mercoledì 31 ottobre 2012

Aspettando la liturgia celeste

~ MENTRE A ROMA CONFLUISCONO
I TESTIMONI DEL RITO LATINO,
LEGGIAMO UNA SFOLGORANTE PAGINA
DI CRISTINA CAMPO ~

La forma antica del rito romano non è mai stata abrogata, il messale di san Pio V, il messale della cosiddetta ‘messa tridentina’, fu promulgato ancora da Giovanni XXIII esattamente cinquant’anni fa e, «per il suo uso venerabile e antico», dice Benedetto XVI, tale forma del rito romano deve essere tenuta da tutti «nel debito onore». Questo il succo del motu proprio Summorum pontificum che i pellegrini di tutto il mondo in arrivo a Roma festeggiano a cinque anni della sua pubblicazione, festeggiano pregando, in latino naturalmente, con solenni celebrazioni che culmineranno il 3 novembre in una messa pontificale di rito romano tradizionale nella basilica di San Pietro. L’eterna liturgia cattolica risplenderà per tre giorni, ma i suoi fedeli sono ormai una esigua minoranza. Il Summorum pontificum decreta che quel rito è venerabile, non da buttare nella discarica della storia, come pretendeva qualche vescovo di mezzo secolo fa, e neppure da consegnare agli antiquari per il piacere degli esteti, ma concesso ai pochi che ne fanno richiesta superando svariati ostacoli d’ordine burocratico e la diffidenza dei vescovi. Siano rispettati coloro che pregano in latino, dice il papa; ovvero, nell’et et inclusivo del cattolicesimo vengono contemplati anche questi bizzarri, i venerabili nostalgici o fratelli maggiori, leggermente decrepiti (che ne sanno i preti senza memoria della preghiera che apre la messa in latino «Ad Deum qui laetificat iuventutem meam»?); intanto la maggioranza continuerà a partecipare al rito svilito e avvilente («ridicolo» in alcune sue parti lo definirono eminenti porporati). Che si trattenga il sorrisetto, è la raccomandazione papale ai vescovi più modernisti, si usi la pietà cristiana, anche il rispetto, l'onore appunto, verso coloro che pregano come ai tempi di san Gregorio (il revival alla moda del cristianesimo delle origini vale solo per le architetture spoglie). E più o meno così apparirà agli occhi anche dei più benevoli il pellegrinaggio Una cum papa nostro sotto le telecamere incuriosite. Nel corpo della Chiesa la faccenda sarà più dolorosa, ma non troppo. I giovani che affollano la liturgia ‘tridentina’ smentiscono i luoghi comuni, non promettono rovesciamenti di maggioranze e trionfalismi fuori luogo. I manager in clergyman confidano semplicemente nel dogma commerciale secondo il quale la varietà dei riti arricchisce l’offerta. Piccole eresie folcloristiche, per cui il gergo più profano, talvolta truculento come il rock, entra nel sacro, non preoccupano più neppure gli addetti alla difesa della fede. Così la «partecipazione all’immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza», diceva già, con acume, il Breve esame di Ottaviani e Bacci.

Del resto, alla distanza di circa mezzo secolo, risulta maggiormente sbalorditiva, quasi incredibile, la scarsissima resistenza che si oppose allo sconvolgimento della liturgia nel caotico dopo Concilio. In pochissimi anni, il clero e i fedeli della Chiesa universale si arresero alla novità. Eppure quanti di quei sacerdoti e monaci e frati avevano prestato il giuramento antimodernista ed erano stati educati nei seminari dalla Pascendi; quanti dei fedeli cattolici erano stati allevati dal magistero di Pio XII, con l’Index librorum prohibitorum che li avrebbe dovuti tenere al riparo dalle letture progressiste: gli allettamenti satanici della modernità furono più forti. Ci si liberava dal passato, si sperimentava l’eccitante novum nel sacro. Né fu notato allora, se non in cenacoli assediati, che l’ultimo anello dell’Antica Roma – avrebbe detto Hofmannsthal –, e forse di quel che restava della cultura europea, veniva spezzato.

