giovedì 5 aprile 2012

Una predica bizantina

~ LA MEDITAZIONE DI UN PROFESSORE RUSSO
SUL VENERDÌ SANTO DELLA STORIA ~

Durante la Settimana santa, in quasi tutte le nuove chiese – gli hangar in cemento armato, i contenitori per masse anonime, i templi della mistica di fabbrica – non velano le immagini, non interrompono il suono dell’organo, non legano le campane. Vi regna il sempre uguale, anche nella liturgia. Il tempo penitenziale impone una provvisoria messa tra parentesi di quanto ci anticipa le visioni e gli ascolti paradisiaci, una transitoria perdita dei sensi che prepara la loro glorificazione pasquale, ebbene questo intervallo, questo passaggio nelle tenebre è estraneo ai loro poveri fedeli. O meglio, la penitenza in tali chiese e liturgie è inflitta tutto l’anno: le orripilanti immagini, gli insulti sguaiati alla forma, le canzonacce intonate al posto della musica sacra, le campane elettroniche sono una perenne flagellazione dei sensi. Ma le vessazioni massime restano le omelie che riecheggiano i giornali, le prediche che anche in queste ore supreme dell’anno liturgico ripetono i luoghi comuni dell’attualità: gli altri, i migranti, le tasse, il lavoro dei più giovani… Spesso i preti dimenticano che la Chiesa non ha altro da offrire al mondo che il suo Resuscitato. E non si sente proprio bisogno di un’imitazione clericale dei toni mondani (risulta peraltro assai ridicola). Per riflettere allora su considerazioni più adatte al Venerdì santo abbiamo pensato a un antichista russo, Sergej Averincev (1937-2004), che pur costretto a vivere nell’epoca, a dir poco pedestre, di Brežnev, seppe raccontare con erudizione e passione uniche nel nostro tempo lo scandalo della croce nel mondo aristocratico del paganesimo. Dalla mirabile raccolta di saggi, uscita anche in italiano una ventina di anni fa, L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina (a cura di Giuseppe Ghini, Il Mulino), riportiamo alcune pagine su quel singolare grido di dolore che in nessuna tragedia greca fu mai presente.

«L’Antico Testamento è un libro in cui nessuno si vergogna di soffrire e di gridare il proprio dolore. Nessun pianto nella tragedia greca conosce immagini e metafore del dolore così fisiche, così ‘viscerali’: nel petto dell’uomo il cuore si cela e si riversa nel ventre, le sue ossa si scuotono, e la carne si attacca alle ossa. Questa è la concretissima corporeità dei dolori del parto e dei dolori della morte, corporeità che ha il sapore del sangue, del sudore e delle lacrime, corporeità della carne umiliata; ricordiamo la ‘nudità della vergogna’ (’erjah šeth) dei prigionieri e dei futuri schiavi i cui parla Michea. In generale la percezione dell’uomo espressa nella Bibbia non è meno corporale di quella antica, con la sola differenza che in essa il corpo non è il portamento ma il dolore, non il gesto ma il tremore, non la volumetrica plastica dei muscoli ma gli oltraggiati ‘recessi del cuore’; tale corpo non è contemplato dall’esterno, bensì percepito dall’interno, e la sua immagine è composta non dalle impressioni degli occhi ma dalle vibrazioni delle ‘viscere’ umane. È l’immagine di un corpo sofferente, di un corpo straziato nel quale, tuttavia,vive il calore ‘carnale’, ‘viscerale’, ‘cordiale’ dell’intimità, calore estraneo allo statuario corpo dell’atleta ellenico che fa mostra di sé. […] [Negli esicasti] il respiro che viene a mancare per tanto sentire e può celebrare Dio, e ancora più il cuore che trema di terrore e gioia e a volte diventa come morbida cera che si fonde, il cuore, ricordato nei libri dell’Antico Testamento 851 volte: sono questi i più importanti simboli della concezione biblica dell’uomo. Tra questi simboli deve essere segnalato ancora il ‘ventre’; anzitutto, naturalmente, è il ventre materno che partorisce nel dolore (rehem), il quale si presenta nella semantica biblica come sinonimo di ogni grazia e misericordia (blago-utrobija [buone viscere], come nella Bibbia impararono ad esprimersi i bizantini e dopo di loro gli slavi battezzati dai bizantini): la simbolica dell’amore materno ‘caldo’ e ‘viscerale’ tanto caratteristica della cultura ortodossa bizantino-slava quanto estranea all’antichità, proviene dall’Antico Testamento, sebbene sia stata trasformata in modo sostanziale nell’immagine della maternità virginale della Madonna. […] Ma, accanto a tutto questo, il ventre è in generale l’immagine della tenera, sensibile, dolorosa assenza di difese davanti alle percosse. Il Libro dei proverbi di Salomone riferisce di percosse che penetrano nei ‘recessi delle viscere’.

