domenica 2 settembre 2012

Il sindaco

~ L’OMETTO CON LA FASCIA TRICOLORE
CHE NON RIUSCIVA A SCONFIGGERE L’ETERNITÀ ~

 Un lettore che vuole restare anonimo ci invia questo scritto. Naturalmente ne condividiamo lo spirito.

Il sindaco della mia città è un parolaio (non si frequenta invano il parlamento) che si mangia le parole. Non è efficiente né riveste un po’ di dignità come vorrebbe l’ufficio che ricopre e la stanza che occupa con affaccio sul Foro romano, neppure una punta di eleganza nell’eloquio, soltanto un’agitazione frenetica che lo rende buffo. È l’immagine triste di un politico d’oggi. Spesso parla intorno a questioni assai difficili ma non sa fare funzionare nemmeno gli autobus. Preferisce proporsi come un futurista in ritardo di un secolo, fino a qualche anno fa aveva anche un assessore che propagandava il culto di quei signori velocisti: per simile passatismo (la devozione nei confronti di un’avanguardia d’altri tempi), i sodali di Marinetti con le loro furibonde maniere li avrebbero maltrattati tutti e due e magari sarebbe volato pure qualche schiaffo.

Agitavano antichi vessilli il sindaco e il suo predecessore, «si ispiravano» (come i pittori della domenica) rispettivamente al fascismo e al comunismo che da parecchie stagioni non esistevano più al mondo. Uno che conosceva gli anfratti del pensiero dell’attuale borgomastro mi disse che nell’intimità della sua cerchia si rifaceva al socialismo nazionale, vagamente prussiano e vagamente bavarese, ma un tedesco vero avrebbe provato le vertigini di fronte a tanta cialtroneria mediterranea.

La domenica in particolare il sindaco mi ruba molto tempo, è un ladro del tempo dei suoi concittadini. Nelle altre città europee ci sono cartelli luminosi o senza lume che annunciano gli orari dei mezzi di trasporto e nessuno sgarra mai, a Roma non usa così, «non si può fare», si dice, c’è troppo traffico, come se fosse un destino, una condizione ineluttabile, ma almeno la domenica o i giorni d’estate, quando le strade son vuote e i bus dimezzati, non sarebbe male sperimentare un orario fisso, una indicazione che sottraesse la gente a un’attesa vaga, a sonnolente soste, buttata sulle panchine a sperimentare la Gelassenheit heideggeriana o in piedi a fissare l’orizzonte vuoto. Forse si preferisce che i romani siano alla mercé dei misteriosi capricci dell’azienda, e così nei giorni di festa il mio sindaco escogita dei sequestri di persona, ci affida al caso, ci imprigiona nei quartieri lontani dal centro, e saltano gli appuntamenti e i programmi. Da molti anni comunque gli abitanti borghesi non prendono più i ‘mezzi pubblici’ (taxi a parte) perché i viaggi in bus sono ormai roba da africani con i sacchi delle mercanzie e da badanti liberate per qualche ora dai loro vecchi, gente il cui tempo non vale niente per l’autorità, mentre a Zurigo pure i banchieri vanno in tram perché se il loro sindaco rubasse il tempo ai zurighesi come fanno ai romani, loro con il vantato rigore calvinista lo caccerebbero a pedate. Quanto ai piccoli imbrogli del culturame distribuito alla plebe onde confondere con un po’ di fuffa i votanti sulla capacità dei votati a risolvere i problemi essenziali, basterebbe una seria indicazione di Karl Kraus, severo censore della sua Vienna imperiale: «Il fatto che esistano delle vetture pubbliche che conducano il poeta rapidamente e comodamente al suo tavolo di lavoro è per lui più importante del sapere che nel museo della sua città è appeso un autentico Correggio. Per il filisteo invece il Correggio è indispensabile anche se non è in grado di distinguerlo da un autentico Knackfuss». Alle fermate romane il poeta viene incatenato, la scrivania una mèta lontana, i versi restano nella testa; gli ultimi soldi delle casse capitoline sono impiegati per tappeti rossi da far sporcare dalle scarpe dei divetti, feticismo popolare per la goduria dei filistei di borgata.

