mercoledì 31 ottobre 2012

Aspettando la liturgia celeste

~ MENTRE A ROMA CONFLUISCONO
I TESTIMONI DEL RITO LATINO,
LEGGIAMO UNA SFOLGORANTE PAGINA
DI CRISTINA CAMPO ~

La forma antica del rito romano non è mai stata abrogata, il messale di san Pio V, il messale della cosiddetta ‘messa tridentina’, fu promulgato ancora da Giovanni XXIII esattamente cinquant’anni fa e, «per il suo uso venerabile e antico», dice Benedetto XVI, tale forma del rito romano deve essere tenuta da tutti «nel debito onore». Questo il succo del motu proprio Summorum pontificum che i pellegrini di tutto il mondo in arrivo a Roma festeggiano a cinque anni della sua pubblicazione, festeggiano pregando, in latino naturalmente, con solenni celebrazioni che culmineranno il 3 novembre in una messa pontificale di rito romano tradizionale nella basilica di San Pietro. L’eterna liturgia cattolica risplenderà per tre giorni, ma i suoi fedeli sono ormai una esigua minoranza. Il Summorum pontificum decreta che quel rito è venerabile, non da buttare nella discarica della storia, come pretendeva qualche vescovo di mezzo secolo fa, e neppure da consegnare agli antiquari per il piacere degli esteti, ma concesso ai pochi che ne fanno richiesta superando svariati ostacoli d’ordine burocratico e la diffidenza dei vescovi. Siano rispettati coloro che pregano in latino, dice il papa; ovvero, nell’et et inclusivo del cattolicesimo vengono contemplati anche questi bizzarri, i venerabili nostalgici o fratelli maggiori, leggermente decrepiti (che ne sanno i preti senza memoria della preghiera che apre la messa in latino «Ad Deum qui laetificat iuventutem meam»?); intanto la maggioranza continuerà a partecipare al rito svilito e avvilente («ridicolo» in alcune sue parti lo definirono eminenti porporati). Che si trattenga il sorrisetto, è la raccomandazione papale ai vescovi più modernisti, si usi la pietà cristiana, anche il rispetto, l'onore appunto, verso coloro che pregano come ai tempi di san Gregorio (il revival alla moda del cristianesimo delle origini vale solo per le architetture spoglie). E più o meno così apparirà agli occhi anche dei più benevoli il pellegrinaggio Una cum papa nostro sotto le telecamere incuriosite. Nel corpo della Chiesa la faccenda sarà più dolorosa, ma non troppo. I giovani che affollano la liturgia ‘tridentina’ smentiscono i luoghi comuni, non promettono rovesciamenti di maggioranze e trionfalismi fuori luogo. I manager in clergyman confidano semplicemente nel dogma commerciale secondo il quale la varietà dei riti arricchisce l’offerta. Piccole eresie folcloristiche, per cui il gergo più profano, talvolta truculento come il rock, entra nel sacro, non preoccupano più neppure gli addetti alla difesa della fede. Così la «partecipazione all’immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza», diceva già, con acume, il Breve esame di Ottaviani e Bacci.

Del resto, alla distanza di circa mezzo secolo, risulta maggiormente sbalorditiva, quasi incredibile, la scarsissima resistenza che si oppose allo sconvolgimento della liturgia nel caotico dopo Concilio. In pochissimi anni, il clero e i fedeli della Chiesa universale si arresero alla novità. Eppure quanti di quei sacerdoti e monaci e frati avevano prestato il giuramento antimodernista ed erano stati educati nei seminari dalla Pascendi; quanti dei fedeli cattolici erano stati allevati dal magistero di Pio XII, con l’Index librorum prohibitorum che li avrebbe dovuti tenere al riparo dalle letture progressiste: gli allettamenti satanici della modernità furono più forti. Ci si liberava dal passato, si sperimentava l’eccitante novum nel sacro. Né fu notato allora, se non in cenacoli assediati, che l’ultimo anello dell’Antica Roma – avrebbe detto Hofmannsthal –, e forse di quel che restava della cultura europea, veniva spezzato.

