mercoledì 18 gennaio 2012

L'intelligenza dei santi

~ «MIO CARO PAPINI, LE RACCONTO DI PADRE PIO…» ~
Quante vittime della cultura, il totem potentissimo ai nostri tempi, anche nella Chiesa cattolica. Clero e fedeli si genuflettono davanti agli idoli contemporanei che vantano un qualche libro noioso. E non avvertono quanto siano malinconici quei ricami dei neo-gnostici sul cristianesimo, di quella parte colta e fine dell’inteligencja italiana d’oggi, cioè, che civetta con la luce metafisica, senza un po’ di sana fede, di miracoli, di amore. La filosofia sembra non abbia più a cuore la verità. Un prete letterato, don Giuseppe De Luca – di cui nel 2012 appena iniziato ricorre il mezzo secolo dalla morte – sapeva invece distinguere tra l’intelletto e la grazia, senza subordinare questa alla mente come si fa ormai spesso. L’amico di Mario Praz e suo sodale nelle avventure erudite, l’interlocutore cattolico di Croce e Gentile, di avanguardisti e di accademici, lo studioso invaghito dei «pensatori retrivi» dell’Ottocento che poi andava la sera a cena con Palmiro Togliatti (i preti, avvezzi al confessionale, non si scandalizzano dei peccatori, neppure dei più malvagi), si recava in pellegrinaggio sul Gargano a rendere omaggio al frate stigmatizzato che laggiù viveva, in un antro arcaico del XX secolo. Il primo viaggio risale al 1934, quando i mass media non osavano ancora vendere anche i santi, e il clamore che già si levava nasceva da una vicenda incandescente sullo sfondo della civiltà contadina come spesso si legge nelle biografie delle anime elette, ai margini della modernità: don Giuseppe, letterato del Sud attratto dalla storia della pietà, era di casa in quel mondo. Dell’incontro con il cappuccino trattò in due lettere, una delle quali indirizzata allo scrittore italiano forse più noto in quel momento in Europa, Giovanni Papini. Datata 28 ottobre 1934, la missiva si apriva con delle considerazioni sul protestantesimo, sottolineando la colpa soprattutto d’orgoglio di fra Martin Lutero, quindi passava a ricostruire la visita in Puglia al frate obbediente: non usava frasi dolciastre e toni agiografici, non attribuiva particolari virtù umane al povero cappuccino, distingueva anzi tra l’intelligenza mondana e quella spirituale.

«Padre Pio, caro Papini, è un cappuccino malingre [macilento] e ignorante e molto meridionalmente grosso: e tuttavia (badi che oltre a confessarmici ho mangiato con lui e con lui mi son trattenuto molto) e tuttavia ha con e in sé Iddio, quel Dio tremendo che noi intravediamo in fantasia, e lui ha nell’anima, caldissima insostenibilmente, e nella carne che ne trema sempre piagata e ora più ora meno, come sotto raffiche sempre più forti, gemente atrocemente. Proprio ho veduto che cosa sia il ‘santo’, non dell’azione ma della passione: che pratica Iddio. Un uomo di così scarsa intelligenza mi ha dato due, tre parole che io non avrei trovato mai sul labbro d’altri ‘uomini’: e nemmeno (e questo più duro a portare) nei libri della Chiesa. Vere interpretazioni autentiche e definitive di stati d’animo mio: seguite da soluzioni, e quindi risoluzioni. Non è la ‘clinica’ spirituale ordinaria; né c’è, d’altra parte, miracoloso e clamoroso e vistoso straordinario: c’è la ‘intelligentia spiritualis’ che è il dono gratuito di Dio. E c’è una passione, anche umana, per Iddio, caro Papini, che è cosa d’una bellezza e d’una rapinosa dolcezza che io non le dico. Né amore di donna né amore di idee sono nulla di comparabile anche perché son cose che oltre un segno, più o meno vicino o lontano, non vanno: mentre la passione per Iddio, non so come sia, arde e più arde più trova da ardere. Questo ‘sentimento’ d’un Dio e d’un uomo che si sono incontrati così, io l’ho avuto con certezza. E se un certo terrore, una certa superstizione di non offendere con superbie ironiche un possibile santo, in me c’era sul principio; tuttavia avevo ben gli occhi aperti e il cuore, soprattutto, a posto, ché, avido di suo del divino, non mi fregasse. D’altronde, nel ‘caso’ di p. Pio c’è storie molto sporche di preti paesani: e il S. Uffizio non l’ha condannato; soltanto, lo ha posto entro un cerchio di ferro, che non è male – nel nostro tempo volgare – che ci sia e lo difenda da americanistiche pubblicità e concorsi da santuario dei miracoli» (questa e le successive citazioni son tratte dal ricco saggio di Giuseppe M. Viscardi, Padre Pio, padre Gemelli e don Giuseppe De Luca in «Archivio italiano per la storia della pietà», n. 20, 2007). Le sporche storie di «preti paesani» erano quelle che polemicamente andavano raccontando i primi fedeli di san Pio per rendere pubblici i motivi delle persecuzioni del loro frate; la «americanistica pubblicità» sembra profezia di quel che accadrà in seguito, quando l’universo réclamistico parlerà a suo modo del miracolo nell’epoca della tecnica.

Nell’altra lettera, rivolta al fondatore della editrice Morcelliana di Brescia, don Giuseppe confessava: «… datamisi l’occasione d’un amico generoso l’ho accompagnato da p. Pio, uomo di Dio. L’ho amato subito, non senza sorpassare le punte di esitazioni, sospetti, incertezze: e lui, così mi sembra, anche lui mi vuol bene. Caro Minelli, che cosa terribile un santo! Non è del tipo attivo, come don Bosco ieri, don Orione oggi; è tutta una povera pasta di sofferenze, una materia di dolori. Lei sa che ha le stimmate: ma le sue stimmate innascondibili sono nell’occhio, d’una abbagliante luce, nel volto pallido e bruciato da una febbre oltremondana, nella povera persona fiacchissima e percorsa sempre da un brivido terribile, dal pensiero di Dio. In nessuno mai ho visto così presente e ‘crudele’ Iddio, ‘qui proprio Filio suo non pepercit’. Io gli misi nelle mani l’anima mia, mi ci confessai – già, c’è chi mi dice incredulo: ma incredulo sono nella loro fede, non nella fede –, e sono rivenuto stamani ancor più fermo nella mia forza. Non senza, ieri, essermi incontrato da Laterza a Bari, con B. Croce, e discusso sopra alcune idee del mio Voltaire».

Più di vent’anni dopo, a un prete suo confidente don Giuseppe scriverà ancora su questo santo particolarmente inviso agli intellettuali snob di oggi, essendo un protettore dei corpi nell’èra della virtualità, un taumaturgo che scompagina l’idolatria della scienza: «Avere amico dal 1931 un amico di Dio talmente amico di Dio e mio, è forse la cosa di cui più mi vanto, certo è quella di cui più mi compiaccio e giovo».