Non soffrono solo i poeti. Una gentile coppia di provincia, anziani con i loro guai, chiese sommessa al guidatore del bus ancora fermo al capolinea quanto ci volesse per arrivare alla stazione Tiburtina da dove partiva, un’ora e mezza più tardi, un pullman che li riportava a casa. «Mo’ mi collego col satellite e ve lo dico», fece quello beffardo. «Ma che ne so – aggiunse cercando un sorriso complice tra gli altri passeggeri adusi alla faccenda – un’ora, due, secondo il traffico, le manifestazioni, la gente che sale». Il servitore pubblico, come tutti i suoi colleghi,  i suoi capi, il suo sindaco, guardava con irritazione a chi chiedeva un dato preciso, un numero.

Il sindaco mi ruba anche il mare, la spiaggia romana di Castel Porziano, un luogo unico al mondo, lo diceva anche de Chirico che di siti divini se ne intendeva, non come le sciurette che conoscono solo i tropici tutto compreso. Un posto da re, dunque, che un tipo che aveva preso il posto del re al Quirinale donò (anche se non era suo) al popolo romano (che ne era comunque il più legittimo proprietario, visto che anche il re aveva rubato la reggia al papa). Come nelle fiabe, il gesto prodigo fu accompagnato da alcune disposizioni (pena, nel caso di violazione, la fine dell’incanto): il dono era perpetuo ma nessuno avrebbe dovuto mai chiedere una lira per l’ingresso, anche le docce sarebbero sgocciolate senza spesa e così i servizi, guai a chi si fosse impadronito di un metro di quel litorale di dune, autorizzato appena lo spazio per banchetti con un qualche panino e bibita, ma gli addetti municipali avrebbero dovuto impiantare le fontanelle romane in ghisa per far sgorgare l’acqua freschissima gratis et amore Dei, e se uno proprio non sapeva fare a meno dell’ombrellone o della sdraio che se li portasse da casa. Per alcuni decenni gli ordini dello pseudo-re generoso furono osservati e Roma potette vantare una spiaggia da dolce vita, ma il sindaco di prima si comportò da strega cattiva, violò le prescrizioni del donatore e annullò il dono, gelò il paesaggio, lo riempì di merci, ciarpame cheap, privatizzò la spiaggia. Così nell’eden apparvero migliaia di lettini tutti uguali e gente allettata come in ospedale, e scritte burine di «beach» ovunque, e fontanelle secche per fare arricchire bar e ristoranti grandi e invadenti come in un centro commerciale, e rumori d’ogni genere, anzi il sindaco attuale si mise a finanziare palchetti e ballerini che vi sculettavano sopra mentre gli amplificatori diffondevano il techno suono fin tra le onde a disturbare e confondere i pesci.

Di giorno i principali monumenti della città sono circondati da uomini e donne mascherati da antichi per chiedere soldi, il «primo cittadino» è dalla loro parte, a rovesciare la storia di Roma in farsa commerciale, ad allestire la quotidiana atellana triviale. Di notte il sindaco fa imbrattare le strade con le sue scritte e i manifesti del suo partito. Anche sulle tabelle dei bus mettono la pubblicità personale del boss capitolino e dei suoi compari. Lui, equanime, non cancella neppure quella degli avversari e Roma appare tutta una bruttura.

Di tanto in tanto mi irrito perciò con un simile personaggio, gli impreco contro, da solo o in compagnia di altri snervati. Poi mi dico che questa gente infelice, come quasi tutti i politici, non deve rovinarci le ore fulgide che il Cielo concede agli abitanti di Roma. Provano a deturpare, offendere, intralciare, immalinconire la città eterna ma l’eternità non si lascia coinvolgere troppo dai gesti arroganti: ne ha visti innumerevoli ed è sopravvissuta loro allegramente. Né gli abitanti, scetticoni come sono, presterebbero mai fede alle ipotesi tedesche secondo le quali l’Italia amministrata da menti germaniche sarebbe perfetta. Anzi, questa idea di perfezione ci turba, il paradiso in terra sembra blasfemo e innaturale. Per una valle di lacrime come è questo mondo lo splendore di Roma suona già abbastanza eccentrico. Che i bus scorazzino pure selvaggiamente, che i tempi si allunghino in una parodia di eternità, che gli ometti con la fascia tricolore provino a ridurre l’urbe alle loro misure: non servono neppure da contrappeso a quella gloria, non pareggiano con tali miserie la fortuna incredibile che abbiamo, il piacere di essere qui.