Tra le dispute sgraziate, Cristina Campo seppe spiegare con le parole più precise la tragedia che stava accadendo. La cultura cattolica proliferata in università, accademie, riviste pareva dissolversi o forse non esisteva più da tempo. Cristina invece, non soltanto produsse «la più bella prosa italiana che si possa leggere» (Calasso) – smentendo le povere giustificazioni delle avanguardie che si crogiolavano nelle macerie –, ma negli anni in cui anche i più ispirati dei riformatori sembravano colpire a morte la liturgia, cercò di portare in salvo il deposito sacro ed estetico della tradizione millenaria. Non era una teologa né tentava, come molti fanno oggi, di costruire castelli in aria teologici. Si presentava come cronista di cerimonie impalpabili, miniaturista di liturgie celesti che si riflettevano nelle chiese romane, avviava nobili polemiche, scriveva lettere di esortazione, tesseva i nodi segreti del tappeto della tradizione, rivendicava l’insegnamento paolino, «le donne nelle assemblee tacciano» (1 Cor., 14, 34), ma trascinava poi uomini insigni alla sua santa battaglia. Intrepida come una Caterina da Siena del rito, interlocutrice e amica del responsabile del Sant’Uffizio, l’energica quanto fragile Cristina prestò la penna al porporato per la Breve analisi critica del «Novus Ordo Missae», firmata dai cardinali Ottaviani e Bacci, in realtà composta da lei, assistita da monsignor Guérard des Lauriers, nel giro di poche e tormentate notti (il cardinale trasteverino, il «carabiniere della fede», come era chiamato Alfredo Ottaviani, evidentemente si fidava dell’ortodossia della scrittrice). Né temette di offrire parole di consolazione al vescovo Marcel Lefebvre che per la difesa della «Messa di sempre» fu attaccato con una violenza d’altri tempi proprio mentre si riversavano tolleranza e misericordia verso tutti i più diabolici avversari. Oggi, nei giorni in cui convengono a Roma i fedeli al latino «corazza aurea della Chiesa cattolica», litigiosi, divisi, poco angelici e molto peccatori (ma una volta tanto con la consapevolezza dogmatica di esserlo), grati alla Provvidenza per questa donna che nel silenzio dell’epoca impose con espressioni dardeggianti la voce della eleganza cattolica, rileggiamo insieme le sue Note sopra la Liturgia (tratte da Sotto falso nome, Adelphi, 1998, pp. 129-135).

Note sopra la Liturgia

1. Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. «Beato» dice san Francesco «quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose».

È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi. compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, «come se i fratelli assenti fossero presenti». E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.

In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta «nell’ora dolcissima di Compieta», mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il «delicato giovinetto», «tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo». Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.

La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga, per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione.

Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

2. Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l’«immensa e delicata» liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole-Cristo – Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam.

In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

3. Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell'estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitable che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.

La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: «Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me» – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.

«E l’odore si sparse per l’intera dimora». Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giustamente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. «Ella mi prepara per la mia sepoltura» disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l’«ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d'incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: «Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?».

La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un'operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravita che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