Tra le dispute sgraziate, Cristina Campo seppe spiegare con le parole più precise la tragedia che stava accadendo. La cultura cattolica proliferata in università, accademie, riviste pareva dissolversi o forse non esisteva più da tempo. Cristina invece, non soltanto produsse «la più bella prosa italiana che si possa leggere» (Calasso) – smentendo le povere giustificazioni delle avanguardie che si crogiolavano nelle macerie –, ma negli anni in cui anche i più ispirati dei riformatori sembravano colpire a morte la liturgia, cercò di portare in salvo il deposito sacro ed estetico della tradizione millenaria. Non era una teologa né tentava, come molti fanno oggi, di costruire castelli in aria teologici. Si presentava come cronista di cerimonie impalpabili, miniaturista di liturgie celesti che si riflettevano nelle chiese romane, avviava nobili polemiche, scriveva lettere di esortazione, tesseva i nodi segreti del tappeto della tradizione, rivendicava l’insegnamento paolino, «le donne nelle assemblee tacciano» (1 Cor., 14, 34), ma trascinava poi uomini insigni alla sua santa battaglia. Intrepida come una Caterina da Siena del rito, interlocutrice e amica del responsabile del Sant’Uffizio, l’energica quanto fragile Cristina prestò la penna al porporato per la Breve analisi critica del «Novus Ordo Missae», firmata dai cardinali Ottaviani e Bacci, in realtà composta da lei, assistita da monsignor Guérard des Lauriers, nel giro di poche e tormentate notti (il cardinale trasteverino, il «carabiniere della fede», come era chiamato Alfredo Ottaviani, evidentemente si fidava dell’ortodossia della scrittrice). Né temette di offrire parole di consolazione al vescovo Marcel Lefebvre che per la difesa della «Messa di sempre» fu attaccato con una violenza d’altri tempi proprio mentre si riversavano tolleranza e misericordia verso tutti i più diabolici avversari. Oggi, nei giorni in cui convengono a Roma i fedeli al latino «corazza aurea della Chiesa cattolica», litigiosi, divisi, poco angelici e molto peccatori (ma una volta tanto con la consapevolezza dogmatica di esserlo), grati alla Provvidenza per questa donna che nel silenzio dell’epoca impose con espressioni dardeggianti la voce della eleganza cattolica, rileggiamo insieme le sue Note sopra la Liturgia (tratte da Sotto falso nome, Adelphi, 1998, pp. 129-135).

Note sopra la Liturgia

1. Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. «Beato» dice san Francesco «quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose».

È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi. compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, «come se i fratelli assenti fossero presenti». E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.

In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta «nell’ora dolcissima di Compieta», mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il «delicato giovinetto», «tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo». Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.

La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga, per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione.

Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

2. Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l’«immensa e delicata» liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole-Cristo – Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam.

In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

3. Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell'estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitable che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.

La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: «Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me» – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.

«E l’odore si sparse per l’intera dimora». Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giustamente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. «Ella mi prepara per la mia sepoltura» disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l’«ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d'incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: «Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?».

La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un'operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravita che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

Qui finiscono le Note fiammeggianti di Cristina che assumono un senso speciale in questo triduo che si celebra a Roma intorno alla festa d’Ognissanti e alla commemorazione dei defunti, cioè alla Chiesa trionfante e festante che elargisce le sue indulgenze e alla Chiesa purgante che soffre e si purifica con i suoi fedeli oltre la tomba. Nell’asse del pellegrinaggio si avranno come due fuochi: la basilica di San Pietro e la chiesa delle Trinità dei Pellegrini. Su quest’ultima, fondata da Filippo Neri, dedichiamo ai tanti pellegrini della Missa romana che vi si affolleranno una citazione dal Diario dei fratelli Goncourt. Loro così sarcastici in genere sulle cose religiose, non possono nascondere la sorpresa provata in una visita alla chiesa e all’ospizio della Trinità, il 20 aprile 1867, giovedì santo. «Un indimenticabile quadro», ammettono, descrivendo i membri della Confraternita, tra cui cardinali, principi e gentiluomini, inginocchiarsi e procedere alla ‘lavanda dei piedi’. «Una certa emozione di fronte a tale impietoso richiamo all’uguaglianza. In fondo, la religione cattolica appare una grande fonte di umanità e mi irrito nel vedere delle persone intelligenti, degli spiriti eccelsi, mettersi in ginocchio davanti alla religione disumana dell’antichità. Tutto il tenero, tutto il sensibile, tutto il bello commosso del moderno proviene da Cristo» (Journal, vol. III, 1866-1870). Lo sfarzo romano, la sontuosa liturgia romana sembrava toccare pure i cuori dei Goncourt.
Sulla ‘parrocchia tridentina’ che opera a Roma, si veda anche un vecchio articolo dell’«Almanacco»: