martedì 28 febbraio 2012

La paura del treno

~ L’ANTIMODERNISMO CONFUSO
DEI NEMICI DELLA VELOCITÀ ~

Coloro che in una valle alpina vanno all’attacco confuso della modernità dovrebbero conoscere il racconto, incompiuto, di Hermann Broch, Il romanzo della montagna, dove arcaici montanari e moderni speculatori politici preparavano in perversa complicità una pozione velenosa, mortale. Si inebriavano quindi con un cocktail fatale di estremismi laddove si richiedeva lo sguardo sobrio e acutissimo per leggere le astuzie moderne. Lo scrittore austriaco concepì questa trama alla vigilia degli stermini europei: una specie di satanico contagio distruggeva le ultime stille della saggezza tradizionale. Soltanto un’affinità con le vicende attuali: della potenza tecnologica e dei suoi sottili inganni dovrebbero essere consapevoli anche i più intellettualmente pigri; appena una parodia le guerricciole luddiste di oggi.

Forse distenderebbe gli animi anche il sapere che i treni apparvero minacciosi già agli albori della corsa progressista. Non a caso il «mostro d’acciaio» era l’immagine più vincente del capitalismo e il conte Cavour, con ottimismo liberale, affermava: «La macchina a vapore è una scoperta che si può solo paragonare, per la grandezza delle sue conseguenze, a quella della tipografia, o ancor più a quella del continente americano […]. L’influsso delle ferrovie si estenderà su tutto l’universo». Avvento della globalizzazione. La macchina a vapore era quella che correva come un cavallo magico e meccanico ma che nello stesso tempo opprimeva i nuovi schiavi nell’inferno delle fabbriche. Il mondo venne avvolto rapidamente dalla rete ferroviaria, e la forma del viaggio cambiò. Victor Hugo scriveva: « Ho fatto ieri il viaggio da Anversa a Bruxelles e ritorno […]. La velocità è inaudita. I fiori ai bordi del campo non sono più dei fiori, sono invece delle macchie o meglio dei raggi rossi o bianchi; non ci sono più punti, ma solo dei raggi; i campi di grano sono delle grandi capigliature bionde; le lucerne sono lunghe trecce verdi; i borghi, i campanili e gli alberi danzano e si mescolano follemente all’orizzonte; di tanto in tanto un’ombra, una forma, uno spettro appare e sparisce come un lampo accanto alla portiera; è una guardia ferroviaria. La sera, al ritorno, cadeva la notte. Ero nella prima vettura. La locomotiva fiammeggiava davanti a me con un rumore terribile, e grandi raggi rossi che coloravano gli alberi e le colline, girando con le ruote». Ma non si trattava soltanto di percezioni, di immagini impressioniste che presto diverranno dei quadri. Né soltanto dei «concetti elementari del tempo e dello spazio [che] hanno cominciato a vacillare» (Heine). I romantici partivano all’attacco della ferrovia, gridando contro la «volontà d’acciaio» (von Arnim) che faceva violenza alla natura. Wordsworth si rivolgerà alle montagne: «ora per vostra vergogna, una Potenza, la sete del Denaro / che governa sulla Gran Bretagna come una stella malefica / vuole che la vostra pace, la vostra bellezza siano vendute, / e che una strada venga aperta perché il suo carro trionfale / possa stringere le vostre braccia attraverso gli amati recessi!». I poeti rimpiangono «il piede vivo del cavallo sul selciato» (Vigny) e non si lasciano consolare dalle nuove comodità. Il treno è il nemico della natura. Gli illuministi hanno «appiattito il mondo» (Musset) con le loro macchine semoventi. «La belva di ferro ribolle come un vero temporale» scrive il poeta tedesco Justinus Kerner. Il nemico è la velocità.

Ruskin arriverà a organizzare e capeggiare in Gran Bretagna un movimento che si opponeva ai treni. In una immagine plastica collocava una di fronte all’altra la stazione ferroviaria con i suoi riti industriali e la cattedrale gotica con il suo culto: una polo della falsa collettività, l'altra della vera. In molti sottolineavano il rumore e il fischio lacerante del treno che entrava nelle orecchie degli umani in cambio del risparmio di tempo. I detrattori della ferrovia hanno lasciato un lunghissimo repertorio abbastanza monotono, va detto, cui si contrappone un elenco altrettanto lungo dei celebratori della religione della velocità che stringe insieme popoli e città. Alcune delle citazioni riportate sono tratte da un ricco volume antologico di Remo Ceserani pubblicato da Marietti (poi riedito da Bollati Boringhieri), Treni di carta, che a sua volta riprende lo studio di Marc Baroli, Le train dans la littérature française e numerose opere simili sorte nei vari paesi dell’Occidente. Un giorno, nel 1851, le lamentazioni letterarie entrarono nel Parlamento britannico e un deputato disse in aula: «L’intero paese sarà attraversato e spezzettato da strade di ferro. Dovunque ci sarà un villaggio o un sentiero per le mandrie un mercato o una manifattura, ci sarà una ferrovia, gli oggetti fisici e i diritti privati saranno fuscelli di paglia sotto le ruote del carro del Re del Fuoco. Le montagne saranno tagliate e bucate; le valli livellate; i cieli scalati; la terra si riempirà di tunnel; si farà irruzione in parchi, giardini e terreni ornamentali; la locomotiva dal fischio stridente porterà il caos della città nei recessi silvani della vita pastorale; treni madidi di vapore penetreranno le solitudini finora intatte delle rovine antiche; le locomotive fischianti correranno sulle cime delle case». L’immagine finale potrebbe esser tratta dalla glorificazione futurista come dalla apocalittica laica che ogni giorno moltiplica le sue minacce e i suoi fedeli.

In un’apologia della bicicletta, anzi in nome della «sensazione dolorosa del viaggio» e contro la velocità che trasporta gli umani fluidamente, facendo dimenticare la realtà della distanza spaziale, Alfredo Oriani chiedeva al lettore: «Che importa se il vagone percorre la campagna più rapido del vento, sfondi le montagne, si fermi a tutte le città e ne riparta; se in pochi giorni possa toccare gli opposti confini di un continente e potrebbe forse in meno di un mese compiere il giro dell’Equatore? Dentro i suoi giganteschi cassoni l’uomo non è più di una merce […]. Egli non saprà mai nulla dei paesi attraversati e non avrà probabilmente corsa tutta la terra che per vedere la stessa capitale a ogni migliaio di chilometri, incontrando nel vestibolo del medesimo albergo gli stessi visi di camerieri e viaggiatori» (Bicicletta, Zanichelli). Era il 1902, quando l’antipositivista Oriani scriveva queste righe, ormai le critiche di destra e di sinistra al progresso si incrociavano. Pochi anni dopo, il fascismo si impadronirà dell’opera di questo scoppiettante letterato romagnolo che aveva già lasciato il mondo. Dall’altro estremo, anche Gramsci gli rendeva omaggio. Il treno, l’immagine mobile del moderno, ancora una volta stava molto a cuore ai politici.

Abbiamo dimenticato questa battaglia contro la ferrovia dal momento che essa è divenuta paesaggio quotidiano, un'abitudine antica ormai. Nessuno sembra mettere in discussione il treno, anzi la sinistra in particolare ha fatto una bandiera della strada ferrata – organizzata, collettiva, pubblica e per lo più statale – contra l’individualismo selvaggio dell’automobile. Ma nella crisi finale della destra e della sinistra, smarriti tutti, davvero disorientati tra il passato e il futuro mitizzati, risultano delle vittime della modernità dispiegata che si è sostituita a Dio.