Qui finiscono le Note fiammeggianti di Cristina che assumono un senso speciale in questo triduo che si celebra a Roma intorno alla festa d’Ognissanti e alla commemorazione dei defunti, cioè alla Chiesa trionfante e festante che elargisce le sue indulgenze e alla Chiesa purgante che soffre e si purifica con i suoi fedeli oltre la tomba. Nell’asse del pellegrinaggio si avranno come due fuochi: la basilica di San Pietro e la chiesa delle Trinità dei Pellegrini. Su quest’ultima, fondata da Filippo Neri, dedichiamo ai tanti pellegrini della Missa romana che vi si affolleranno una citazione dal Diario dei fratelli Goncourt. Loro così sarcastici in genere sulle cose religiose, non possono nascondere la sorpresa provata in una visita alla chiesa e all’ospizio della Trinità, il 20 aprile 1867, giovedì santo. «Un indimenticabile quadro», ammettono, descrivendo i membri della Confraternita, tra cui cardinali, principi e gentiluomini, inginocchiarsi e procedere alla ‘lavanda dei piedi’. «Una certa emozione di fronte a tale impietoso richiamo all’uguaglianza. In fondo, la religione cattolica appare una grande fonte di umanità e mi irrito nel vedere delle persone intelligenti, degli spiriti eccelsi, mettersi in ginocchio davanti alla religione disumana dell’antichità. Tutto il tenero, tutto il sensibile, tutto il bello commosso del moderno proviene da Cristo» (Journal, vol. III, 1866-1870). Lo sfarzo romano, la sontuosa liturgia romana sembrava toccare pure i cuori dei Goncourt.
Sulla ‘parrocchia tridentina’ che opera a Roma, si veda anche un vecchio articolo dell’«Almanacco»:

lunedì 29 ottobre 2012

Il dovere della polemica cristiana

~ UCRONIA?  DON GIUSEPPE DE LUCA
PARLA DELLA CHIESA POST-CONCILIARE ~

Questo Almanacco presentò qualche mese fa una pagina di don Giuseppe De Luca, prete, letterato, erudito («Giuseppe De Luca parla di padre Pio» del 18 gennaio 2012), e promise che, approfittando dell’occasione del cinquantenario della sua morte, sarebbe tornato sull’argomento. Eccoci a mantenere la promessa ma, visto che nell’anno già alla fine l’anniversario non ha suscitato grande eco, si prova qui, almeno noi, a sfruttare bene questo genere di pretesti e a moltiplicare il ricordo: saccheggeremo a più riprese il suo ultimo libro, Bailamme, uscito postumo nel 1963 dalla Morcelliana, una raccolta di articoli per l’«Osservatore Romano», sminuzzeremo i suoi pensieri e la sua prosa in varie puntate.

Cominciamo con una celebrazione polemica. È proprio glorificando il dovere cristiano della polemica che il prete lucano se la prende con l’irenismo imperante, con l’«arcadia del buon cuore», con i discorsetti melliflui del clero, con la Chiesa ridotta a scuola deamicisiana, con l’amore liquoroso sempre in bocca nelle prediche. Si dirà: ma questo è il clima post-conciliare ben descritto in poche righe. Eppure il nostro dotto prosatore non vide il Concilio, lasciò questa terra pochi mesi prima della sua apertura, però quel che dice sembra adattarsi perfettamente a quanto abbiamo visto noi che gli siamo sopravvissuti. Una specie di ucronia? Don De Luca, l’amico di Roncalli – fatto raro, anzi unico per quei tempi, Giovanni XXIII uscì dai confini vaticani per recarsi al capezzale di un semplice prete che stava morendo nell’ospedale sull’Isola Tiberina – magnificava l’«arte militare» di Agostino nella guerra santa del Padre delle Chiesa contro i nemici di Roma, ricordava che l’amore sa e deve essere intollerante, esortava al dovere di condannare l’errante: questo almeno si legge nella pagina che riportiamo qui sotto.  Un così battagliero prete avrebbe allora condiviso i discorsi della tolleranza verso tutto e tutti che furono pronunciati dalla cattedra petrina nella solenne inaugurazione della assemblea della Chiesa universale? Si sarebbe entusiasmato per la fine delle condanne? Si sarebbe convinto che, il «sacro deposito» restando immutabile, non fosse il caso di sottilizzare sulle questioni di fede bensì di occuparsi della forma dell’evangelizzazione, convocando un concilio per un problema mediatico? Lui tanto colto avrebbe ritenuto che di fronte alle velenosissime insinuazioni della cultura moderna bastasse rispondere con prediche accettabili dal mondo, attraverso buoni curati che ricorressero a quel gergo moderno? Il nostro autore, sostenitore delle crociate dottrinarie agostiniane, avrebbe mai creduto che «gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole»? O che fosse opportuno per la Sposa di Cristo «usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore»? Finito davvero il tempo delle condanne? Si sbagliava forse sant’Agostino a insistere sul fatto che i rimproveri nascono dall’amore? Naturalmente non possiamo rispondere a simili domande, peraltro assai ardue, ma ciascuno si può fare un’idea della coscienza dell’epoca in un singolare sacerdote che pure voleva scuotere il suo mondo. Sentiamolo:

«La polemica, dai giorni dei giorni, è stata ed è di casa nella Chiesa di Dio. Quelli che si dànno a credere che la vita cristiana consista, o consistesse una volta, in una arcadia del buon cuore, in una collettiva esaltazione di mutua simpatia, di vicendevoli ammirazioni, di candidi e cari madrigali che ci si scambia ammiccando e sorridendo gli uni con gli altri, costoro sbagliano. La Chiesa, e nemmeno la società, non è stata mai la scuola che De Amicis descrisse nel Cuore. La storia del pensiero cristiano per tre quarti buoni è storia di come le verità cristiane vennero difese, in una guerra che non conobbe tregua, ora da nemici aperti e dichiarati, ora da falsi amici, ora e persino da figli che avevano tradito o stavano per tradire. Non tutti i figliuoli prodighi sono sempre tornati, ancorché tutti possono sempre tornare. Scrive sant’Agostino nel 423 a Felicita e Rustico […]:

“I dissensi, non li si deve amare. Se non che a volte nascono per carità o provano la carità. Non si trova tanto facilmente uno il quale pigli in pace d’essere ricoverato. E dov’è quel saggio in cui sta scritto: ‘Rimprovera il saggio, e te ne vorrà bene’ (Proverbi, 9, 8)? Forse che per questo noi non dobbiamo più riprendere né rimproverare un fratello, affinché non si avvii sbadatamente alla morte? […]”.

Torniamo ora alla polemica. Lo stesso san Giovanni, discepolo per antonomasia dell’amore, ha passi roventi, di battaglia asprissima. Chi più intrattabile e intollerante dell’amore? Son ben sue per esempio, e non di san Paolo, come parrebbe, le condanne più recise e strazianti. Non dico san Gerolamo, dico sant’Agostino: percorrete le sue opere complete, per buona metà troverete che son polemica pura.

Non possiamo, dunque, condannare la polemica. Tutt’altro, essa è un dovere. Tutto sta a come la si conduce. Soltanto a raccogliere in una specie di massimario le norme sfuggite a sant’Agostino nel fervore delle sue campagne e delle sue battaglie, si comporrebbe un meraviglioso manuale di arte militare, una istruzione esemplare per il buon combattimento, un vademecum del vero soldato dell’intelligenza cristiana, da far trasecolare. Disgraziatamente oggi i cristiani, non esclusi i preti, ce ne andiamo in discorsi inetti, ora tutti una inutile furia, una scomposta e tribunizia scalmana, ora tutti un brodo di giuggiole, un latte e miele, discorsi che lasciano per fortuna il tempo che trovano. Mi domando, non senza sgomento, che cosa legheremo, noi, alla generazione ventura: dico di pensiero, dico di vita cristiana vissuta a occhi aperti, dico di battaglie combattute e vinte. Che cosa lasceremo di buono a chi vien dopo? È vero che dobbiamo parlare ai presenti, non ai posteri; ma chi parla bene, parla per tutti e per sempre.

