAVA CON DJUNA BARNES ~

Il 18 gennaio «Almanacco Romano» pubblicava una lettera di Giuseppe De Luca a Giovanni Papini sul suo incontro con padre Pio da Pietrelcina. Vi si leggeva una bella distinzione tra l’intelligenza comune e quella dei santi. Convochiamo stavolta un altro letterato, uno ‘studioso di religioni’ che non nascose un contorno sulfureo ma capace di sottrarsi alla demagogia dominante, Elémire Zolla. È cosa nota che il santo più acclamato del nostro tempo susciti l’avversione degli intellettuali, anche di quelli inclini ai dialoghi con i cattolici, anzi soprattutto di quelli che affollano i ‘cortili dei Gentili’. La loro mezzacultura tronfia si scandalizza per la semplicità antica del frate e condanna la paccottiglia che lo rappresenta nella mass culture, per poi adorare il Kitsch laico nell’industria culturale e nei musei del contemporaneo. Invece la più elegante tra i letterati italiani, colei che reintrodusse la cinquecentesca sprezzatura, Cristina Campo, ripeté molte volte e con amore il nome del santo nelle sue lettere. Così l’epistolario che è stato accostato a quelli di Tasso e Leopardi, per collocarlo quindi tra i massimi della nostra storia, racconta di guarigioni dovute al «frate taumaturgo», parla di raccomandazioni di malati allo stigmatizzato o di spiegazioni come questa: «… le preghiere che Padre Pio talvolta non riusciva a offrire per le persone più care: ‘segno che Dio chiedeva loro maggiore pazienza’…»; quando le sue interlocutrici erano in particolari difficoltà mandava loro le popolari immaginette, i «santini» che più irritano le persone colte. Addirittura in una lettera a Djuna Barnes, eroina della Festa mobile parigina, formidabile autrice di Nightwood, poetessa americana nella torre d’avorio della sua vecchiaia, confidò del cappuccino di San Giovanni Rotondo: «Uno staretz taumaturgico e stigmatizzato con il dono della profezia». E probabilmente fu Cristina Campo a sottoporre a Zolla lo scritto del frate che uscì sulla rivista «Conoscenza religiosa», nel numero 1 del 1970.

Tratto da fogli sparsi che componevano una lettera di padre Pio a un devoto, ebbe un titolo redazionale, Breve trattato sulla notte oscura, e una nota di Zolla che lo presentava come l’«ultimo taumaturgo e mistico cristiano». Aggiungendo subito dopo parole che umiliavano i letterati del tempo, alle prese con gli effimeri gingilli contestativi (e altrettanto umilia i nostri contemporanei che si confortano con gingilli apologetici della ricchezza): «È mancata la forza di un Dostoevskij a cogliere qualcosa della straordinaria ‘discesa del divino’ nell’umano cui si assistette per decenni in un villaggio di Puglia». Zolla non entra nelle questioni teologiche e meno che mai distribuisce patenti di santità, si limita a un giudizio letterario su questo inedito ‘padre Pio scrittore’: «la descrizione della purgazione sensibile e intellettuale è un pezzo classico di teologia mistica». Lo avvicinava così, anche nel titolo, al più classico degli autori mistici, Giovanni della Croce.

Anni dopo, rilascerà una intervista, Il mistico venuto dal Seicento, uscita nel volume Lacrime e sangue, in cui testimonia: «A quel tempo dirigevo una rivista, ‘Conoscenza religiosa’, dove pubblicai un saggio di Padre Pio che mi parve meraviglioso. Era scritto alla maniera dei grandi mistici del Seicento, ovvero si basava sull’interpretazione tipicamente cattolica dell’Antico Testamento. Ci sono passi impenetrabili a una mente comune, che venivano usati come repertorio di espressioni per indicare gli stati mistici, quasi ineffabili. Tutti i profeti erano utilizzati in modo perfetto da questo monaco semplicissimo, pressoché analfabeta. Usava alcune espressioni per indicare le modificazioni della psiche che avvengono a un grado molto assottigliato di allenamento. Mi parve un vero capolavoro, una rievocazione del Seicento».

domenica 4 marzo 2012

Il pane di Berlino

~ CONTRO IL LAVORO DOMENICALE ~

«Ma vi immaginate in una capitale europea, che so a Londra o a Berlino, trovare chiusi i negozi la domenica e restare senza pane fresco…». Qualche settimana fa, gli ascoltatori di Radio Tre si svegliarono con un questa frase: un gazzettiere veneto, specializzato in scandalismo, dai microfoni pubblici esortava in diretta con il suo accento cantilenante a non tener più conto dei giorni festivi, del terzo comandamento del Decalogo (che nel disegno divino viene prima del settimo, lodato dai perbenisti sensibili ai loro schei), a cancellare il «dies dominicus» che interrompe il sempreuguale pagano, a dimenticare il tempo con un orientamento, un senso, per glorificare l’eterna presenza delle merci. E naturalmente, per rafforzare l’esortazione, il più venduto tra gli autori dei libri moralisti ricorreva ai vecchi modi della propaganda dei Lumi: guardate come fanno in Cina, dicevano i Philosophes, guardate i «paesi normali» dicono adesso coloro che, nonostante i tricolori esibiti in gran copia recentemente, provano orrore per gli italici costumi. Mentivano gli illuministi quando edulcoravano le satrapie cinesi, mente il gazzettiere con le sue capitali senza riposo. Tutti sanno infatti dei particolarissimi orari londinesi dei pub, per esempio, che talvolta risalgono a ordinanze dei secoli passati, la tradizione laggiù non si fa mettere i piedi in testa dagli euroburocrati. Quanto al pane di Berlino, al buon pane nero berlinese, qualsiasi guida informa che nella città sulla Sprea i fornai chiudono alle 4 di pomeriggio del sabato per riaprire alle prime ore del lunedì (anche se da qualche tempo, alcuni negozi vendono pane nel dì di festa grazie all’espediente del selfservice). Oggi, domenica 4 marzo, promossa dalla European sunday alliance, dalle organizzazioni religiose e dai sindacati si svolge in tutto il vecchio continente una «festosa protesta» contro il lavoro domenicale. Come nei canti delle prime leghe operaie: se sei giorni vi sembran pochi…

venerdì 2 marzo 2012

Piccoli fuochi

~ CHI AVVIÒ IL RISCALDAMENTO
DELL’INFERNO NOVECENTESCO? ~

Qualche lettore si è stupito per l’articolo del 27 gennaio: c’est la faute à Artaud per gli inferni novecenteschi sembra dire l’«Almanacco»; perplessi, ci obiettano: davvero tutta colpa di Artaud? Se preferite la chiamata di correo per gli altri suoi confratelli avanguardisti, ascoltate la parola di Franz Werfel, già estremista dell’arte e della politica, che agli inizi dei Trenta si correggeva: «Ho conosciuto diverse forme d’orgoglio, in me e negli altri. Ma poiché, per un certo periodo, io stesso in gioventù ne ho fatto parte, è sulla base della mia esperienza personale che posso confessare di non aver visto orgoglio più divorante, più arrogante, più insultante, della peggiore possessione diabolica, di quello degli artisti avanguardisti e degli intellettuali radicali, gonfi fino a scoppiare per vanità maniaca di mostrarsi profondi, oscuri e di difficile accesso, oltre che di fare male. Sotto le risa beffarde e falsamente indignate di qualche beota, noi eravamo i miserabili incaricati di avviare l’accensione dell’inferno nel quale l’umanità adesso si sta arrostendo» (da Zwischen Oben und Unten).