[…] La lacrimevole compassione che abbraccia tutto il mondo, intesa non come emozione temporanea, ma come perenne condizione dell’anima e per di più come cammino di esaltazione, di ‘assimilazione a Dio’, è un ideale assolutamente estraneo alla cultura antica. […] Le lacrime sono appropriate all’animale, alla creatura tremante, ma solo il riso è appropriato alla divinità. Per contrasto si potrebbe ricordare l’affermazione cristiana così spesso ripetuta, e cioè che Cristo piangeva e mai non rideva […]. [Per gli antichi] lo scopo della vita è la libertà dal dolore, e la maggiore libertà dal dolore è data dalla morte. Raccontano che gli spettatori delle lezioni di Egesia si affrettarono a mettere in pratica il suo insegnamento, così che le lezioni furono proibite per ordine di Tolomeo Filadelfo; se ciò è inventato, non è inventato male: l’insegnamento del riso trapassa infatti organicamente nell’insegnamento al suicidio.[…]

Come cosa l’uomo si trova nelle mani del Creatore, come argilla in mano al vasaio; ma in quanto non è una cosa l’uomo sta di fronte al Creatore come partner di un dialogo. L’autorità di Dio sull’uomo si esprime non come silenzioso impiego di una cosa, ma come ordine espresso verbalmente in ‘comandamenti’, da una volontà a un’altra volontà; e appunto per questo l’uomo può disubbidire. Adamo è onorato dalla ‘immagine e somiglianza con Dio’; ma, a differenza degli esseri naturali che non possono perdere la loro immagine non-divina, non-simile-a-Dio all’uomo è data la possibilità di distruggere con le proprie mani la somiglianza a Dio. […]

È assai importante il fatto che la venuta di Dio nel mondo degli uomini nell’interpretazione del simbolo di fede niceno-costantinopolitano non sia semplicemente una ‘incarnazione’, cioè una materializzazione, ma precisamente un ‘inumarsi’, un’assimilazione della natura psico-fisica dell’uomo; e che dopo la resurrezione e l’ascensione di Cristo tale natura attraverso il suo indissolubile legame ‘ipostatico’ con la seconda persona della trinità risulti assimilata alle profondità della vita intradivina. […] Se Cristo è Dio-uomo ‘per natura’, ogni cristiano è potenzialmente Dio-uomo ‘per grazia’, e prima in quest’ordine è Maria Vergine, nella cui persona la natura umana, insieme ai suoi aspetti più corporei (quali la realtà ‘viscerale’ della maternità, che occupa un posto così importante nel sistema figurale-simbolico della poesia sacra bizantina), ascende al di sopra dell’incorporea spiritualità degli angeli […]. È proprio nella tradizione cristiana che per la prima volta appare il termine ‘superuomo’, che avrà poi un così strano destino. […]

Per il ristabilimento della dignità regale dei discendenti di Adamo era necessaria la venuta e la morte in croce di Cristo, cioè l’evento che fa appello ai più profondi sentimenti dell’uomo e che avanza a questo stesso uomo le più incredibili richieste, dato che questi è stato ‘comprato’ a così ‘alto prezzo’. […] La sua presente condizione per quanto dignitosa, non può non essere considerata dal cristiano come vergognosa, essendo costretto a misurarla con il metro dell’assoluto: ogni suo merito è finito nel mentre che la colpa è infinita. Il cristianesimo istruisce l’uomo a concepire il proprio corpo come tempio di Dio, e il più grave motivo di lamento è che questo corpo sia ‘tutto profanato’. Il cristianesimo inculca nell’uomo l’idea che egli è portatore dell’immagine di Dio, e quali lacrime basteranno per piangere l’umiliazione di questa immagine?».