Queste son malinconie; meglio strozzarle sul nascere, con un altro passo di sant’Agostino, tratto questa volta dalla sua più torturante polemica, quella coi Donatisti. Non faceva altro che combattere, il caro e terribile Santo; ciò nondimeno, ecco qual era in lui il rispetto della verità. Si trattava di una trita accusa donatista contro il papa Marcellino (296-304), e il Santo scriveva in polemica contro Petiliano:

“E ora, a che serve tornare a detergere ancora una volta i vescovi della Chiesa di Roma dai delitti che ad essi egli imputa, mentre li ricopre di calunnie incredibili? […] Perché dovrei addannarmi a provare la tesi della mia difesa, quando lui non alza un dito per provare la tesi della sua accusa? Ma se c’è posto per un poco di umanità nelle cose umane, io credo che meriteremmo un bel rimprovero qualora, a gente che non conosciamo, ma che gli avversari incriminano, sena peraltro poter dimostrare l’incriminazione con nessuna prova, la reputassimo senz’altro colpevole piuttosto che innocente. […]”.

Combattere quanto dové combattere lui, per tutta la vita, e serbare intatto e delicato a tal segno il senso dell’umanità: ecco una cosa più propria d’un santo che d’un uomo, e d’un santo della tempra d’Agostino, d’un cuore come il suo. San Girolamo, per esempio, e san Pier Damiani non reggevano a tanto. Non avrebbero mentito mai neanche loro, e nemmeno esagerato; ma in loro l’impeto più di una volta fa spavento, lascia perplessi, senza fiato.

Si est ulla humanitas in rebus humanis…, diceva Agostino, invece. Ma c’è poi nelle cose umane, un poco di umanità? guardiamoci in viso, c’è?».

 (da Bailamme ovverossia pensieri del sabato sera, Morcelliana, pp. 146-149)

venerdì 26 ottobre 2012

Il miracolo dell'immagine

~ NUOVE MICRO-MACCHINE FANTASCIENTIFICHE
RENDEREBBERO INUTILE L’ARTE FIGURATIVA. MA… ~

L’altro ieri si è diffusa la notizia che un cubetto grande quanto un ninnolo da tenere al collo (o all’occhiello della giacca come un distintivo) e in grado di scattare una foto ogni trenta secondi senza premere alcun pulsante diverrà un duplicato della nostra memoria, archiviabile sul pc, sempre a portata di mano. Non ci sarà bisogno di ricordare una scena dell’infanzia o di cancellarla (le censure freudiane), basterà ritrovarla con un motore di ricerca. Tutto resterà eternamente consultabile. Già nel mese di febbraio, la micro-macchina fotografica che non si stanca mai e che si chiama Memeto sarà messo in vendita a 150/200 euri; in pochissimo tempo, come accade sempre in questi casi, il prezzo si abbasserà, la tecnologia si affinerà, e la nostra vita, tutte le nostre vite saranno bloccate in una rappresentazione senza tempo.

Subito spuntano amicali, garbate e ragionevoli obiezioni a quanto questo «Almanacco» va dicendo sulla iconoclastia trionfante: adesso non si parla più di semplice inflazione delle immagini, siamo a livelli ben peggiori dei tassi inflattivi della Repubblica di Weimar, anzi la realtà stessa diviene una immagine, vi si specchia, un mare di immagini, ferme o in movimento, come si vuole, tutte comunque paralizzanti la nostra coscienza, la nostra memoria, il nostro gusto. D’accordo – ci dicono allora – sulle miserie del contemporaneo, sulla sua commercializzazione esasperata, sul suo carattere mafioso, come sostiene Fumaroli, sul suo gioco puerile, ma come è possibile davanti a questa trasformazione antropologica del mettere in scena, del rappresentare noi stessi e il mondo intorno, annullando anzi l’esterno (e l’interno), ricorrere alla immagine tracciata alla maniera di Cimabue o di Tiepolo o di Picasso? Quella dose di verismo, che è sempre stato il condimento d’ogni opera d’arte, che senso avrebbe oggi di fronte al doppio perfetto del mondo che queste e altre macchine si propongono?

Una sola contro-obiezione: perché, almeno fino adesso, l’opera d’arte del passato, l’opera d’arte eterna, quella di Cimabue, di Tiepolo o di Picasso, ci tocca hic et nunc così profondamente, ci turba nonostante i miliardi di immagini vuote che ci attorniano, gli iperrealismi, gli onnipotenti e tonitruanti media?

Post scriptum - I giudici della Alta corte di New York hanno deciso che le ballerine di lap-dance della città «non fanno arte». Nonostante le mille vie eretiche che il contemporaneo sarebbe costretto a battere a causa dell’inflazione di immagini nella società dello spettacolo, nonostante la body art e tutte le trovate più capziose cui ricorrono i suoi adepti pur di non raffigurare secondo umani procedimenti, i magistrati hanno sentenziato così, forse per una flagranza erotica che persiste in simili performances e che manca del tutto alle mortifere esibizioni che avvengono nelle gallerie e nei musei. Altri giudici, da noi, decretano quello che devono fare e dire gli scienziati, comminando anni di galera alle ipotesi scientifiche. Triste che siano i magistrati a stabilire quel che è arte e quel che è scienza.

mercoledì 24 ottobre 2012

Finale di comizio

~ BELLOC E IL SINDACO DI FIRENZE ~

Nei partiti italiani se le stanno dando di santa ragione, in quello della sinistra in particolare si combatte la guerra civile delle ‘primarie’, cercando anche di capire se sotto sotto siano un partito ancora di ispirazione comunista o di ispirazione liberale o già senza alcuna etichetta d’altri tempi: una scelta non da poco. L’équipe del sindaco che vuole voltare pagina in una storia vecchia un secolo dimostra di saperla lunga. Così, secondo quel che riportano i giornali, chi prepara i discorsi e l’immagine del Fiorentino in tour fa concludere i comizi con le seguenti parole: «Sono cristiano, sono cattolico, se qualcuno non vorrà votarmi per questo lo ringrazio». Il giovane competitore degli ex, ovvero di chi si incamminò nella carriera politica con i finanziamenti dell’Urss (e se ne vanta), non nasconde la sua fede, non la privatizza secondo il peggiore liberalismo, anzi la rende pubblica in modo baldanzoso. Sarà un puro caso ma il discorsetto è simile nel  succo (fervore a parte) a quello che lo scrittore inglese Hilaire Belloc, l’amico e sodale di Chesterton, pronunciava nei battaglieri comizi durante la stagione del suo impegno politico nel partito liberale, all’alba del ventesimo secolo: «Signori sono un cattolico. Fin quando mi è possibile vado a messa tutti i giorni. Questo [e tirava fuori dalla tasca una corona] è un rosario. Fin quando è possibile, mi inginocchio e recito questi grani ogni giorno. Se mi respingete a causa della mia religione, ringrazierò Dio di avermi risparmiato l’indegnità di essere il vostro rappresentante». Se i trainers del candidato hanno trovato lo spunto per questo finale di comizio nelle pagine di Belloc dimostrano una conoscenza delle spigolature letterarie rara tra i pubblicitari politici. Se invece gli è venuta su dal cuore l’idea di una sfida affine a quella del prode autore dell’Anima cattolica dell’Europa meglio ancora. In ogni modo promettono bene.

venerdì 19 ottobre 2012

Ridestare i padri

~ LA CULTURA DEI BECCHINI E QUELLA DEI SANTI INVISIBILI.
 ~ DUE FRAMMENTI DI UN RUSSO A ROMA ~

Venceslao Ivanov – così semplicemente lo chiamavano e lo stampavano in Italia dove visse una stagione lunga un trentennio –, poeta simbolista, filologo e filosofo che i nostri contemporanei trascrivono dal cirillico con maggior precisione e completezza: Vjačeslav Ivanovič Ivanov (Mosca 1866 - Roma 1949). Timoroso di visitare la città eterna, rinviò a più riprese il viaggio a Roma e, una volta qui, il discepolo ideale di Nietzsche si convertì al cattolicesimo, aprì casa di fronte al Campidoglio (l’aprì davvero a una cerchia italo-russa di eletti) e insegnò slavo ecclesiastico al Russicum, luogo dell’anima di Cristina Campo nel bailamme dell’Esquilino. È sepolto all’Aventino, nel piccolo ‘cimitero degli artisti’ accanto alla Piramide. Papa Karol Magno ricorse più volte a una sua metafora per indicare la Chiesa universale che ha bisogno di due polmoni per respirare bene, ovvero dell’Europa occidentale come di quella orientale, della cultura latina e di quella bizantina.

