sabato 24 marzo 2012

Sir Bacon docet

~ UN’ALTRA MODESTA PROPOSTA
DELL’«ALMANACCO» ~

«Mi piacciono i contadini perché
non sono abbastanza istruiti da essere imbecilli»
MONTESQUIEU

Impazza da un mese la raccolta di firme sotto il «Manifesto per la Costituente della cultura», ovvero per la promozione di un carrozzone burocratico, come si diceva un tempo, dove allestire chiacchiere infinite. Promosso dal «Sole-24 ore», giornale della corporazione degli imprenditori, è naturale che riscuota successo: in tempo di crisi e di confusione, qualsiasi ricetta prometta una salvezza e soprattutto qualche quattrino ottiene credito, comunque interesse, anche quella dunque della «cultura necessaria allo sviluppo», del «volano», della «risorsa», secondo i termini fissi di una fantasia povera. Sai che scoperta, il capitalismo è nato prescrivendo una cultura nuova e a sé asservita, facendo fuori millenni di fantasie e magie, saperi ‘inutili’ e piaceri, il microcosmo che si specchiava nel macrocosmo, le analogie, le corrispondenze, la concezione vitalistica dell’uomo, la sintesi tomistica che fondeva l’universo, il Cielo e la Terra, l’idea unitaria per cui lo spirituale era il carnale... Francis Bacon, cancelliere del sistema economico che si andava affermando, coniò una parola d’ordine travolgente: «sapere è potere». Singolare che anche molti marxisti firmatari abbiano dimenticato tali passaggi e si ritrovino beati tra le beghine dello spirito, deferenti verso una parola-feticcio. Possibile che non si capisca come una cultura che serve a moltiplicare i soldi, che alimenta il progresso economico, che vivacizza le finanze sia assai diversa da quella della tradizione, e più che mai diversa da quella protetta dai signori rinascimentali? Signori, infatti, nella loro unicità e magnificenza mondana, non l’astratto potere del capitale e il misero gusto dei suoi impiegati: non c’è bisogno di aver letto Max Weber per intuire l’abisso che li separa.

Di fronte al binomio cultura-Pil, arte-Pil, musei-Pil (che è quanto di più nauseante sia dato concepire), concedendo pure che qualcuno ricorra a simili accoppiate soltanto per catturare consenso, alla maniera delle vecchie tecniche da oratorio, quando si prometteva la partitella per portare i ragazzi alle funzioni liturgiche (ma davvero si pensa ai signori della finanza come fessacchiotti manovrati dai poeti?), non ci resta che avanzare un’altra modesta proposta, come tutte le altre naturalmente senza esito.

Che ai prossimi concorsi per pubblici funzionari nei settori che più facilmente si prestano alle eccitazioni dei manifesti, all’orgoglio di casta (intellettuale, ça va sans dire, anche se spesso si tratta di semplici decoratori della vita industriale), si preveda un apposito scritto, un temino, così titolato: «Provi il candidato a spiegare e commentare la frase di Adorno e Horkheimer “Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura”». Magari, onde non fare un’ecatombe di concorrenti, si aggiunga a parte che Theodor W. Adorno e Max Horkheimer erano due filosofi ebrei e a modo loro marxisti, niente a che vedere con il nazional-socialista Baldur von Schirach che amava affermare «quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola» (celebre battuta spesso erroneamente attribuita a Joseph Goebbels).