domenica 22 aprile 2012

Una parola fatidica

~ LA PAURA DELL’«ARTE DEGENERATA» ~

Sul supplemento domenicale del «Corriere della Sera» di oggi, un recensore ci introduce all’ultima opera di Jean Clair, Hubris. La fabrique du monstre dans l’art moderne, con devoti elogi e una critica di fondo: «i mostri non esistono», come recita il titolo dell’articolo, ammonimento rivolto al saggista francese che apparirebbe troppo ossessionato dalle nequizie moderne. Invece a metà dello scritto s’incontra subito uno di questi mostri, che fa molta paura all’articolista. Si tratta di uno spaventapasseri con la svastica che, a distanza di quasi un secolo, ancora impedirebbe di parlare. Leggiamo infatti che Clair non si dovrebbe permettere di pronunciare la parola fatidica, «entartete kunst (sic, senza neppure la dovuta maiuscola tedesca, forse per tentare di spregiarla vieppiù, ndA) o ‘arte degenerata’. Quando s’intraprende una critica del mondo moderno abbinando figurazioni mostruose e malattie mentali, è fatale evocare lo spettro di quella mostra itinerante inaugurata da Joseph Goebbels, dove i capolavori dell’arte moderna, dall’espressionismo al cubismo erano messi fianco a fianco delle immagini degli storpi, degli schizofrenici e di altri esemplari razzialmente ‘impuri’». Il destino dunque prescriverebbe che, avendo i nazisti parlato per primi di «arte degenerata», ci si astenesse dal pensare una simile definizione e tantomeno dal pronunciarla in un pubblico discorso. Come dire che, avendo i bolscevichi inventori dei gulag o gli ultrasanguinari khmer rossi parlato delle nefandezze della forma capitalista, ci si dovrebbe proibire ogni appunto al sistema della mercificazione universale. Semplicemente delirante. Scandalizza anche che una persona colta creda ancora alla favola dell’invenzione nazista dell’espressione «arte degenerata». Ormai pure su Wikipedia riportano il titolo dei due densi volumi dell’ebreo Max Nordau, Entartung (Degenerazione), pubblicati a Berlino nel 1892, «la cui prima mira era mostrare come l’incombente fin de siècle fosse minacciata da un dilagante stato morboso nelle arti e nella cultura in genere, che andava considerato sintomo di degenerazione» (Calasso). E a sua volta, Nordau riprendeva questo convincimento da Cesare Lombroso, anch’esso ebreo, i nazisti non c’entrano niente. Erano dunque tali temi «ampiamente discussi da decenni fra gli europei beneducati» (ancora Calasso). L’accoppiata con l’arte nacque negli ambienti della psichiatria. Ne parla diffusamente Starobinski a proposito della Collezione Prinzhorn, una raccolta dell’omonimo medico, costituita da opere di malati di mente ricoverati in manicomio: a sfogliare i cataloghi, si resta stupefatti dalla somiglianza impressionante con le varie scuole ‘artistiche’ di quei tempi. Ci sono gli espressionisti e gli astrattisti – lo stesso Klee riconobbe in alcune di quelle tele «i migliori Klee» –, i surrealisti, perfino certi collage cubisti. Per degli psichiatri volenterosi si trattava di un dato positivo, un punto di incontro estetico tra ‘sani’ e ‘malati’ (anche se uno di loro mise subito in chiaro che «la malattia non dà talento»), per i surrealisti rappresentava la prova che l’arte non era una faccenda di artisti. Militanze contrapposte. Restava un forte dubbio: che ne è di un mondo in cui la produzione estetica sia interamente consonante con quella uscita dal dolore e dalle allucinazioni delle menti travolte dalla malattia? Nel 1921, comunque, un gruppo di psichiatri della Clinica universitaria di Amburgo, dopo un esame dell’arte in circolazione, all’interno di ricerche sull’idiotismo e il cretinismo, assimilano le opere di van Gogh e di Kandisky a quelle dei folli. Si parla tuttavia ancora di arte. Un’arte malata, analizzata con gli strumenti sempre limitati e poveri della psichiatria. Solo nel 1937 Goebbels rimesterà nel dibattito e copierà la formula, sottolineando l’aggettivo, colorandolo di valore morale, come spesso fanno i politici che trescano con l’etica, e allestirà una mostra demagogica con il medesimo titolo dei medici amburghesi. Ma anche qui, per favore, nessuno schieramento scontato, gli avanguardisti iscritti al partito protestarono con forti argomenti, il dottor Gottfried Benn, sifilopatologo e massimo poeta della Germania dell’epoca, trovava ignobile che il nazismo – in cui ancora credeva – attaccasse le avanguardie che, a sentir lui, erano l’anima del Terzo Reich, in particolare l’espressionismo. Ogni volta che si cita quella mostra itinerante c’è sempre chi gonfia il petto nel parlare di espressionismo perseguitato dalle camicie brune. Si rilegga il discorso in cui Benn lo celebra quale arte veramente germanica, così come difenderà il futurismo marinettiano, «destino della razza italiana», o si scorra l’elenco degli artisti che appoggiano il cancelliere del 1933 e si vedrà quanti pittori espressionisti vi figurano, la maschera libertaria degli avanguardisti sarà allora più confusa, rimbomberà soltanto il nichilismo di fondo. Ricordato questo, si concederà a Jean Clair di parlare dei mostri moderni senza timore delle parole?

Qualche riga più sotto, il bravo recensore insiste con i tabù stesi intorno al nazismo e mette in guardia Clair dall’accostarsi a «Hans Sedlmayr, lo storico dell’arte austriaco, cattolico di simpatie naziste, autore nel 1948 del famigerato Perdita del centro dove l’elemento mostruoso e demoniaco dell’arte moderna era letto come il segno del ‘tramonto dell’Occidente’ e dell’inabissarsi di una civiltà senza Dio». Perdita del centro sarebbe accompagnato da una cattiva fama, tradirebbe simpatie naziste, mostrerebbe assonanze splengleriane, risulterebbe addirittura incline «alla monomania e alla paranoia», tanto che il semiologo nazionale e autore di romanzetti neomedioevali colloca il povero Sedlmayr tra i pazzi, e questo dovrebbe suonare per l’articolista del «Corriere» come un definitivo verdetto. Probabilmente si è fidato del romanziere della rosa senza possedere alcuna conoscenza del libro in questione. Peccato che il pazzo di simpatie nazi fosse un rispettato interlocutore di Adorno, che Verlust der Mitte sia un’opera ‘goethiana’ che doveva segnare la guarigione dagli incubi politici. In Italia colpì a tal punto uno storico dell’arte come Cesare Brandi che in pochi mesi, quasi un'abiura, scrisse La fine della avanguardia, una specie di parafrasi dell’opera di Sedlmayr. Anche il leggendario Enrico Castelli, suggestionato dalle ricerche di Sedlmayr, pubblicò negli anni Cinquanta  Il demoniaco nell’arte, un volume recentemente riedito da Bollati Boringhieri con il plauso generale. Tutti pazzi? Ci si vergogna a tirare fuori le tessere nazional-socialiste nel caso degli Heidegger o degli Jung, ma torna utile l'adesione politica infetta per esorcizzare chi fissa lo sguardo severo nelle produzioni di immagini contemporanee, in quell’apparente gioco.

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