Ivanov aveva studiato a Berlino con Mommsen la Roma antica, per via di Nietzsche prese ad appassionarsi alla religione di Dioniso, quindi superò il culto bacchico nel misticismo cristiano. Vladimir Solov’ev, il maestro mistico di una generazione, lo influenzò da lontano e gli disvelò Dostoevskij, mentre il filosofo Nikolaj Berdajev lo consacrò come «il rappresentante più raffinato e più universale della cultura russa del XX secolo».

Dopo la Rivoluzione bolscevica, nell’estate del 1920 Ivanov si ritrovò in un ricovero con un amico, Michail Osipovich Geršenzon, uno storico della vita poetica in Russia. Oppressi forse dalla coabitazione forzata, si scrivevano piuttosto che parlarsi e un epistolario, Da un angolo all’altro, come poi si intitolò quella corrispondenza, finì col diventare un libro, tradotto pure in italiano dall’editore Carabba nel 1932 e rivisto dal medesimo Ivanov che padroneggiava la nostra lingua appresa dai versi di Dante. All’interlocutore che si tormentava sui postumi del nietzscheanesimo, sul rifiuto della cultura, sui veleni del decadentismo, sui sospetti dello psicologismo, sulla mistica nichilista della gnosi, Ivanov prospettava un cristianesimo forte, una cultura della grazia, della salvezza, della vittoria sulla morte. Vale la pena riportarne due frammenti. L’«erede di Bisanzio e del Barocco», come lo definirà Averincev (e del Barocco fu mediatrice Roma), ammonisce i disorientati e titubanti di oggi sul ruolo dei padri e della tradizione. Lo sradicamento attuale ha lasciato in ombra anche il suo nome, lo studioso che Martin Buber e Benedetto Croce andavano a trovare reverenti è ormai cancellato dai cataloghi della nostra editoria. Ci si è dimenticati di quell’amico di Roma e per lo più intradotti o introvabili restano le sue opere, tra le quali i Sonetti romani e un Diario romano in versi del 1944 (una mostra burocratica nelle sale della Biblioteca nazionale, foto e riproduzioni di scritti addossati alle pareti esterne di una latrina non sono certo un affettuoso ricordo).

La prima di queste citazioni è tratta da una lettera datata 4 luglio 1920 e affronta il problema della tradizione: «La cultura, nel suo vero significato, per me non è affatto una superficie, senza altra estensione che in lungo e in largo, né un piano di rovine o un campo sparso di ossa. C’è in essa qualcosa di realmente sacro: non è solo il ricordo del volto esteriore e terreno dei padri, ma è pure il continuamento delle iniziazioni da essi raggiunte. È una memoria viva, eterna, che non muore in coloro che si immedesimano in queste iniziazioni. Poiché le ultime sono state trasmesse attraverso i padri ai loro lontani discendenti; e nessun iota delle lettere, una volta nuove, segnate sulle tavole dello spirito umano che è sempre uno, svanirà. In questo senso la cultura non è soltanto monumentale ma anche iniziatrice dello spirito. Poiché la Memoria, sua divina sovrana, fa i suoi veri servitori partecipi alle iniziazioni dei padri e, risuscitandole in essi, comunica loro la forza iniziativa, quella di osare e di procreare cose nuove. La memoria è un principio dinamico: il dimenticare è stanchezza, interruzione del movimento, ritorno a uno stato di relativa stasi».

E riferendosi allo spirito nietzscheano, da cui pure era stato sedotto in gioventù, Ivanov scriveva: «Per lo psicologo ‘l’antico vero’ non è che una vecchia psicologia. Per lo meno tutto ciò che è spirituale e oggettivo viene da lui sospettato come una cosa psicologica e soggettiva. E di nuovo ricordo le parole di Goethe che stimmatizzano una ricerca sterile: ‘con avida mano egli fruga nella terra cercandovi un tesoro, e gioisce trovandovi i vermi’. Non assomiglia ciò al modo in cui il nostro amico nostalgico dell’acqua viva eseguisce le sue inquisitorie psicologiche e denuda la vanità delle ‘speculazioni’ la tirannica presuntuosità di qualsiasi penetrazione nel senso dell’essere, di qualsiasi affermazione teorica o normativa? Bisogna lasciarlo al suo demone: che i morti seppelliscano i loro morti. Io so bene che egli è un credente e mistico a modo suo (alquanto affine al metodo della cosiddetta teologia negativa, o apofatica); ch’egli stesso non è quindi morto affatto: tuttavia la sua opera è mortifera. Prestargli fede significa lasciar penetrare le carie nel proprio spirito: ciò che non diminuisce, beninteso, la nostra ammirazione del suo ingegno, né il nostro amore verso di lui, né la nostra pietà per lui e per la sua vocazione di tragico seppellitore di morti. Noi vogliamo invece credere alla vita, alla Grazia, all’accrescimento dello spirito, agli invisibili santi che stanno intorno a noi, alla schiera sconfinata delle anime in lotta continua per la trasfigurazione spirituale del mondo, e andremo avanti baldanzosi, senza guardare né attorno né indietro senza misurare la strada percorsa, senza ascoltare le voci degli spiriti della stanchezza e dell’accidia, che parlano del ‘veleno del sangue’ e del ‘deperimento delle ossa’. Si può essere gai viandanti sulla terra, senza lasciare la città nativa, e si può diventare poveri in ispirito senza affatto dimenticare la stessa sapienza. […] Qualunque sia il nostro atteggiamento gnoseologico, la linfa vivificante della sapienza ereditaria, degli antichi intuiti, il loro spirito e il loro logos, la loro energia iniziatrice e fecondatrice, aspiriamo tutte queste virtù in noi in nome dell’‘antico vero’ del Goethe! E così, spregiudicati e desiderosi di sapere, come stranieri passeremo accanto agli infiniti altari della cultura monumentale, che in parte giacciono in abbandono, in parte sono rinnovati e di nuovo ornati, fermandoci a nostro piacere, e portando sacrifizi in luoghi dimenticati, se scorgeremo qui dei fiori che non appassiscono , invisibili agli uomini, fiori cresciuti dall’antica tomba»

La seconda citazione è del 15 luglio di quella stessa estate. Vi si parla del ritorno al primitivo, che tutti gli espressionismi del tempo celebravano: «Ritorno alla primitività è tradimento, oblivione, scampo, fuga; è una reazione suggerita dallo sgomento e dalla stanchezza. È insostenibile il pensiero del ritorno al primitivo, altrettanto nella vita civile, quanto nella matematica, che non conosce che l’operazione formale di ‘semplificazione’: la quale consiste in un riportare la molteplice complessità a una forma più perfetta di semplicità. Semplicità come suprema coronante conquista, è superamento di ciò che non è compiuto per mezzo di una definitiva compiutezza, dell’imperfetto per mezzo del perfetto. Il cammino alla desiderata e amabile semplicità passa per la complessità. Essa si raggiunge non uscendo da un dato ambiente o da un dato paese, ma superandosi ed elevandosi. […] È vuota la libertà rubata per mezzo del dimenticare. Coloro che non ricordano il loro lignaggio e la loro stirpe, sono schiavi fuggiaschi, o liberti: ma non nati liberi. La cultura è culto degli avi e, certo, (essa ne è oscuramente conscia, perfino oggidì) un ridestare i padri» (da Corrispondenza da un angolo all’altro, Carabba editore, Lanciano, 1932, pp. 97-101 ; 137-138).